IL CAVALLO CON I PORRI

IL CAVALLO CON I PORRI – racconto breve – quasi vero

 CAV 1

- Carlo in quei giorni era felice e, da pochi anni, era anche un tecnico tessile diplomato. Dire tecnico tessile, a Prato, voleva dir tanto; era far parte di una categoria apprezzata, ma non chiusa, non certo un gruppo sociale esclusivo i cui membri fossero uniti da comunanza di nascita, di censo o di religione.

La scala sociale in questa città era accessibile. Qualunque figlio di operai poteva scalare e diventare, dopo aver fatto il Buzzi un bravo tecnico tessile, anzi un “tennico”; parola che, detta alla pratese assumeva un significato particolare.

Un vero tennico di solito, anche tra la peluia dei telai o davanti agli schizzi della fola stava in giacca, magari senza cravatta ma rigorosamente con il “regolo” ben visibile nel taschino. Poteva succedere che per la strada o nel bar venisse additato: “... guarda... quello gli è i’ tenniho del tale... o del tal’altro... ma lo sai quanto prende, eh?... ”

Egli però, poteva dire di essere un vero tennico se le cose gli andavano bene; se a “Prato Espone” la collezione gli era andata bene, se arrivavano le pezze campioni, se poi fioccavano gli ordini, se le qualità che aveva realizzato come prototipi non facevano confondere al momento della produzione.

Se uno solo di questi fattori veniva meno, lui si angosciava e deperiva e, tornando a casa con il viso torbo la moglie poteva intuire che c’era qualcosa di storto, un qualcosa che anche quella notte lo avrebbe agitato. Ma, quando egli passava indenne dalle varie forche caudine dell’ultima collezione, ecco, allora si sentiva davvero un tennico.

Infine, in questa singolare città la cui gente era abituata ad essere accompagnata dappertutto dall’incessante sottofondo dei telai, dove camion carichi di pezze di tutti i colori scorrevano veloci per le strade mentre la mente dei pratesi era costantemente rivolta al lavoro, lo stesso tecnico, avendo sufficiente spirito d’avventura poteva ambire a diventare imprenditore; e qui oltre alla competenza sarebbe stato necessario il finanziamento giusto e un po’ di coraggio. La competenza, l’intraprendente perito tessile se l’era più o meno già fatta dedicandosi senza risparmio per ore e ore, spesso immolando sabati e qualche domenica, alla “ditta”. Al finanziamento avrebbe pensato senza eccessivi problemi la “mamma”, come veniva chiamata affettuosamente la “Cassa di Risparmio e Depositi di Prato”, mentre il coraggio, se ce l’aveva, lo tirava fuori da sé, incoraggiato dallo spavaldo esempio di coloro che si erano già avventurati in quella strada.

- Ma Carlo, al momento, più che pensare ad un suo eventuale e radioso futuro, pensava al suo felice presente. Si era sposato da un mese o poco più con Giulia, una ragazza dai grandi occhi chiari sognanti e, come diceva a tutti la sua mamma con una sorta di reclame pubblicitario che faceva irritare un po’ l’interessata: – fatta con i’pennello –. Tuttavia mamma Dora, rare volte, rivolgendosi al genero, aveva aggiunto con un sospiro: ­– ... certo... se l’avesse anche cinque centimetri in più... vero... – e poi, dopo una pausa seguita a sua volta da un complice sorriso: – ... ma l’è bella lo stesso, via... di’ la verità... come te l’ho fatta? eh? ... –

Lui, il tennico, non ci pensava neanche a quei centimetri, anzi, gli pareva che quell’esser non troppo statuaria, conferisse alla figura della Giulia, un’aggiuntiva tenerezza. Semmai ne trovava un altro di difetti ma di diversa specie che, tuttavia, inficiava soltanto per poco o per niente la stima e la forte attrazione fisica che provava per essa.

Giulia, insieme ai suoi genitori, aveva frequentato fin da piccola un folto gruppo di terziari carmelitani e il frate del quale era mentore, ispiratore e, fin troppo secondo Carlo, considerato in profumo di santità. In quel contesto, peraltro di brave persone, si condivideva una religiosità e una fede molto devozionale e, come egli dubitava, più epidermica che vera.

Invece Carlo aveva avuto un percorso diverso. Nell’Azione Cattolica giovanile in cui si era inserito da adolescente aveva respirato in qualche modo sia il clima culturale del sessantotto che le suggestioni innovative del Concilio Vaticano II. Certe prese di distanza, certi distinguo, qualche interrogativo riguardante alcuni difficili dogmi ecclesiali e infine il sentire l’esigenza di una fede autentica che non fosse troppo incline al compromesso; tutto questo aveva maturato in lui un esser cristiano un po’ superbo, un atteggiamento giudicante, una diffidenza verso alcune manifestazioni popolari e devozionali.

Giulia, per la verità, così gli veniva di pensare, di quegli aspetti visti da lui come negativi non sembrava aver risentito; la ragazza pareva aver assorbito da quell’ambiente solo cose positive. Era una giovane donna con idee chiare, concreta e decisa.

In tutti i casi poi, alla fine di tutti quei ragionamenti, egli sosteneva fra sé che chiunque, si sarebbe potuto facilmente innamorare di Giulia senza neppure vederla, anche soltanto a sentirla per telefono. Quella sua voce così femminile ma senza sdolcinature e naturalmente suadente, che tuttavia non si sprecava in troppe parole e faceva immaginare una di quelle bellezze non comuni che sicuramente traevano origine dall'animo stesso.

- L’aveva conosciuta ad una festa in casa, durante una di quelle tipiche feste anni ’60 che si svolgevano sotto lo sguardo vigile dei genitori, quando la casa ospitante era di una ragazza.

Le canzoni più ascoltate e ballate in quella domenica pomeriggio di settembre, una domenica già tiepida ma che sapeva ancora di colori e di odori della villeggiatura appena trascorsa e già rimpianta, erano: “Non son degno di te” e “Il Mondo”, le colonne sonore di quell’estate.

Carlo aveva ballato a lungo con quella ragazza molto carina, al modo di come si ballava allora; quasi sempre sulla stessa mattonella, quasi sempre con lo stesso dondolìo sull’anche, mentre attraverso la delicata puntina e l’altoparlante del nero giradischi governato di volta in volta da qualche volenteroso, scaturiva la lenta melodia che dava il ritmo. Solo ogni tanto lo scatenarsi di qualche frenetico twist interrompeva la romanticheria della festa. Ma tra Carlo e Giulia non c’era stata ancora la vera scintilla.

La rivide dopo molto tempo durante la licenza cosidetta “ordinaria” del servizio militare nel centro cittadino, in un’altra domenica pomeriggio di un giugno dolce e assolato. Mangiarono insieme un gelato, poi qualche chiacchera, molti sguardi e sorrisi e lo scambio d’indirizzi su dei fogliettini: – ... scrivimi... – disse lei – ... raccontami della vita di caserma... –

- Infatti si scrissero due o tre lettere abbastanza lunghe. Poi, nel periodo morto che precedeva l’ultimo “Car”, Carlo, istruttore con tanto di orgogliosa cordicella rossa sulla spalla, progettò una temeraria “fuga” di due giorni, una pratica già sperimentata in passato ma un po’ rischiosa. Con l’autostop, allora era molto facile spostarsi in quel modo per un soldato, raggiunse la Versilia dove Giulia era in campeggio con dei parenti.

In quel giorno trascorso insieme sulle prime propaggini delle Apuane, si scoprirono e si dissero con il cuore in tumulto che erano fatti l’uno per l’altra.

Rientrò in caserma soltanto mezz’ora prima della chiusura del cancello e poco prima dell’allarme generale lanciato in tutte le caserme d’Italia. Infatti alle ventitre del giorno precedente, il venti agosto 1968 i carri armati sovietici avevano varcato la frontiera cecoslovacca puntando su Praga, dove avrebbero messo fine con il sangue all’omonima “primavera”.

Per amore, un amore ormai già sbocciato egli aveva sfiorato certamente la possibilità di scontare un po’ di reclusione in Cpr. Ma anche avendo saputo per tempo del pericolo il caporal maggiore Magni avrebbe comunque corso quel rischio.

Dopo il congedo non passò un giorno senza che i due si vedesero, innamorati persi, parlando e progettando già il futuro che vedevano per loro non banale, ma con ideali da realizzare.

- In quell’anno, nel 1972 appunto, appena un mese prima del loro matrimonio si erano svolte le elezioni politiche anticipate. Dopo una campagna elettorale cupa e incerta, risultò che la DC avesse tenuto alla grande, il MSI si vide raddoppiare i consensi mentre il PCI era rimasto fermo. Sullo scenario internazionale, in piena guerra fredda si susseguirono incontri importanti; prima quello tra Nixon e Mao Zedong e poi tra lo stesso presidente americano e Breznev a Mosca; avvenimenti che, nella speranza di tutti, avrebbero potuto frenare la corsa agli armamenti.

Non molti anni prima, nel ’68, l’anno del congedo miltare di Carlo, nonostante la rivolta degli studenti prima a Parigi e poi in tutto il mondo occidentale, le tante manifestazioni organizzate per protestare contro la guerra in Vietnam e primi segni di conflittualità operaia, l’Italia era ancora un paese tranquillo. L’economia aveva ripreso a tirare, le fabbriche del centro-nord assumevano alla grande tanti giovani meridionali.

L’Italia del ’72 invece era un’Italia preoccupata; era quella di piazza Fontana, era il paese del tentato golpe Borghese e della rivolta neofascista di reggio Calabria. Era un paese dove i morti in piazza erano tornati ad essere frequenti e che, nella comune percezione, stava cambiando a un ritmo troppo accellerato, tanto da seminare panico e creare paura. L’economia segnava pesantemente il passo e la formula politica del centro-sinistra stava mostrando la corda.

La gente, in quel clima inquieto, si era inizialmente distratta con la vittoria di Nicola di Bari al Festival di Sanremo, poi si era appassionata seguendo il giro d’Italia dominato da Eddie Merckx e infine assistendo con sentimenti diversi al quindicesimo titolo della Juventus nel campionato calcistico di serie A.

La sera del 31 maggio sarebbe stata la sera dell’importante finale di coppa dei Campioni, Ajax Inter. Carlo, quella volta, pur essendo tifoso nerazzurro, non si preoccupò più di tanto della sorte dei vari Facchetti, Oriali, Mazzola. Nell’ora di quel confronto calcistico, poi perso malamente dagli italiani, lui aveva altro da fare. Infatti, proprio la mattina di quel giorno, una radiosa e calda mattina di sole, nella chiesa di Filettole attorniata di aiuole fiorite di sorridenti margherite, Carlo e Giulia avevano coronato il loro sogno d’amore.

- La sua vita, stava pensando Carlo mentre si recava con la Renault della ditta alla rifinizione Vangi, aveva preso quindi la piega giusta. Ricordò con gratitudine la sua famiglia che, pur non avendo nulla da scialare, lo aveva fatto studiare in piazza Ciardi. Suo fratello, assai piu grande lui, gran lavoratore e tessitore artigiano, aveva insistito con il babbo che al momento opportuno Carlo dovesse fare il “Buzzi”.

Ricordava molto bene il primo giorno di scuola. Si era emozionato quando, affacciatosi all’angolo di quella piazza vide tutti quei ragazzi, alcuni molto più grandi di lui, vicino alla vecchia fontana dei pesci. C’era la tradizione di “prendere la matricola” agli studenti che entravano in prima. Lui fu avvicinato da una “paglietta”, un giovane bassotto che, senza tuttavia aggredirlo, gli mise sotto il naso il blocchetto delle ricevute. Così anche lui pagò la quota che sarebbe servita a quelli dell’ultim’anno per fare l’annuale evento, il mitico e attesissimo musical al Politeama Pratese.

Fece il Buzzi con passione, quasi con divertimento e senza grandi sforzi; anzi all’esame di maturità conseguì una delle medie più alte fra tutte le quinte; allora all’esame di stato venivano portate tutte le materie, scritte e orali, ed era molto impegnativo.

- Di quegli anni ricordava bene le frequenti lezioni nell’aula magna dove il professor Ponzecchi spiegava come fare le messincarte e i bozzetti di disegno tessile. Era un’aula grande, semicircolare e a gradoni di legno ed aveva un’aria vagamente universitaria, ma non metteva nessuno in soggezione. Quelli che stavano sopra potevano agevolmente lanciare i missili e gli aereoplanini di carta. Anche a Carlo piaceva stare in alto, da dove la finestrona laterale consentiva la visione della Retaia e di galoppare con la fantasia.

Ogni tanto, su quelle montagne vi saliva con gli amici. Per lui la brulla Calvana aveva un fascino particolare specialmente in primavera. In quella stagione la Retaia o il monte Cantagrilli, raggiunti al mattino ancor presto trasudavano freschezza da ogni stelo, mentre l’aria pareva carezzare la pelle, mettendo addosso voglia e gusto irresistibile di camminare per quelle praterie fiorite.

Del laboratorio di chimica dall’aspetto misterioso con tanto di becchi e beute, Carlo ricordava invece, più che la formula dell’acido fosforico o del suo sale di calcio, la barzelletta che rimase negli annali del professor Giaconi, quella dello scontrino e delle macchinine. Oppure la descrizione pruriginosa di ciò che c’era dentro alle scatole cinesi che il professor Gravone, un siculo grasso e sogghignante aveva portato da Parigi.

C’era anche il laboratorio di tessitura, il più allegro e rumoroso, con i telai interamente in legno, dove, alternando in sincronia i movimenti, con la pedana si sollevavano i licci e con uno strattone alla manopola si comandava una piccola spola.

Ma, andando controcorrente rispetto al sentire di gran parte dei compagni, l’ora che appassionava di più il Magni era l’ora di Italiano. La professoressa Di Marco, una fiorentina bionda e un po’ appassita, mostrava per lui una certa simpatia ed era, pur atea dichiarata espertissima di Dante, il sommo poeta che cercava di far amare agli studenti, spiegando nei dettagli la sua divin commedia da tutti i punti di vista.

Adesso, dopo sei anni, tanto era trascorso dal diploma, i vecchi compagni di classe della quinta C, ognuno di loro alle prese con il mondo del lavoro, si annusavano e si cercavano ancora.

- Alla “Risaliti”, dove lavorava da tre anni, una buona ditta di via Valentini, una larga strada ancora in parte sterrata, il giovanotto vi era entrato con qualche incertezza essendo proprio agli inizi della carriera.

Aveva fatto soltanto qualche mese di pratica in una ditta di poco conto, dove svolgeva un lavoruccio anch’esso di poco conto. Tuttavia quella sua prima occupazione pur non soddisfacente, era stata l’occasione per il suo babbo per regalargli la Cinquecento blu. Disse che non stava bene per un tennico andare a lavorare con il motorino e Carlo quel gesto non se l’aspettava.

Riguardo poi all’incertezza, Osvaldo, il tecnico uscente, un viso magro e affilato e un gran ciuffo, che si era dimesso per mettersi in proprio, lo aveva molto rassicurato: “... sta’ tranquillo Magni, un c’è problema, tanto questi qui un ci capiscan nulla... ”

Il titolare, un buon uomo, si fidò davvero di lui che non sapeva fare ancora quasi niente e quella fu la sua prima vera e importante esperienza di responsabilità. Con quella spartana Renault 4 dal cambio a stantuffo dentro al cruscotto e con il pomello nero, tra una grattata di marcia e l’altra, tutti giorni dopo aver fatto “le disposizioni” girava come un pazzo per le bollenti rifinizioni, le filature, gli orditoi, e i fragorosi stanzoni dei tessitori tumultuanti di telai e densi di afrori oleosi e di bozzima.

- Poi un giorno, all’inizio dell’anno seguente, il colpo di fortuna che dette la svolta alla sua carriera. Fu assunto alla ditta Arturo Traversi & Co, un’azienda ricca con tanto lavoro, con tanti operai e quasi a ciclo completo. La Traversi, nota per la produzione di flanella di qualità, era situata proprio sulla curva di via di Grignano, una via secondaria vicino alla chiesa denominata dagli abitanti del posto come “Shangai”.

In quella fila di case adiacente alla fabbrica vi abitavano due zie e uno zio di Carlo con relativi famigliari, tra cui il cugino Remo. Era stato proprio nel vasto orto di Remo più grande di lui sette d’anni, che da bambinuccio, quando con la mamma veniva in visita a Grignano con l’autobus, amava guardare le tartarughe lente lente, alcune vecchissime, che si nascondevano sotto il fogliame delle verze o dei pomodori.

Remo, anch’egli perito tessile, aveva declinato in quei giorni l’invito del Coveri che cercava un nuovo tecnico disegnatore per sostituire Mario Stancari, un tipo molto rinomato che aveva aperto, insieme al ragioniere anche lui del Traversi, una “impannazione” per conto proprio.

– ... Marcello, perché un tu parli con i’ mi’ cugino... gli è giovane, ma intelligente... e a scuola gli era bravo... – gli aveva proposto, forse anche per tirarsi d’impiccio, leggendogli in faccia la delusione. Poi vedendolo ancora perplesso aggiunse, come per aumentar di valore quel piatto appena offerto: – ... e di famiglia specchiata... –

Marcello era il Coveri, l’uomo di fiducia della ditta. Questo Coveri era un ex cavallaio di Iolo, una frazione un po’ anomala e un po’ discosta da Prato. Quel paese aveva fieramente sviluppato una sua particolare identità, ed era nota nelle vecchie leggende per esser soprattutto un paese di ladri di polli. Il Coveri soleva ripetere, con un certo furbesco ammiccamento, che quando fu inaugurato il cimitero di Iolo, gli abitanti della frazione andarono a rubare dei morti nel cimitero di Galciana, perché in quel periodo gli “aiolesi” morivano tutti in galera.

Quindi non poteva essere che un personaggio senza pregiudizi come lui, che per queste cose come qualcuno asseriva avesse l’occhio lungo, a scegliere uno come Carlo. Il giovane infatti, al di là dell’aspetto di bravo ragazzo, aveva solo l’esperienza ancora abbastanza limitata fatta dal Risaliti.

- Lo Stancari sarebbe stato il secondo tecnico tessile che Carlo andava a sostiture, dopo quello dal ciuffo lungo, perché in progetto di diventare nuovi imprenditori; a conferma di quell’attitudine peculiare tutta pratese sviluppatasi in particolare nel secondo dopoguerra.

Nella vecchia ditta che lasciava con un po’ di dispiacere per i rapporti umani che aveva intrecciato, al suo posto, prima di andarsene, presentò al signor Risaliti un certo Alberto Ciampolini, un ragazzo timido e allampanato che non dava l’idea di essere tanto sveglio. Di lui sapeva avesse molto bisogno di lavorare essendo rimasto orfano ancor giovane. Ne disse un gran bene, spendendo così la sua credibilità un po’ alla cieca, non conoscendolo poi così a fondo.

- ... uguale, uguale... – pensò, – ... come Remo ha fatto con me... icché ne sapeva Remo di me?... che da piccino mi garbava le tartarughe?... – riducchiò.

Alberto fu assunto anche lui e si fece molto onore. Negli anni a seguire il Ciampolini, come disegnatore tessile al lanificio Pecci, uno dei più importanti e qualificati del circondario, fu ancor più bravo, dimostrò la sua notevole sensibilità per il colore e la struttura dei tessuti, e raggiunse la vetta della notorietà nell’ambiente pratese. Era tuttavia un tipo singolare, vestiva d’estate completamente di beige, compreso il basco e lo spolverino, mentre d’inverno vestiva tutto di nero, compreso il basco e il lungo cappotto di lana.

- Al giovane Magni, però, l’eccitazione per aver avuto quella fortuna e quello stipendio mensile passò presto. Si trattava di proporre una collezione vera, complessa e importante di tessuti da uomo, da offrire alle più importanti confezioni italiane, e non come dal Risaliti che realizzava solo tessuti su richiesta precisa dei clienti. La prima collezione fu una avventura e una tortura; il solo impegno non fu davvero sufficiente. Marcello riferì, al ritorno di un viaggio di lavoro che i clienti avevano chiesto ironici e delusi se questo nuovo disegnatore fosse per caso un po’ “scoglionato”.

Una sera Carlo, scoraggiato e con il groppo in gola tornò a casa dalla sua mogliettina, della quale la figura arrotondata annunciava già la nuova vita che stava crescendo, e si buttò sul letto bocconi, quasi in lacrime. Sentiva rabbia in corpo contro se stesso per avere accettato un simile compito, un compito che ora gli appariva immane e pesante come un macigno.

Ma il vecchio Arturo Traversi e il Coveri riponevano, chissà come mai, ancora fiducia in lui: “ ... questo ragazzo c’è... questo ragazzo vien fori…” mormorava il titolare, gobbo d’artrite e ricco d’anni, ma con le mani che ancora non avevano perso il sapiente tatto, e che passava tutti i giorni tra i pianali delle pezze per toccare e controllare.

Marcello Coveri, a modo suo, lo incoraggiava e gli faceva quasi da tutore. Ogni tanto, pur senza tanta finezza, qualità che non gli apparteneva un granché, lo pungolava senza cattiveria per stimolarne l’orgoglio: – ... a tee... caro prussiano... le cose... gli è più facile mettitele in que’ posto che nella testa! – Prussiano era il soprannome che gli aveva affibbiato per via della capigliatura bionda.

- Per farlo crescere fu ingaggiato un consulente di Milano nei primi anni di notorietà, ma già molto quotato; un giovane Giorgio Armani per tre stagioni, nel suo studio di Corso Venezia a Milano gli aprì la mente e gli spiegò molte cose, aiutandolo a maturare nel gusto e nella progettazione.

Marcello ogni tanto ce lo accompagnava e, durante il viaggio parlavano, parlavano, ma soprattutto di lavoro. Sembrava che l’uomo di fiducia della ditta volesse evitare di parlar d’altro; quasi sentisse la missione, non distraendo il ragazzo con cose meno importanti, di fargli un corso accellerato per trasmettergli la sua esperienza. Lo aveva preso come sotto le sue ali, e forse per lui era diventata una scommessa.

– ... Marcello... so che tu vai alla messa, vero?... – chiese ad un tratto il giovane interrompendo la discussione sulle mani, sui colori, sugli ordini. Era incuriosito perché aveva sentito dire che frequentasse i focolarini di Loppiano, un nuovo movimento di laici cristiani. Erano già all’altezza del casello di Firenzuola e non mancava troppo a Milano. – ... sì, sì, certo... anche te, vero?... – rispose.

Ma, ritornando subito sull’argomento dell’imminente collezione mostrò di non gradire quella digressione. Eppure Carlo sapeva anche di certi suoi gesti non ostentati di carità verso alcune persone bisognose e di quelle sue non ordinarie frequentazioni, ma non volle insistere.

Tuttavia Marcello era un personaggio. Sposato con tre figli, capelli corvini, occhi neri e lucidi su un viso scuro e arcigno, di corpo tozzo e massiccio, pur portando pesanti scarpe ortopediche si divertiva, con persone che non lo conoscevano bene, a scommettere e vincere anche grosse somme, nel silenzio notturno sull’asfalto di via Roma, con chi lo avesse battuto nella corsa veloce: – ... vien via... oh che ha’ paura?... un tu lo vedi in che condizioni sono?... –

Proveniente dall’ambiente dell’allevamento dei cavalli e delle corse al trotto, conosceva bene quel mondo e quello opaco delle scommesse e aveva contagiato in questa sua sopravvissuta passione anche i giovani fratelli Traversi, anche se negli ultimi anni si era calmato.

Tutti sapevano che in passato non fosse stato uno stinco di santo. Lo descrivevano come un po’ avventuriero e, per usare una definizione benevole assai disinvolto; la persona ideale, a bordo della sua rombante Alfetta per andare spesso a Napoli dove non funzionavano come altrove i canali tradizionali, per vendere lo stock e le rimanenze di magazzino.

- Carlo pian piano prese le misure e cominciò a far bene. Ora si sentiva un vero tennico anche lui; faceva parte della categoria a pieno titolo e quando si fermava al bar Martino per un caffè con il regolo d’ordinanza nel taschino, c’era sempre qualcuno, tessitore o fornitore che fosse, che lo riconosceva e lo salutava. Il Coveri e i due figli Traversi che intanto avevano preso le redini della fabbrica, era proprio il caso di dirlo, dopo la morte del vecchio, lo portavano talvolta alle corse dei cavalli alle Cascine, a Montecatini o da altre parti.

Una volta Marcello volle che Carlo lo accompagnasse alle Caserane dove, presso un allevamento specializzato tenevano un buon puledro da trotto a cui erano venuti dei porri sul muso, sugli orecchi e sulle cosce vicino ai genitali. – ... vedi prussiano... un cavallo da corsa... – gli spiegava con dispiacere, – ... pol’essere i’meglio dimmondo... ma con que’porri... se un guarisce... – facendo intendere che in quel caso avrebbe fatto una brutta fine.

Arrivati sul posto trovarono i gestori che, pensierosi e in silenzio, stavano aspettando una persona chiamata lì per quello, e che doveva arrivare da Porretta. Il puledro, che si chiamava Colonnello, nervoso e inquieto grugniva e scalpitava, mandava su e giù la testa e non voleva essere toccato da nessuno. In un angolo dell’ampia stalla un cane uggiolò un po’, ma poi tacque, sopraffatto dalla palpabile tensione che si sentiva in quell’attesa.

Quell’uomo strano, silenzioso e piccolo di statura, appena arrivato e senza tanti preamboli, si mise ad accarezzare il cavallo sul collo, sulla criniera e sui fianchi e continuò a farlo per un bel po’. Pareva anche che gli sussurrasse negli orecchi parole dolci, fino a che l’animale, calmatosi, lasciò che gli fosse spalmato sui numerosi porri un certo unguento. Attento e attonito, ad un certo punto il Magni sentì anche recitare una breve e singolare preghiera accompagnata da un frettoloso gesto di croce: – ... grazie arcangelo Raffaele per le cure e la guarigione di Colonnello... – seguita da poche altre parole.

Carlo rimase colpito non solo e non tanto in quella sera stessa, quanto il giorno dopo quando, ritornando alle Caserane con il Coveri, constatò la completa guarigione del cavallino; i porri gli si erano staccati tutti.

La sua formazione cattolica che di solito e volentieri andava a braccetto con la ragione, già diffidente di certe religiosità popolari e devozionali, tanto più diffidava di gesti misteriosi e magici. Tuttavia, pur fortemente perplesso, non potè fare a meno di prendere atto di quel che aveva visto. Ma se non l’avesse visto con i suoi occhi, pensò, non ci avrebbe creduto.

L’unguento, come spiegarono i gestori dell’allevamento, gliel’avevano già dato anche loro, ma non aveva avuto quell’effetto.

- Eppure, già in passato aveva vissuto un episodio simile di cui non si era mai dato una spiegazione convincente. Era un fatto che aveva quasi dimenticato e che ora quei porri guariti da un tocco felice e da un sussurro gli avevano richiamato alla memoria.

Durante il servizio militare, mentre da istruttore stava portando il plotone all’alzabandiera a passo di marcia, camminando all’indietro mise un piede in fallo dentro una buca, cadde e si accasciò per terra. La sera stessa aveva la caviglia dolorante e gonfia di un grosso ematoma. Le cure mediche e le varie pomate non ebbero successo. Dopo molti giorni era scoraggiato, l’ematoma si era solo di poco sgonfiato e lui camminava ancora dolorante e con difficoltà.

In libera uscita, una calda e umida sera di metà luglio e già frequentata dalle feroci zanzare delle risaie, anche loro in libera uscita, un abitante di Casale Monferrato, cittadina bagnata dal fiume Po e abitata più da soldati che da civili, gli suggerì di andare da una certa donnetta nel borgo vecchio: – ... nè, giovnòt... vëdde che la Gioanina te sistemé ben... – E lui ci andò; ormai le aveva provate tutte.

La casa era proprio vecchia come la padrona che, dopo aver acceso una candela posta sotto ad un piccolo tabernacolo mariano, con un gesto lo fece sedere e gli fece togliere il calzino.

Carlo, a chi gli chiese in seguito come fosse andata, non potè dire con certezza che la donna lo avesse proprio massaggiato. Semplicemente, mentre intanto le zanzare venivano ronzando intorno alla fiamma della candela, la vecchia si limitò, con fare sapiente, ad accarezzargli la caviglia per qualche minuto come potevano farlo quelle mani esili e incartapecorite.

Adesso, a distanza d’anni, non si ricordava più se gli avesse spalmato anche un qualche unguento, ma si rammentava però di certe preghiere borbottate piano piano, forse in dialetto.

Il caporale, una volta rimesso il calzino e la scarpa aveva insistito per una qualche ricompensa, ma la vecchia non volle nulla di nulla. Si sentiva sollevato; mentre le cime degli alberi del lungo viale ondeggiavano per la leggera brezza levatasi e che presagiva l’arrivo di un temporale estivo, potè fare la strada di ritorno quasi in modo normale. Il giorno dopo non aveva più niente.

- Nei giorni seguenti alla guarigione di Colonnello, realizzò che la realtà, forse, potesse essere un po’ diversa da come, nei suoi schemi mentali avesse disposto e organizzato.

Ma non tanto per il ricordo tornato a galla dell’ematoma guarito e per la vicenda del cavallo, o non solo per quelli; dopotutto poteva anche essere che l’unguento dell’uomo di Porretta o quello della vecchiarella fosse migliore degli altri. Era il suo cervello che stava ragionando in modo diverso.

La Giulia si era dimostrata, come sorridendo di tenerezza diceva tra sé per associazione di idee, una fattrice prolifica, e gli aveva già regalato quattro figlioli, uno più bello dell’altro. Il tecnico disegnatore tessile, questa era la definizione giusta per chi faceva il suo lavoro di ricerca e di progettazione, aveva adesso la responsabilità di una famiglia ed aveva ormai trentaquattro anni, un’età ancor verde ma che, come sentiva per se stesso, portava a considerare le cose in modo meno presuntuoso e radicale, riguardo a certe antiche e giovanili certezze.

- Una volta, era trascorso un anno dalla vicenda del puledro guarito, durante un viaggio nelle Marche, Marcello si aprì con il prussiano come non aveva mai fatto: gli raccontò come aveva vissuto, per quanto riguardava il suo personale rapporto con il Padre Eterno, la sua vicenda di conversione alla fede, una vicenda non esattamente comune.

Un giorno di quasi dieci anni prima il Coveri, spinto da una necessità familiare a quanto pare urgente, e dalla fama di guaritore d’anime e di corpi sempre più vasta in quegli anni di padre Pio da Pietralcina, una mattina quasi improvvisando, l’ex cavallaio era partito per San Giovanni Rotondo con la sua Alfetta. Per lui, abituato alle frequenti e lunghe distanze, forse non era proprio la via dell’orto, ma neppure un qualcosa di speciale. L’uomo si presentò al convento forse convinto di rapportarsi con questo frate come faceva con i suoi clienti napoletani. Ma il cappuccino, cosa che sappiamo aver fatto con tante altre persone che non sentiva disposte alla conversione, lo scacciò in malo modo. Marcello era rimasto scioccato, nessuno lo aveva mai trattato in quella maniera.

Dopo qualche ripensamento era tornato dal frate ed era andata molto meglio e poi era vi anche ritornato. Così gli occhi del Coveri, aiutato in questo anche da altre amicizie che non fossero solo di cavallai e scommettitori, avevano cominciato a vedere il mondo con gli occhiali della fede. Continuò ad andare a quel convento fino alla morte del carismatico frate avvenuta nel 1969. – ... pe’ di’ la verità ci vo ancora ogni tanto, tenniho... se tu vo’ venire una volta dimmelo... – precisò inoltre l’uomo di fiducia alla guida della macchina.

Stavano attraversando il valico di Colfiorito e intorno il paesaggio dolce dell’altopiano scorreva e accompagnava il racconto dell’uomo a cui, ad un certo punto si strozzò un po’ la voce.

– ... oh Coveri... – gli fece allora Carlo, guardandolo con un sorrisino, – ... un ci avevo ma’ fatto caso... ma lo sai che ti si vede un po’ l’aureola?... – ... oh tenniho... – ribattè il cavallaio, – ... te t’ha proprio voglia di prendimi per il culo... eh? – Risero tutti e due e poi cambiarono argomento. – ... comunque... – aggiunse poi girandosi e facendogli l’occhiolino, – ... oh prussiano... ora tu se’davvero un tennico... ma te ne riordi come t’eri tre o quattr’anni fa... eh!... –

Carlo aveva cercato istintivamente di sdrammatizzare ma era rimasto molto colpito dalle parole del suo mentore e amico, da quel resoconto fatto con un po’ d’emozione a tratti repressa con fatica. Si sentiva essere stato, l’incontro con il frate decisivo nella sua vita.

Il Magni sapeva già qualcosa; sapeva che Marcello, in fabbrica e con chiunque si rapportasse, rispetto a qualche anno prima, alla gente apparisse molto cambiato. Nei primi tempi qualcuno stentava a credere ai propri occhi ben avvertendo quella sua diversa e nuova sensibilità che proprio nuova probabilmente non doveva essere; sotto a quella scorza dura forse c’era già, pur nascosta.

Tutto questo, riguardo ai suoi orgogliosi pregiudizi di una volta, aveva fatto ancor più riflettere il tecnico disegnatore Carlo. Era stato l’incontro con il frate cappuccino a fare di Marcello un’altra persona. Era stato l’ascolto delle parole del carismatico frate, parole semplici, non dotte, parole che gli erano arrivate al cuore e che gli avevano svelato il senso vero della propria vita.

Il Coveri, prima di spengersi per un tumore in età ancora abbastanza giovane, visse alcuni mesi di sofferenza. Quel giorno, quando Carlo e Giulia ritornarono a trovarlo, Marcello stava già molto male. Lo stavano aiutando in quella sofferenza con la morfina e lui, mezzo addormentato, parlava a malapena.

Quando però li vide apparire al suo capezzale il viso gli si illuminò, ma non potè dire null’altro se non esprimere con lo sguardo e con un leggero cenno della testa la propria gratitudine per la visita. Mentre Giulia, con l’avvedutezza e l’intuito di una donna, seppe dire le poche cose adatte alla circostanza, Carlo, imbarazzato, non riusciva a spiccicare una parola.

Così, a dargli una mano per tirarlo fuori dall’imbarazzo, come aveva già fatto tante altre volte per un altro genere di imbarazzi, ci pensò ancora Marcello. Con movimento incerto e tremolante allungò la mano per sfiorare quella del tennico mentre, facendo forse ricorso alle ultime risorse, con quell’occhio vitreo e spento cercò di fargli l’occhiolino, il suo abituale e antico gesto di complicità.

Carlo, quella mano, gliela raccolse e gliela strinse piano, per l’ultima volta.

 

   fine

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