L'ALLUPINO ERNESTO DABIZZI

L’ALLUPINO ERNESTO DABIZZI – racconto breve –

 

– ... oh... o in do’ vo a cercalla... mah... si starà a vedere... se un la trovo, un la trovo... –

Ernesto Dabizzi era un po’ era preoccupato e, a pensarci bene anche un po’ divertito. Lui stava bene anche così e di prender moglie ormai aveva smesso di pensarci da tempo. – Certo, se la Gina la un m’avesse detto in quel modo, a quest’ora... –

Dicevano che il duce avesse messo una nuova tassa, la tassa sul celibato. La tassa era effettivamente entrata in vigore da febbraio e dal Romei, qualcuno lo stuzzicava: – Ernesto... mettiti in cerca... sennò tu paghi... –

Si doveva applicare solo alle persone non sposate di sesso maschile allo scopo di incrementare i matrimoni e, di conseguenza, le nascite. Una popolazione numerosa atta alla patria nel perseguimento di certi obiettivi di grandezza e per avere un esercito forte e numeroso.

Ernesto viveva solo con la mamma in tre stanze nell’abitato di Carmignanello e faceva l’allupino. Quella sera aveva preso lo stradello che dalla fabbrica costeggiava il Bisenzio e che poi risaliva sulla strada più a valle. In quel punto la corrente era forte e più ancora che scorrere pareva ribollire.

Guardava l’acqua sovrapensiero ritornandogli in mente quel brutto giorno quando la Gina per la prima volta lo aveva messo sull’avviso: – Ernesto... non te ne prendere a male... la me l’ha detto anche la mamma... se tu ti lavassi un po’ di più... –

Ma lui non lo faceva apposta, ormai l’odore della lana gli era entrato nel naso e non gli pareva di emanare un cattivo odore. La sua mamma ammalata di polmoni non aveva abbastanza forza per sbattere i panni ai lavatoi e non avevano l’acqua corrente in casa; per il minimo uso domestico lui andava a prenderla con le mezzine. Non lontano verso il greto del Bisenzio, accanto a dove aveva fatto un po’ d’orto vi scaturiva una polla d’acqua chiara.

Poi la Gina un giorno l’aveva lasciato e da quel giorno ormai erano trascorsi cinque anni; era stato un brutto colpo, a lui quella figliola gli sarebbe piaciuta e a nulla valsero i goffi tentativi di riavvicinamento fatti nei giorni successivi. Ora ogni tanto ora la vedeva con il suo bambino già grandicello; incrociandola abbassavano gli occhi tutti e due, lui per il rimpianto, lei perché le era toccato poi un marito violento, con il dubbio che quel difetto fosse più grosso del difetto del Dabizzi.

Ernesto era scocciato, non solo per la tassa, e sì che gli sarebbe scomodata, con la mamma che aveva bisogno di certe medicine, ma anche per come stava andando la sua vita, un po’ alla deriva.

Sentiva d’essere come un ciuffo d’erba sull’acqua, uno di quei deboli cespugli abbarbicati sulle sponde del Bisenzio che sono lì a lasciarsi lambire e tentare di lasciarsi andare.

– Se non era per la mamma che bisogna tenerla come l’ova, a quest’ora come minimo ero a Prato... o da qualche altra parte... – brontolava tra sé. Non ce l’aveva con nessuno; la sua vita stava andando in quel modo e vi si era, almeno per il momento, adattato ma non rassegnato del tutto.

Da ragazzo, finchè era vivo il babbo, aveva frequentato la scuola a Mercatale di Vernio fino alla sesta; gli piaceva la geografia e la maestra diceva che avesse una gran bella calligrafia. Aveva fatto tutti i giorni quella strada di sei chilometri e, a volte, quando il barrocciaio che faceva quel servizio si sentiva troppo malinconico per l’abbondante mescita della sera avanti la faceva a piedi, sia con il sole cocente sia che piovesse a dirotto. Durante quella strada sognava; sognava posti ben più lontani di Mercatale, magari Firenze con il Ponte Vecchio o Roma per vedere il Colosseo, o Venezia per vedere le gondole, immaginate tante volte per via dei disegni stampati sul sussidiario. Ma poi, giovanissimo, rimasto solo con la mamma, fu preso come aiutante alla “Lupa” dal Romei e ancora quello, all’età di ventisei anni, era rimasto il suo lavoro.

Era quasi arrivato; a un certo punto, nel tratto in salita, lo stradello costeggiava il retro delle case. Mamma Ida non era proprio vecchia, ma avendo quel “mal sottile” che la rendeva così magra e delicata, non sopportava il peso di niente, neppure forse il peso della vita. Sentì sui ciottoli i passi familiari e con voce fessa lo chiamò: – Ernesto, prendi l’acqua... e qualche foglia di basilico... – Alla finestra, con la calza in mano, usava trascorrere il tempo osservando i radi passanti e biascicando il rosario.

– Sul mar che ci lega coll’Africa d’or, la stella d’Italia ci addita un tesor...Tripoli, bel suol d’amore... –

Così si cantava in quegli anni, e il lanificio Romei, con la seconda guerra di riconquista della Libia, aveva tanto panno militare da fare da non sapere come farlo, ed aveva assunto altro personale. Non bastandogli il popolo di Carmignanello, arrivavano operai e operaie da Vernio e da Vaiano.

Il vasto edificio, ospitante tutte le lavorazioni, dal Carbonizzo alla Tessitura, era posto in mezzo tra la strada bolognese e il Bisenzio. Non era passato molto tempo da quando l’antico mulino del “Pispola” alimentato dalle acque del Gricigliana che in quel punto si immettono nel Bisenzio, e intorno al quale il Romei aveva sviluppato e ingrandito il lanificio, funzionava da mulino per il mugnaio e insieme da gualchiera per l’attività tessile.

Le persone del posto, anche grazie ad una lapide apposta per ricordo, sapevano della storia di Luigi Biagioli detto Pispola, mugnaio e oste. Egli era diventato celebre avendo ospitato senza saperlo Garibaldi in fuga dalla Romagna e, ben ricompensato dalla patria riconoscente aveva potuto avviare l’originaria fabbrica tessile. Era storia vecchia, ormai alla gente importava poco e ai più giovani ancor meno.

Interessavano di più le gesta di Alfredo Binda che, da una lontana località della Germania, durante il torrido pomeriggio di una domenica di luglio dell’anno 1927 avevano richiamato gruppi di uomini intorno ad una gracchiante radio, vincendo il primo Campionato mondiale di Ciclismo. Girardengo e Piemontesi avevano occupato il podio del secondo e terzo posto, riempiendo di orgoglio i cuori degli italiani. Il duce si congratulò vivamente di quell’italico successo.

Al mattino, in un clima di allegria e di cameratismo, piccoli gruppi di “Figli della Lupa” e di “Balilla” erano stati condotti a Vaiano con due carri a motore per una dimostrazione fascista. Gli “Avanguardisti” li avevano preceduti, orgogliosamente, a piedi.

Anche l’allupino aveva sentito la cronaca della corsa ciclistica ma poi aveva fatto il gesto di allontanarsi.

– Ernesto, dove vai?... vien con noi... si va a San Quirico a ballare... vai... – Il più svelto di loro, per tempo, aveva preso in prestito “legno” e cavallo della fattoria, ma Ernesto scosse le spalle, non ne aveva voglia.

Si diresse verso il vecchio ponte di Cerbaia, e lo attraversò. Di lì a poco passò davanti ad una casa ancora più misera della sua che da un paio d’anni era stata presa “a pigione” da una famigliola, marito, moglie e un bambino piccolo. Lui faceva il magazziniere di concetto dal Romei e di straforo ci aveva parlato qualche volta. Gli era sembrato una persona istruita e diverso da tutti gli altri operai; anzi più di una volta si era chiesto che cosa ci facesse uno come lui in un posto insignificante come Carmignanello e in quella casuccia al limitare del bosco.

Lo trovò fuori della porta a sedere su una panca, mentre faceva divertire il figlioletto con un cagnolino a cui veniva lanciato il bastone da riprendere.

– In dove tu vai di bello Ernesto? – Volevo andare alla Rocca di Cerbaia... mi portò i’ babbo quand’ero ragazzino due o tre volte e non son più tornato... – All’inizio Arturo lo guardò sorpreso: – ah sì? ... però... gli è pieno di serpe quel posto... – Lo disse facendo una risata, ma poi si alzò dalla panca: – Giulietta, guarda il bambino, vo a fare una girata con Ernesto... a cerca’ vipere... –

Si incamminarono; quel giorno era caldo afoso anche se a tratti il sole restava nascosto dal velo delle nuvole. Attraversarono una radura circondata da cerri e noccioli dove pascolavano alcuni cavalli, alcuni dei quali, al passaggio dei due sollevarono la testa soffiando. Altri invece che masticavano in disparte, li ignorarono. Poi il sentiero, poco frequentato dalla gente del luogo, diventando stretto e scomodo entrò in un forteto di quercioli. – ... te non sei della vallata, vero?... – fece a un certo punto l’allupino. – ... no, non sono di qua... però il posto mi piace... ma... dì un po’... a fa’ l’allupino com’è, è faticoso? –

Ernesto capì che non aveva tanta voglia di parlare di sé non insistè. Gli disse allora che sì, il suo mestiere era un po’ faticoso e polveroso e gli spiegò che la “battitora” e la “lupa” servivano a dare una maggiore apertura delle fibre prima che la mista di lana rigenerata fosse mandata in “cardatura”.

– ... ah, ho capito. – Però il magazziniere dette l’impressione di non esserne così interessato e guardava all’insù. La Rocca di Cerbaia cominciava ad apparire alla vista. Il castello era interamente circondato e abitato da arbusti e da rovi e le mura esterne come quelle interne mostravano gli evidenti segni del tempo. La natura si era riappropriata dello sperone di terra e roccia a strapiombo sulla valle, su cui la Rocca era stata costruita quasi mille anni prima.

– ... lo sai Ernesto... – fece l’altro fermandosi e ansando – ... che da questo castello potevano dominare tutta la valle una volta?... da qui una potente famiglia, nell’antichità faceva il bello e il cattivo tempo ... I conti Alberti, di origine longobarda erano i padroni di tutto. – ... qualcosina sapevo... ma te, mi sembra che tu ne sappia parecchio più di me... qui c’eri mai stato? –

Arturo disse che c’era venuto una volta da solo un anno prima, ma che aveva letto quelle cose in un libro. Entrarono dentro le rovine, curiosarono. Il castello, prima che in gran parte crollasse doveva apparire, anche da lontano, molto grande e potente.

Durante il ritorno il discorso cadde anche sul lavoro e sulla famiglia Romei. Arrivati alla casuccia del Gallorini la moglie Giulietta, una donna molto semplice dal viso gradevole e illuminato da due occhi particolarmente belli, lo fece accomodare e rinfrescare con un bicchierino di vin santo.

I due dipendenti della ditta Romei a pelle si erano piaciuti, così continuarono a frequentarsi.

Arturo Gallorini, a parte la storia degli Alberti, sapeva tante altre cose che affascinavano l’allupino al quale, peraltro, piaceva godere dell’atmofera calda di quella piccola famiglia.

Mentre Arturo apprezzava nell’altro non solo la sua discrezione, non avendo mai riprovato, Ernesto, a chiedergli alcunché riguardo alla sua provenienza, ma anche ne scorgeva una certa non comune intelligenza naturale, sebbene tale qualità fosse stata poco coltivata.

Arrivò l’autunno, passò il rigido inverno e sbocciò la primavera. Decisero di ritornare, insieme a Giulietta e a Luca, il bambinetto di due anni, alla Rocca di Cerbaia. Ernesto si era affezionato molto a quel bambino, e lo volle portare lui per tutto il tragitto a “brigiotto”.

Scendeva dai boschi un frizzare umido essendo partiti abbastanza presto, e sulle cime più alte indugiavano ancora certe caligini notturne. Alla Rocca, girarono un po’ tra le rovine; Giulietta non le aveva ancora viste da vicino. Poi decisero di incamminarsi sul sentiero che conduceva verso Montecuccoli, ma presto realizzarono che quella meta fosse ancora troppo lontana, il bambino era stanco, così trovarono un posticino per fermarsi.

Intorno a quel prato un fitto di cespugli di ginestre già in fiore metteva allegria. Era già mezzogiorno, ma il bosco trasudava ancora freschezza da ogni stelo e da ogni ramo, comunicando un sereno benessere. Luchino, rotolando sulla coperta distesa sull’erba, gorgheggiava felice facendo ridere i tre adulti in adorazione.

Dopo mangiato, mentre si godevano beati di quello stare, con il sole che, come una decisa carezza, senza l’ombreggiatura degli alberi cominciava a farsi piacevolmente sentire, Arturo che si era sdraiato sulla coperta si sollevò su di un gomito appoggiando la testa sulla mano: – Ti devo dire una cosa Ernesto... sento che te la posso dire... ormai ti conosco... – Giulietta si alzò anche lei quel tanto da guardarlo stupita, aggrottando la fronte. – Giulietta, tranquilla... di lui ci si può fidare. – Così gli raccontò la loro storia.

Loro erano del Valdarno, per la precisione di Castelfranco di Sopra. Sposati da un anno e con Giulietta in cinta ancora di pochi mesi, non essendoci abbastanza lavoro in quella zona chiesero per lettera ad un cugino del babbo che abitava a Firenze in una casa molto grande, se li avesse potuti ospitare per un periodo limitato, il tempo di trovare un lavoro e una sistemazione.

Erano appunto a Firenze da quello zio da pochi giorni, nell’ottobre del 1925, quando successe il finimondo. Arturo, sebbene raccontasse di quei fatti successi ormai da quasi tre anni, lo fece con espressione di persona che fosse stata scossa per l’orrore vissuto solo da poco tempo, e che non avesse smaltito il dolore di quei giorni.

La scintilla di quelle brutalità era stata accesa dall’uccisione di un fascista, il vicesegretatrio del Fascio, Giovanni Luporini. Il clima politico e sociale dopo il delitto Matteotti avvenuto nel giugno dell’anno precedente, in quei mesi era diventato ancora più rovente.

Quel Luporini, impegnato in quel giorno in una delle tante azioni che miravano a soffocare la dissidenza al fascismo, si era recato in casa del massone Bandinelli, con lo scopo di perquisirla ed intimidirlo.

Gli schiamazzi avevano finito per attirare l’attenzione del vicino di casa.

– ... quel vicino di casa era proprio il mio quasi-zio, il ferroviere ancora scapolo Becciolini che, impugnato il fucile, si scagliò contro le camice nere, ammazzando appunto il Luporini e ferendone un altro... – ... è sempre stato una testa calda, lo diceva sempre anche il tuo babbo... – intervenne Giulietta.

– ... sì, è vero, lui non sopportava le prepotenze, era fatto così... eppure non era neanche socialista... era il suo carattere. Stimava l’avvocato Bandinelli e non sopportò quell’aggressione che gli è costata la vita... dopo essere stato rapito e seviziato. Tant’è... – Arturo ebbe una pausa con sguardo nel vuoto prima di proseguire: – ... tuttavia in quel momento, grazie a Dio noi non eravamo in casa. –

Loro erano in giro in cerca di un appartamento e, al rientro un vicino li aveva avvertiti in tempo. La casa era stata messa a soqquadro e sorvegliata.

Quell’episodio fu solo l’inizio di un vero pandemonio. A Firenze si scatenò la violenza squadrista, in modo particolare operata dalla squadra d’azione “la Disperata” guidata da Tullio Tamburini. Uccisioni a ripetizione, case di massoni e antifascisti furono devastate, le strade svuotate a colpi di manganello, i caffè chiusi e i teatri invasi. Studi di avvocati e di professionisti e molte botteghe artigiane furono saccheggiate, i mobili dati alle fiamme.

Arturo e Giulietta, anche se non si erano ancora registrati dal podestà erano stati visti più volte in quella casa e il timore più che realistico era che fossero cercati come complici.

Si nascosero come poterono e di notte, con Giulietta in stato interessante e con il cuore colmo di paura, uscirono dalla città e, attraverso la campagna, seguendo poi l’argine del Bisenzio, arrivarono a Prato dove lei aveva un parente alla lontana.

– ... ci dissero che in Val di Bisenzio, a Carmignanello, cercavano personale un po’ istruito che sapesse leggere bene e far di conto... così dopo altre ore di cammino, ancora di buio, perché ossessionati dalla minaccia squadrista, siamo arrivati qua. – Nella tragedia e tuttora con certe immagini impresse nella mente, aggiunse Giulietta, essi si consideravano fortunati; il posto, fuori mano, era quello che ci voleva per loro: – ... ed ora abbiamo trovato anche un amico, ma lo capisci vero, perché preferiamo il più possibile rimanere molto per conto nostro? In casa è venuta solo l’ostetrica, quando ho partorito... vero amore mio che non mi hai fatto confondere? – Prese allora in collo quel bambinuccio che era sempre sorridente e lo strapazzò un po’, sbaciucchiandolo.

Ernesto era rimasto molto colpito da quel racconto. Lui non aveva mai saputo nulla di tutto ciò e non credeva che quelle cose potessero succedere. A Carmignanello c’era anche lì una “Casa del Fascio”, ma la sua attività era molto ridotta e lui non la frequentava.

Quella notte, nel suo letto, Ernesto si rigirò un bel po’ prima di prender sonno. Pensò e decise che per lui quel segreto che il suo amico gli aveva rivelato, dimostrandogli così tanta fiducia, sarebbe stato veramente inviolabile.

Ci pensò per giorni, fino a che un mattino ebbe altro a cui pensare. Non vedendola in piedi, si affacciò alla camera della sua mamma per sentire se avesse bisogno di qualcosa; la trovò nel suo letto perfettamente composta, con le mani incrociate sul petto e con il rosario tra le dita, come se lei stessa avesse provveduto a sistemarsi per la sepoltura. Era morta nella notte denza dargli noia. Al funerale vennero anche i suoi amici, incuranti per l’occasione della consueta prudenza di non farsi notare troppo.

L’autunno arrivò prima del solito. I venti di tramontana a metà ottobre erano già freddini e i boschi si ingiallirono presto. La casa quasi in mezzo al bosco di Arturo, pareva quasi godesse di quella festa di colori sembrando meno misera del solito; i gialli e l’ocra, l’arancione e il rosso insieme ai verdi e marroni tutt’intorno, facevano desiderare ancor più ad Arturo il ritorno a casa, sebbene le giornate si fossero fatte più corte, e ad Ernesto il momento della sua abituale visita di fine settimana.

Superato l’immediato dolore della perdita della madre avvenuta alla fine dell’estate, dopo qualche giorno gli erano tornati a galla quei pensieri di libertà che aveva per lungo tempo coltivati, quella libertà che aveva immaginato come imprigionata dalla presenza di mamma Ida così bisognosa di cure.

Il mondo, Venezia, Roma, Firenze e altro ancora, da sempre lo stava aspettando, lontano da quell’angusta vallata. Aveva ancora giovinezza ed energia da vendere.

Ma sorprendendo se stesso, capì invece che benaltro lo stava tenendo imprigionato al posto della mamma malata. Durante quelle visite, si accorse sempre più di non poter staccare gli occhi da quelli verdi e luminosi di Giulietta. Era più forte di lui e se ne vergognava. Se ne accorse anche lei ma fece finta di nulla.

Nelle domeniche di novembre andavano insieme a castagne, tornando con il viso fresco d’aria di bosco ed ebbri di allegria, ognuno di loro avendo un qualcosa di diverso che lo rendesse allegro.

Quella di Ernesto era un’allegria tormentata da dubbi e dal rimorso; gli pareva di tradire l’amico anche solo con il pensiero. Quella di Giulietta era mista ad una sorta di leggera eccitazione, la stessa che tutte le donne, anche quelle più oneste, provano quando sanno di essere desiderate. L’allegria di Arturo era tranquilla, a volte anche un po’ annoiata, mentre quella di Luchino era la più pura e perfetta delle allegrie, sentendo di essere amato senza limiti da tutti gli altri tre.

Un giorno d’inverno, al magazzino del Romei, non videro arrivare Arturo e neppure il giorno dopo, senza che egli avesse avvertito nessuno, magari di una indisposizione. Lo dissero ad Ernesto che sapevano essergli amico, ma anche lui non sapeva niente.

Alla fine del turno, pur essendo quasi buio attraversò l’antico ponte alla Cerbaia. Capì che c’era qualcosa che non andava già da lontano. Le finestre erano buie e dal camino non usciva un benché minimo accenno di fumo. Gli si sbiancò il viso: –... Dio mio... icché gli è successo? –

Il cuore gli batteva forte avvicinandosi, ma quando aprì la porta di casa, fu come se quel cuore gli si fermasse. Il silenzio era assoluto e l’interruttore della luce elettrica girò a vuoto. Trovò la lampada ad olio che tenevano abitualmente per ogni evenienza e l’accese con degli zolfini.

D’un tratto sentì un gemito debolissimo che veniva dalla camera. Il piccolo Luca, disteso in terra accanto al letto era circondato dalla sua orina e dalle feci, ma non piangeva. Aprì gli occhi atterriti solcati da chissà quanti inutili pianti. Non avendo la forza di piangere gemeva piano.

Lo sollevò e per prima cosa lo rinvoltò con una coperta; il bambino era congelato: –... è un miracolo che tu sia ancora in vita, piccino mio... – gli sussurrò Ernesto tra le lacrime. In casa non c’era nessun altro.

L’allupino capì che doveva essere successo qualcosa di estremamente grave: – ... Signore mio... l’hanno trovati... sono arrivati fin qui... – un brivido gli attraversò la schiena. – Tutti sanno che sono loro amico... e immaginano che io so... potrebbero ripensarci e cercare anche me... sono spietati. –

Ernesto convocò tutto il suo sangue freddo, doveva decidere qualcosa d’importante, qualcosa che poteva decidere la sua e la vita del bambino. Prese il piccolo rinvoltato in quel modo e corse a casa sua cercando di non farsi notare nel buio ormai fitto. Lo sfamò subito con del latte caldo e delle Marie, poi lo lavò con acqua riscaldata ai fornelli e lo vestì alla meglio con qualche vestitino pesante che aveva avuto la presenza di spirito di arraffare in casa di Arturo. Poi lo mise a letto dove il piccolo Luca, rifocillato, dormì, seppur agitato, per tutta la notte.

Fu una notte tormentata anche per lui, quasi insonne. Pianse i suoi amici e disperò per la loro vita, immaginandosi con dolore infinito che non avrebbe mai più rivisto gli occhi di lei.

– ... ho sentito dire che a volte dal dolore viene il bene... non correrò il rischio di tradire... non farò del male a nessuno... – Ma poi si alzò a sedere sul letto: – ... ma che sto dicendo... è assurdo... li ritroverò un giorno... e allora ... – ma non sapendo risolversi per chiudere quel ragionamento, alla fine si addormentò.

Al mattino presto, ancora non si era levata l’alba gelida, aveva già deciso e preparato gli scarponi e lo zaino, residui della sua parentesi di vita militare come alpino artigliere.

Era proprio da quella lontana esperienza che stava ricavando il suo progetto. Era rimasto amico, per quanto si possa rimanere amici attraverso delle cartoline postali e poche righe, con Raffaele, suo compagno d’armi. Egli abitava in un paesino sulla montagna tosco-emiliana nella zona di Marradi, un paesino di quattro case dove Raffaele faceva il pastore di pecore. – ... È lì che bisogna andare, piccino mio... in quei mezzi non ci troverà nessuno... sei pronto? – gli sussurrò prima di prenderlo a brigiotto.

Mentre saliva la Calvana, si ricordò di Garibaldi che, proveniente dalla Romagna, aveva fatto praticamente il suo tragitto al contrario per sfuggire ai gendarmi pontifici e austroungarici procurando, con quella sosta al mulino, la fortuna di Pispola.

Il cammino sarebbe stato molto lungo, forse troppo e l’inverno proprio in quei giorni si stava facendo molto rigido, forse troppo.

In cardatura quindi, quella mattina non videro arrivare neanche Ernesto e neppure la mattina dopo; anzi non lo rividero mai più. Nessuno in paese seppe più nulla né del riservato magazziniere con la sua famigliola né dell’allupino Ernesto Dabizzi. Lo strano fatto, alla stazione dei Carabinieri di Vernio fu presto archiviato nella sezione “Persone scomparse”.    

– fine –

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