IL LUPO DI LUOGOMANO – 2020 –
“ Ecco l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei campi, il tempo nuovo è tornato”. (Cantico dei cantici)
– Mancavano due anni per andare in pensione e, come tutti ma anche di più, non ne vedevo l’ora. Avevamo due figli maschi grandi di cui il maggiore sposato a Firenze con un bambino piccolo, l’altro single, come si dice oggi, e ingegnere a Grenoble. Io e Matilde, se non fosse stato per la veneranda età, eravamo tornati come sposini, soli in una casa spaziosa.
Non vedevo l’ora non perché non amassi il mio lavoro; ci avevo convissuto bene per trentasei anni e mi aveva dato la possibilità di mantenere la famiglia in modo dignitoso. A me il lavoro piaceva ma adesso avevo un nuovo amore a cui avrei voluto dedicare molto più tempo. Come si chiamava? Elisa?, Manuela? Ersilia? Siete fuori strada; non è una donna, anche se a me le donne piacciono. No, mi ero invaghito della montagna, dei nostri boschi, dei sentieri, dei profumi e dei colori che, ad ogni stagione deliziano la nostra vista, il cuore e l’olfatto.
Da un po’ la domenica, a volte anche il sabato, avevo cominciato a seguire un gruppetto di camminatori. Era successo quasi per scherzo per contentare Enzo che mi assillava: – ... ma perché non vieni a camminare?... vedrai è bello, vedrai. – Mi piacque e non ho più smesso. Matilde a volte bofonchiava, ma presto si era abituata: d’altra parte tornavo odoroso di fogliame e carico di endorfina. Se pensate che ciò potesse tradursi in una vita sessuale di coppia un po’ più vivace, ebbene sì, potreste aver pensato bene.
Dalla metà di Gennaio il gruppo cominciò a pensare alla partecipazione di “Piazza a Piazza”. Ogni domenica ne facevamo un tratto diverso per essere preparati al meglio per la metà di Maggio. Di noi cinque, soltanto due l’avevano già fatta e dicevano quanto fosse impegnativa. Quella prova di 75 chilometri con tante salite tra monti e boschi dell’appennino pratese, da fare in due giorni con tappa a Montepiano era spesso nei nostri pensieri. Non c’erano dubbi, a quanto pare, che ce la potessimo fare; lo scopo era però quello di non arrivare sfiniti, in piazza del Comune, alla domenica sera.
– Ma un lunedì di Marzo, il lunedì 9 Marzo dell’anno di grazia 2020 per la precisione, fu come se il mondo ci fosse caduto addosso; il governo, causa pandemia covid aveva decretato il lockdown. Iniziò un periodo terribile per tutti, ma specialmente per me, così mi pareva allora. Mi ricorderò sempre di quel periodo, non solo per le note ristrettezze subite e il serio problema di salute che mi sarebbe capitato, ma per quanto, di ancora più particolare e straordinario, vi racconterò. Naturalmente a confronto dei tanti morti in solitudine nei nosocomi, nelle Rsa, nelle proprie case di cui la televisione quotidianamente ci avrebbe informato, la mia vicenda impallidisce per importanza.
Il presidente Conte aveva decretato che non si potesse più uscire di casa se non per stretti motivi di lavoro, di salute o per fare la spesa. La mia azienda, una società di import export di cui ero un impiegato con qualche responsabilità, dopo alcuni giorni aveva chiuso i battenti. Ed essendo in buona salute, non mi sarebbe rimasto altro per poter uscire di casa, guardato comunque con sospetto dagli ottusi guardiani dell’ordine che sorvegliavano dalle finestre, che andare alla Conad a fare la spesa.
Diventai, come tanti, un fruitore esperto di piattaforme virtuali. Zoom rimase l’ultima risorsa per poter rivedere gli amici, per sospirare di ricordi e e per rivedere le vecchie foto: – ... oh! te ne ricordi quando s’andò a Cantagrilli, che bellezza... sì... i cavalli allo stato brado su quei prati... te però t’eri finito... guarda che faccia t’avevi... –
Dopo un mese, eravamo ormai arrivati ai primi di aprile e i telegiornali continuavano ad inondarci di notiziari e a mostrarci balconi grondanti ottimismo: – Andrà tutto bene... ce la faremo... – quando una notte, fuori si intravedevano appena i primi bagliori dell’alba, mi svegliai all’improvviso.
– Matilde... Matilde... mi manca l’aria, mi manca l’aria... mi manca l’aria... – Era ancora freddino eppure sudavo e rabbrividivo insieme; avevo paura di morire, il cuore andava a mille e il petto pareva schiantarsi sotto il peso di un mostro invisibile come vi si fosse accomodato sopra. Mi dissero poi si trattasse di un attacco di panico e che poteva verificarsi di nuovo. Infatti nella tarda mattinata riprovai quella terribile esperienza. Matilde intanto si era fatta prescrivere delle pasticche dal nostro medico di famiglia che poi andò a ritirare in farmacia. Cercando informazioni e conforto su internet seppi che mi avrebbe fatto molto bene camminare. Più che un consiglio mi sembrava una beffa.
La notte successiva riprovai di nuovo quello schifo di sensazioni; non avevo mai sofferto così tanto in vita mia. Al mattino mi svegliai tardi ma con una determinazione: – ... fanculo Conte... fanculo tutti, io esco. – Non puoi Fabio, se ti pescano son guai seri... senti Fabino, perché non facciamo Pilates, eh?. –
– Matilde aveva sentito dire che giravano perfino con gli elicotteri intorno al monte Ferrato per fermare e multare i contravventori e che, d’altra parte, su you-tube c’erano degli utili video per fare ginnastica in casa, di tutti i tipi. Provammo a distendere un tappeto davanti al computer e a ripetere quanto l’insegnasnte ci diceva di fare. Lei era motivata, sperava di ricavarne una vita più snella; io invece immaginavo che mi sarei annoiato ma mi adattai per vedere se mi avesse fatto bene, ma nel pomeriggio ricaddi di nuovo in un attacco di panico. Quelle crisi ricorrenti e inaspettate si ripeterono nei due giorni seguenti; attimi di paura e di forte disagio nei quali mi pareva di impazzire e di perdere il controllo dei nervi. La ginnastica non funzionava e non ne potevo più; ero davvero in preda al panico. tutti mi dicevano che non potevo essere lasciato solo, e che mi fosse sconsigliato di fare la spesa da solo.
Quella notte, era un sabato, non dormivo; ad occhi aperti mi laceravo nell’ansia che il mostro tornasse ad accucciarsi sul mio petto. D’un tratto mi alzai. Avevo preso una decisione inarrestabile, uno di quegli impulsi carichi di determinazione che si hanno soltanto poche volte nella vita.
Cercando di non svegliare Matilde, con calma mi vestii adeguatamente e misi gli scarponi, avendo cura di prendere con me le medicine e una torcia elettrica in aggiunta a quella piccola del cellulare. L’aria era fredda, il cielo terso e senza nuvole e la luna quasi piena in fase calante mi sembrò amica.
– Mi comportai da incosciente? Lo pensai anch’io nel momento stesso in cui varcai la soglia di casa, la mia bella casa in quel di Morecci dove abito tuttora. Ne ero consapevole, non avevo mai fatto in vita mia una cosa così lontana dal buon senso comune come quella che stavo facendo e, a distanza di tempo, ancor oggi ritengo di aver rischiato.
Non ero praticante, tuttavia sentivo di avere una sorta di fede, una fede laica in un Dio immanente. Io avevo fatto il classico e tuttora ne rimuginavo qualche reminiscenza. Mi affascinava l’idea di Spinoza per cui universo e natura corrispondono a Dio. Mi sarei affidato alla natura, come essa avesse avuto il potere e il dovere di proteggermi e di sanarmi.
Era ancora buio, secondo la tabella di 3B Meteo, per l’alba avrei dovuto attendere ancora 50 minuti. Anche se la luna non fosse stata quasi piena non avrei avuto problemi; conoscevo la strada asfaltata che conduceva alla Rocca di Montemurlo come le mie tasche e non ci fu bisogno di usare la torcia. Non avvertivo sonno e andavo a passo svelto; pensai di non essere troppo arrugginito, e mi sentivo in forze nonostante la sofferenza patita degli ultimi giorni. L’alba mi sorprese in vista dell’abitato di Cicignano. Da lì presi il sentiero 470 quello che conduceva alla fattoria di Javello.
Arrivai su un colmo, la parte più alta di quel percorso, in mezzo a una radura tra macchie di carpini e una vegetazione rada di faggi e querce e lo spettacolo che mi si presentava era di prima grandezza. Il sole aveva appena fatto capolino; dai boschi attorno scendeva un frizzare umido e sulle cime più alte indugiava tuttora uno sbigottito tremore notturno.
Verso le sei e mezzo arrivai alla fattoria di Javello, per me luogo dell’anima; un antico castello trecentesco trasformato in residenza signorile ai margini di un bosco fitto. Da quando avevo conosciuto quel posto, spes contra spem, avevo perfino sognato di poterci abitare; ne avevo parlato una volta anche a Matilde e mi ricordo ancora il suo sguardo attonito.
Mi accolse il canto di un gallo e poi quello di altri due. Non so se fossero i loro primi canti. Mi piacque pensare che stessero ripetendo i loro virtuosismi canori per dare a me il benvenuto.
Il sole si era levato quel tanto, ma ancora abbastanza radente, da illuminare tutta la valle che scendeva verso Albiano e la parte orientale del Monte Ferrato. Improvvisamente mi ricordai degli attacchi di panico; mi ero completamente dimenticato delle mie sofferenze recenti. Stavo bene, ma in un recesso della mia psiche covava il seme dell’ansia. Ebbi allora come un moto di sfida, una sfida al mostro; e mi venne dire a voce alta: – Morire in piedi... sì, meglio morire in piedi... – La battutona che sul momento mi aveva esaltato era semplicemente il titolo di una raccolta di racconti di Adrian Tomine che avevo sul comodino. Vi era descritta la condizione psicologica di certi protagonisti americani felici di sentirsi liberi ma infelici di essere ignorati. Io, al contrario, in quel momento ero felicissimo di essere ignorato.
– Era l’ora di chiamare Matilde; poteva essersi già svegliata e impaurita non trovandomi da nessuna parte. In quel momento pensai che lei fosse una persona buona; non c’entrava nulla in quella circostanza, tuttavia realizzai che Matilde si sarebbe meritata qualcosa di più di quanto le era toccato incrociando me. Nella mia carriera di maschio Alfa le ero stato anche infedele un paio di volte e molte volte di più con l’immaginazione. Ed ero un egocentrico; in casa tutto, dall’arredamento agli orari della giornata era ordinato in base alle mie necessità.
– Fabio! Ma dove sei?... sei matto ad uscire, mi dici dove sei? – Sto bene, non ti agitare... sto bene e non mi vede nessuno. – Stemmo qualche attimo in silenzio; sentivo il suo respiro. – ... dai Fabio, ma che ti ha preso... e se ti viene la crisi? eh?... non sei normale... – Ebbi la sensazione che stesse trattenendo le lacrime. – Stai tranquilla, tra poche ore sarò di ritorno... ti voglio bene Matilde. –
Presi il sentiero che poi era una ex strada forestale piena di sassi e di buche che portava alle “Cavallaie”. A parte i sassi era un percorso affascinante, interamente sommerso dalle chiome degli alberi, alti faggi e poderose querce, e che saliva non troppo ripido. Era però molto lungo e cominciavo ad essere stanco; la mancanza di allenamento si faceva sentire. Così, in corrispondenza di un’ampia apertura tra le chiome a mostrare in lontananza il paese di Tobbiana, presi la strada del ritorno.
Cicignano era deserta e alle dieci ero di nuovo davanti al cimitero della “Rocca”. Non mi aveva ancora visto nessuno, ma al parcheggio c’era una macchina con il motore acceso dei vigili urbani di Montemurlo. Mi acquattai e la macchina si allontanò. Sapevo bene delle multe e di tutto il resto, così feci il resto della strada passando dai campi. Mi sentivo ridicolo per quell’assurdo nascondimento e stanco, tuttavia ero raggiante; dalla sera precedente allorquando una violenta crisi mi aveva prostrato come al solito, non si era più verificato alcun attacco di panico.
La mia abitazione era la prima della fila di case e, arrivando dalla costa della collina, potei passare dall’orto sul retro. Matilde stava guardando la televisione e non si era accorta di nulla. La abbracciai dalle spalle e le detti un bacio sulla gota rosea. – Scemo!... tu m’hai fatto paura. – poi si alzò e, girandosi mi abbracciò forte: – ... tu sei proprio scemo, sììì... mi dici icchè t’hai combinato?. – La chetai con un bacio vero; stavo bene e quella escursione mi aveva rimesso al mondo.
– Nel pomeriggio stetti un po’ in apprensione, ma la crisi non si ripresentò. A sera andammo a letto presto; all’opzione televisiva preferimmo lo starcene accucciati, stretti l’uno a l’altra. Poche altre volte avevo sentito con quell’intensità quanto Matilde fosse per davvero la donna della mia esistenza. Le rughe o grinze come dir si voglia, parevano aver apportato un valore aggiunto all’affetto di sempre che in certi periodi si era pure afflosciato; proprio come adesso i nostri glutei e il petto e la pelle del viso.
Non l’avevo neppure avvertita, ma quando, dopo un sonno breve ma profondo mi alzai senza far rumore per fare quello che avevo fatto la notte precedente, lei aprì gli occhi e subito li richiuse con un mezzo sorriso. Nelle gambe avevo ancora la fatica del giorno precedente ma, per lo stesso sentiero e procedendo senza fretta, volli ugualmente arrivare fino alla confluenza con la strada sterrata delle Cavallaie. Alla catena che sbarrava la strada ai veicoli, ma di veicoli a quattro ruote integrali neanche l’ombra, per un po’ mi sdraiai sull’erba ancora umida per goderne l’umore e il profumo.
Poi, alzatomi mi inoltrai ma solo per qualche centinaio di metri, nel sottobosco dall’altra parte della strada. Non volevo fare troppo tardi, era solo per curiosità; non c’ero mai stato e si presentava molto selvaggio. Camminarvi era come camminare su un soffice e scuro tappeto fatto di foglie secche mentre intorno, come a contrasto, spuntavano verdi e chiari i virgulti della primavera che stava sbocciando.
D’un tratto sentii uno scricchiolio non lontano; pensai ad un cervo. E se fosse stato un lupo? Sapevo che i lupi presenti in quel territorio, come tutti i lupi, non attaccano l’uomo se non si sentono minacciati. Aguzzai la vista in quella direzione; non era né lupo, né un cervo, era un uomo molto alto che si stava allontanando in fretta e pareva avesse con sé un cane. Sulla via del ritorno pensai di non essere stato il solo ad aver cercato conforto tra i boschi e che non fosse un guardiacaccia, altrimenti mi avrebbe avvicinato.
Mi riposai tutto il giorno, maturando tra me un progetto; l’indomani avrei voluto raggiungere il passo degli Acandoli, ma non per strada sterrata per timore di incontri, ma per boschi, e da lì seguire la strada forestale che porta a Luogomano almeno fino al “Vespaio” un cascinale disabitato.
– Ma non ti sembra di esagerare Roberto? ... ne ho parlato anche con il tuo figliolo che ha più giudizio di te e lo sai icchè m’ha detto? Che gli tu gli sembri Peter Pan; uno che crede di non invecchiare mai. – Qui alzò la sua voce da soprano: – Ma se ti succede qualcosa... me lo dici chi ti raccatta? eh?... un c’è neanche campo in quei posti, tu lo sai vero? – Feci spallucce, ma era vero; in quelle zone il cellulare non funzionava. Ma ormai ero deciso.
– Avevo già superato la zona degli Acandoli raggiunta non per strada ma per sentieri paralleli, quelli segnati dagli animali quando, superato un forteto di quercioli, e non avvedendomi di una piccola forra coperta interamente da rami e fogliame, vi sprofondai a peso morto. Come un animale selvatico caduto in trappola mi ritrovai steso sul fondo della buca che per fortuna non era profonda ed era piena di vegetazione secca. Mi sollevai dolorante e mi arrampicai facilmente alla superfice. Sdraiato supino sulle foglie secche realizzai di essermi storto una caviglia. Dopo qualche istante di cupa meditazione provai a fare dei passi, ma una fitta mi costrinse a sedermi su un tronco morto. Era una giornata di sole ancora freddo e l’ora alta insinuava tra le faggete lunghe teorie d’ombre, ma il silenzio e la poesia del luogo non riusciva a consolarmi: – ... mi ha chiamato Peter Pan... è stato delicato... ma invece sono soltanto un bischero... –
Eppure nel decalogo non scritto dei camminatori c’era la raccomandazione di non andare mai da soli nei posti lontani, ma in quel periodo di Covid così speciale diventava tutto relativo. Un rischio come quello appariva una quisquiglia, in confronto alla colonna incredibile di camion carichi di bare che, alla sera prima il telegiornale aveva mostrato in collegamento da Bergamo.
E invece adesso ero proprio nei guai. Non avevo neppure la consolazione di una telecamera che riportasse l’accaduto come, in un accesso di inopportuna ironia, mi venne da considerare. La fantasia galoppava; avrei trascorso la notte all’addiaccio in quel posto, probabilmente avrei subìto un nuovo attacco di panico e forse sarei morto. A quel punto un branco di cinghiali avrebbe trovato di che sfamarsi e forse, ma non era detto perché il posto era molto impervio, tra molti giorni qualcuno, forse proprio un escursionista come me avrebbe trovato i miei poveri resti mortali.
– Mentre mi rosolavo in quei pensieri funerei sentii prima lo sterpame scricchiolare e poi una voce dietro di me: – Buongiorno, le serve aiuto?... mi faccia vedere, ha una distorsione? – La voce, preceduta dall’annusamento di un cane, era grave e l’accento mi parve quello di uno straniero. Era un uomo alto, forse quello che avevo visto il giorno precedente mentro si allontanava e quel cane, quando lo ossevai appena un po’ meglio non era proprio un cane; era un lupo.
Ebbi un evidente sobbalzo. – Non si preoccupi, non si faccia vedere nervoso, non le farà nulla. – Mentre mi spalmava con un unguento e mi fasciava con una benda stretta mi spiegò che l’aveva trovato cucciolo quasi morto e che l’aveva allevato lui. Successe tutto in breve tempo, l’uomo era esperto ed io ero più che meravigliato: – Non so come ringraziarla... forse le devo la vita... cioè, vede, non riuscivo a camminare.
– L’uomo sorrise. – Non esageri, non mi sembra molto grave... se ha di queste apprensioni le farò un po’ di compagnia... ma vedrà che tra qualche ora potrà incamminarsi. –
Aprì il suo zaino ed io feci la stessa cosa. Mangiammo in silenzio mentre l’incredibile lupacchiotto, fermo in piedi, mi stava osservando. Poi, inizialmente un po’ riluttante, notando la mia aria interrogativa disse di chiamarsi Hans De Jong, era olandese ed abitava in una capanna tra i boschi da circa due anni. La cosa mi stupì e lui se ne accorse. – Sì, è una storia lunga.... vede, sono come in fuga dalla cosidetta civiltà... – ma non aggiunse altro.
Dissi anch’io il mio nome e la vicenda dei sofferti attacchi di panico che mi aveva spinto nei boschi, come a trovarne un rifugio e un lenitivo. Sollevò gli occhi dal pane e formaggio che aveva tra le mani; vidi che la cosa lo aveva un po’ colpito e che gli era sembrata interessante. Allora si sciolse e cominciò a raccontare.
Era stato per anni un convinto ambientalista con un curriculum di gesti clamorosi per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul problema della sostenibilità ambientale. Il governo, forse con l’intenzione di neutralizzarne il chiassoso attivismo, lo coinvolse in una commissione statale che avrebbe avuto il compito di ottenere, attraverso incentivi e regolamentazioni, la riduzione delle emissioni di CO2: – ... presto capii trattarsi solo di uno specchietto per le allodole e che dietro di esso si mimetizzavano i soliti interessi. Il “Green” come un affare e non come una svolta concreta.“
Stanco e deluso profondamente dai risultati ottenuti e poi rimasto vedovo e non avendo figli, a sessant’anni aveva fatto la scelta di ritirarsi da tutto. – È una società superficiale che di fronte ad un rovinoso modello di sviluppo preferisce non pensare a niente e fare come gli struzzi. – mormorò. Aveva scelto dunque questa zona impervia degli appennini, estesa per moltissimi chilometri con poca presenza antropica come, secondo lui, ce ne sarebbero poche in Europa occidentale.
– Quando incontro un camminatore, qualcuno c’è che ama la natura... – chiosò, – gli giro comunque alla larga. – Ogni tanto andava a Cantagallo o a Luicciana o all’agriturismo di Cascina di Spedaletto, dove ci fosse una bottega di alimentari per il pane e le cose essenziali. Non possedeva telefoni né acquistava alcun giornale e nessuno conosceva l’ubicazione della sua baracca: – ... se vuole davvero ripagarmi in qualche modo della fasciatura e dell’unguento, peraltro cose che porto sempre con me, non dica a nessuno di avermi incontrato. – concluse l’olandese.
Lo ascoltavo molto incuriosito e anche molto ammirato; pensai che non sarei stato capace di fare una scelta radicale come quella. Quella sera stessa, se tutto fosse andato bene, mi sarei sdraiato sulla mia poltrona incerto tra l’ascoltare attonito il bollettino dei morti di Covid seguito da un talk-show, o il vedere un ipnotico e improbabile film su Netflix.
Hans, come risvegliatosi da qualche suo pensiero lontano, riprese: – ... da ragazzo mi ero alimentato con Walden, un libro di Henry Thoreau il quale, a metà dell’800 lasciò la sua città per vivere appunto sulle rive del lago Walden in una capanna che si era costruita da solo, rimanendovi per anni... –
Proseguì dicendo che il Thoreau, in quel modo, imparò ad osservare gli animali, a fare l’orto, a camminare nell’armonia di quei boschi e nuotando nel lago. Aveva voluto totalmente immergersi nei ritmi della natura. Con quel libro intendeva dichiarare la sua autonomia dalla bassezza morale di una società che, già allora, era persa nella ricerca della ricchezza: – Anch’io come lui, quando mi sono accorto della cecità e ancor più dell’ipocrisia dominanti nella cultura di oggi, ho desiderato vivere ricercando la saggezza nella natura, per non scoprire, in prossimità della morte, di non aver davvero vissuto... –
Il tempo era volato, erano già le quattro del pomeriggio. – Come te la senti la caviglia?... è tardi, tra non molto tramonterà il sole. – Si alzò guardandomi negli occhi e mi strinse forte la mano: – vai... e ricordati quello che mi hai promesso. – Partii un po’ incerto, ma poi presi sicurezza; dopo cento metri, allorché mi voltai per salutarlo ancora, era già sparito. Solo il lupo era ancora lì immobile e mi stava osservando, ma d’un tratto si voltò per raggiungere velocemente il suo amico.
La caviglia mi doleva e tornai a casa molto tardi; stava imbrunendo e Matilde era davvero in pensiero. Le spiegai tutto quello che mi era successo; di lei mi potevo fidare, ma la feci giurare come si faceva da ragazzi, con la doppia croce con le dita e il bacio sopra a suggello solenne. Avevo dato la mia parola. Uscii ancora ma dopo diversi giorni, successivi a tante sedute di impacchi e dopo aver consumato vari tubetti di lasonil.
Nei giorni di riposo coatto smanettai sul computer per saperne di più riguardo a quel Thoreau; scoprii che Walden, il suo romanzo più conosciuto, è considerato a tuttoggi il precursore dei romanzi ecologici e che ha avuto un grande successo nella controcultura statunitense. La generazione “Beat” trovò in quell’esperienza l’ispirazione per un ritorno alla natura, in contrasto con il crescente consumismo della società americana.
– Quando ricominciai a camminare, decisi di non uscire sempre di notte ma anche al mattino molto presto e non tutti i giorni; ma qualcuno di Morecci mi intravide passare. Sulla chat del comune ci fu una specie di anatema contro coloro che disattendevano le norme anti contagio. Non c’era proprio il nome del reo ma quasi: – ... questi camminatori, anche qualcuno del nostro quartiere di Morecci che, sentendosi al di sopra delle leggi, se ne infischia della salute altrui... – Gli rispose qualcuno che non conoscevo: – ... se è giusto andare al supermercato rischiando di contaminare cento persone per volta, ma non se ne può fare a meno... o non è anche giusto camminare all’aria aperta senza contagiare nessuno... per alimentare lo spirito e distendere un po’ i nervi eh?... ma via, oh icchè siamo diventati... un po’ di buon senso! –
Finalmente il diciotto maggio fu permesso di fare allenamenti sportivi e passeggiate; alcuni ripresero a camminare anche per i monti secondo le loro vecchie abitudini. Parve di sentire nell’aria un collettivo ed enorme sospiro di sollievo. Una settimana dopo Matilde entrò in casa con una faccia strana; aveva in mano La Nazione aperta sulla Cronaca di Prato e me la porse: “Trovato un cadavere nei boschi intorno a Luogomano” era il titolo. Mi fece un cenno, come a dire: – Leggi, leggi. –
“Dai documenti trovati addosso alla salma in stato di decomposizione è un uomo di nazionalità olandese e risulta chiamarsi Hans De Jong. Del ritrovamento sono stati informati i carabinieri della stazione di Vernio. La Misericordia di Luicciana, insieme ad alcuni volonari del CAI ha recuperato il corpo con una complessa operazione, avvicinandosi con un fuoristrada finché è stato possibile.“
Non c’era molto altro. Dalla sede centrale della Misericordia a Prato dove telefonai subito, mi dissero che il corpo era stato esaminato dal medico legale e poi portato presso l’obitorio dell’ospedale Santo Stefano, ma non ebbi il coraggio di chiedere di vedere la salma, ammesso che si potesse fare. Al momento si ipotizzava un malore.
Il giorno seguente sul giornale c’era un altro articolo che parlava ancora di quel ritrovamento misterioso. Si diceva che in zona nessuno conoscesse quello straniero, ma un volontario del CAI che aveva collaborato al trasporto di quei resti insieme ai “fratelli della Misericordia”, aveva dichiarato una cosa molto interessante: “Il corpo era deteriorato ed emanava un tanfo terribile ma era integro, nel senso che nessun animale piccolo o grande ne aveva approfittato per nutrirsi.”
D’altra parte, l’escursionista che l’aveva individuato per primo raccontava una cosa altrettanto singolare: “A me piace andare per sentieri poco frequentati e quando, richiamato dal cattivo odore, mi sono diretto in quella radura e l’ho visto, ho vissuto alcuni momenti di paura. Poco più sopra c’era un lupo; sì era proprio un lupo, almeno credo, che mi guardava. Aveva occhi scintillanti e stava lì immobile; poi improvvisamente è sparito.“
– Io continuo ancora adesso a camminare sui nostri monti; mi sembra una delle cose più belle che si possa fare, ma non mi sono dimenticato di Hans. Tutte le volte che arrivo in quei boschi lontani, soprattutto intorno a Luogomano, ho la sensazione di poterlo ancora incontrare e, alcune volte, e questa non è una sensazione perché non sono ancora diventato matto, quando mi attardo fino al limite del tramonto suscitando le riprovazioni di Matilde, sento un ululato non lontano. Gli amici mi prendono in giro, e dicono invece si tratti semplicemente di un cane abbandonato. Ma io ne sono sicuro; è il lupo solitario di Hans che sente la presenza di colui che un giorno è stato per qualche ora amico del suo amico.
Ha vegliato il suo corpo chissà per quanti giorni, impedendo che qualche predatore ne facesse scempio. Non può far parte di un branco, l’odore di essere umano che si porta dietro glielo impedisce e con il suo ululato manifesta la sua orgogliosa solitudine.
Sentendomi sciolto dalla mia promessa ho deciso di raccontare questa vicenda perché non vada persa nel nulla la memoria di un uomo coraggioso che ha fatto una scelta non comune, sicuramente non compresa da molti, anzi scambiata con arrendevolezza. Al contrario, quell’uomo non si era voluto arrendere al non senso. Lui era alla ricerca di frammenti di luce e li cercava nella natura per vivere pienamente il grande concerto della vita, sentendo di farne parte.
– fine –