L’ALZAMANTICE – 1457 – Martellino, Peronella, Bartolomea, Lucrezia, Filippo
Martellino aveva sentito dire che al monastero, quello posto in fondo a piazza Mercatale, la grande piazza dove si teneva il mercato del bestiame il quindici di ogni mese, cercassero un uomo adatto all’orto e ai lavori di fatica, ma che la Badessa, a quanto si diceva con malizia, facesse un passo avanti e due indietro temendone la presenza, poiché aveva con sé tante giovani novizie e altrettanto giovani professe.
Martellino che pur essendo in buone condizioni aveva una certa età, avrebbe fatto volentieri a meno di zappare e potare ma non aveva altre risorse per mantenere se stesso, la sua vecchia e un figlio quarantenne buono a far nulla perché nato storpio. Dentro le mura non lo conosceva nessuno, infatti veniva da Carmignano, ed ebbe così la pensata di apparire completamente sordo e quasi muto se non per poche parole, e quindi un po’ scemo, cose che spesso andavano di pari passo.
Così si presentò al Castaldo preposto alle cose amministrative del convento, tal Piero d'Antonio di ser Vannozzo il quale giudicò che l’uomo, pur adatto alla fatica, avesse il vantaggio di non costituire pericolo alcuno per le monache avendo quelle menomazioni e non essendo, ad esser benevoli, troppo sveglio. Anzi, saputo che avesse per moglie una donna per bene e cristiana prese anche quella a saltuario servizio delle monache.
Martellino, ubbidendo via via alle richieste che gli facevano a gesti e che procuravano a qualche sorella sprazzi di ilarità, prese a lavorare il giardino, a fare l’orto, ad attingere l’acqua; andava ogni tanto al di là del Bisenzio per fare la legna nel bosco, faceva tanti lavoretti. Un giorno il Castaldo chiamò sua moglie che per fortuna non lamentava la stessa menomazione, pregandola di spiegare a modo suo al marito, – ... ché l’amor tra sposi intende far capire anche ad orecchi tappati. – avrebbe dovuto fare, ogni tanto, l’alzamantice all’organo della Badessa, ma senza spiegarle che cosa volesse dire di preciso e neppure lei glielo chiese, per riguardo.
I due sposi erano contenti di come si era messa la faccenda ma, con l’andar del tempo, a Martellino sembrò che il salario fosse scrio scrio per tutto quel lavoro, bastando appena a sfamarsi, loro stessi e il figliolo, senza che avanzasse alcunché per brache e calzari. Oltretutto, gli pareva che molte monache, di cui sentiva i discorsi senza che loro, credendolo completamente sordo lo sospettassero, avessero la cattiveria in corpo. Molte si facevano beffe di lui rifacendogli il verso o gli prendevano la zappa di mano con sicumera per mostrargli come fosse meglio fare; altre invece, e queste gli facevano pena, camminavano silenziose e tristi in giardino o tra i filari delle verdure di stagione.
Tra queste ultime ne notò due che seppe essere sorelle di sangue e non solo di sorellanza religiosa, suor Marta la maggiore e suor Agnese. Figlie di Francesco Buti, un cittadino fiorentino mercante di seterie e morto da qualche anno come la madre, erano entrambe molto belle, anche se infelici, specialmente la prima. Il loro fratello Antonio, essendo gravato da troppe sorelle, ed essendo le doti per il convento molto più modeste di quanto richiedesse un marito, le aveva costrette a prendere i voti in questo monastero pratese che godeva fama di santità.
Martellino non se ne intendeva molto essendo cristiano all’acqua di rose come spesso lo rimproverava sua moglie e come riconosceva di essere, ma tutta quella santità non riusciva a scorgerla. La Madre Badessa per prima, seppur ligia ai doveri, all’ufficio divino e alle altre funzioni religiose che imponeva con fermezza a tutte le monache, le appariva superba, come avesse la puzza sotto il naso.
Suor Bartolomea, una donna alta che manteneva ancora quasi intatti i segni della giovanile bellezza, proveniva da una famiglia nobile. Quella religiosa così severa aveva una qualità che fingeva di non ostentare e che ancora troppo pochi, fuori del monastero, sapevano avesse. Ogni tanto, proveniente dal presbiterio, arrivava fin nell’orto una musica dolce e insieme solenne; amante di musica sacra si dilettava a suonare l’organo davanti al quale, a chi avendone l’opportunità l'avesse osservata in quei momenti, pareva un’altra persona.
In tali occasioni Martellino doveva svolgere il compito non proprio leggero di “alzamantice”. Si trattava di alimentare il flusso costante dell’aria nell’organo, compito del cui significato la moglie non era stata inizialmente in grado di spiegargli. Doveva entrare all’interno e, con forza, sollevare i mantici che si sgonfiavano via via sotto il peso di grosse pietre.
I brani preferiti dalla religiosa facevano parte di composizioni musicali di un’altra Badessa, Ildegarda di Bingen, una donna straordinaria vissuta tre secoli prima, alla quale presumeva di assomigliare o, quantomeno di ispirarsi in tutto. Quella religiosa era stata non solo una mistica ma anche musicista di prim’ordine, guaritrice, erborista, filosofa, artista, poetessa.
Scesa dallo sgabello dell’imponente organo a più registri suor Bartolomea smetteva i panni della sensibile interprete e ritornava ad essere severa, in particolar con suor Marta; la redarguiva spesso e di nulla, accusandola di non pregare con devozione o di non essere sufficientemente contrita. Alcune consorelle, seguendo il vento che spirava ne sparlavano con sottile cattiveria. Suor Marta, al secolo Lucrezia Buti, sia pur castigata dal pesante velo di stoffa nera e da un sottile velo di tristezza, appariva troppo bella e suscitava invidia e gelosia.
La sera, tornando a casa, una specie di scantinato che aveva preso a pigione vicino a Porta Fuja, Martellino riportava a Peronella le sue impressioni. I due si volevano bene e, fin dalla sua nascita, avevano accettato con paziente e cristiana rassegnazione la storpiatura del figliolo, il quale però, da quando erano tornati dentro alla terza cerchia muraria di Prato, aveva preso una brutta strada tornando avvinazzato dalle taverne ogni sera e facendoli confondere.
Tuttavia, anche quella sera, dovendo fingere la necessaria pantomima durante tutto il giorno, gli venne voglia di raccontare di ciò che sentiva dire al monastero: – ... qualcheduna di quelle son dei diavoli Peronella, si darebban foco. Lo sai che lo stemma dell’ordine gli è un cuore bruciante? Che sia per quello? – Lo disse un po’ burla e un po’ perché ne aveva davvero qualche dubbio.
– Tu sei un buono Martellino ma sei ignorante. Il cuore che brucia nello stemma brucia per l’amore inquieto degli homini che cercano Dio, come diceva il santo fondatore, il vescovo Agostino. – Peronella era più sveglia del marito anche al di là di quella sua finzione e sapeva leggere e un po’ anche a scrivere. Da ragazza aveva trascorso anche lei alcuni anni di convento senza costrizione alcuna, fino a che una malattia l’aveva costretta ad uscirne.
In quell’istante si aprì la porta. Insieme ad una forte folata di vento e acqua entrò il figliolo sciancato. Barcollava e puzzava di vino; senza dir nulla si sdraiò in terra accanto al fuoco e subito cominciò a ronfare. I due vecchi lo guardavano addolorati e non troppo stupiti ormai; a quel figliolo non riuscivano più a dir nulla senza che non rispondesse a male parole. Sgomenti, recitarono le loro devozioni e se andarono a letto.
Passarono alcuni mesi senza che niente venisse ad alterare lo svolgersi abituale della vita nel monastero; neppure nella vita dei due vecchi sposi era cambiato alcunché se non in peggio, per l’andamento sempre più disordinato di quel figlio storpio.
Un giorno, accompagnato dal Castaldo arrivò in convento un gran personaggio fiorentino, un famoso pittore, tal fra’ Filippo Lippi. Era un frate francescano dagli occhi vivaci e dai modi spicci, diverso da tutti i frati che Martellino aveva visto o conosciuto. Accompagnato dalla Madre Badessa visitò subito la chiesa che osservò da cima a fondo con accuratezza.
Si seppe che aveva avuto l’incarico di decorare con un suo dipinto la grande tavola dell’altar maggiore. Il dipinto doveva illustrare la Madonna che dà la Cintola a san Tommaso con un ricco contorno di personaggi. Tra le altre avrebbero dovuto fare spicco le immagini di sant’Agostino, di Santa Margherita e di suor Bartolomea, la severa badessa di quel monastero, in qualità di benefattrice.
Martellino da quel giorno vide arrivare spesso quel singolare religioso il quale, come si seppe, era stato, forse per l’occasione, nominato addirittura cappellano del monastero.
Come riportò una sera Martellino alla propria sposa, il pittore, girando in lungo e largo per il convento non mancava di osservare tutto e tutti. – ... in special modo parmi egli osservare le suore le più belle e più giovani... Peronella... parmi non sia cotanto spirituale, come si converrebbe... –
Ed infatti, il pittore individuò presto suor Marta; la vide e se ne invaghì per la sua grazia e la sua sobria bellezza. Col pretesto di ritrarla in quella tavola nelle vesti di Santa Margherita Filippo richiese quel permesso alla badessa in modo che la giovane suora ventenne posasse davanti a lui.
A quella domanda suor Bartolomea si sentì presa in grandi ambasce. La Badessa non era un’ingenua e conosceva il cinquantenne frate per fama, sia per la straordinaria arte pittorica, nondimeno per la sua disinvoltura con le giovani donne.
Era stato ingaggiato quattro anni prima, come tutti a Prato sapevano, per la decorazione del Coro della Pieve di Santo Stefano, un’opera per quale era stata stanziata dal Capitolo una somma ingente, ben dodicimila fiorini e già, chi poteva avvicinarsi al lavoro ancora molto parziale, avrebbe scommesso che l’affresco sarebbe stato un capolavoro, di una grazia e bellezza mai viste. Tuttavia, nei mesi invernali il lavoro pittorico fatto “a fresco”, doveva interrompersi e adesso, in quel rigido mese di dicembre lui era lì su richiesta della religiosa per fare quella pala d’altare che avrebbe conferito molto prestigio alla sua famiglia e al suo ordine.
Fu molto combattuta, sentiva che la cosa sarebbe stata di gran rischio e la Madre dapprima non volle accondiscendere. Ma alla fine intuì che un suo diniego, come gli aveva fatto balenare astutamente il frate, avrebbe messo in pericolo tempi e consegna della pala e che ne avesse a subire la sua ambizione; così il pittore tanto seppe dire e fare che da ultimo ottenne ciò che voleva.
Filippo, di carattere gioviale ed esuberante si trovò quindi spesso con Lucrezia mentre dipingeva, e avendone comoda possibilità, si intratteneva con lei in piacevoli ragionamenti entrando presto in confidenza. Così si andò accendendo in lui il fuoco della passione amorosa, e non essendo persona che al crescere del pericolo cercasse di spengerlo per rispetto dei suoi sacri voti o per pentimento, se ne lasciò ancor più avvolgere.
A sua volta, Lucrezia, dalla bellezza eterea e dai capelli dorati, non dovette star molto a confessargli, nella crescente intimità dei loro colloqui, come fosse stata messa in convento contro voglia dal fratello maggiore insieme alla sorella, e vestita monaca a forza, avesse proferito poi i solenni voti; forse fece anche, con maliziosa abilità intendere di essere profondamente infelice, e che di gran cuore sarebbe uscita da quella costrizione per godersi la sua parte di vita. Incuranti della grande differenza d’età, noncuranti dei mormorii, i due si innamorarono.
Il giorno delle celebrazioni per l’ostensione della “Sacra Cintola”, che ogni anno si celebrava in Prato con grande solennità e gran concorso di popolo, mentre le altre suore erano tutte a capo all’insù a seguire con devozione la cerimonia in piazza del Duomo il Maestro, che di imprese d'amore doveva aver già esperienza, escogitò un finto rapimento. Con grande audacia la portò insieme alla sorella Spinetta nella propria casa che aveva acquistato da non molto e che si trovava proprio ai margini della stessa piazza Duomo e dove le tenne nascoste. Nei giorni seguenti si sostenne, e la cosa più tardi risultò rispondente al vero, che anche un’altra monaca, questa ancora novizia, fosse fuggita dal convento e che si fosse rifugiata anch’essa in casa del maestro Lippi.
Quando venne allo scoperto l’incredibile fatto, la madre superiora e le autorità ecclesiastiche insieme alla famiglia delle due sorelle, cercarono di evitare lo scandalo, pregando e insieme minacciando il Lippi, ma il pittore, sentendosi forte della sua posizione ed essendo così innamorato di quella fanciulla, non volle recedere o rimediare in nessun modo. Non risultò peraltro alcuna privazione della libertà di quelle giovani, le quali neppure si erano opposte al ratto, anzi com’era verosimile, lo avevano agevolato.
L’imponente lavoro pittorico nel coro della pieve di Santo Stefano che stava costando tanto denaro e tanto sforzo era in corso e sarebbe stato un vero disastro se il frate, per rivalsa ad una azione di forza di quelle autorità, l’avesse abbandonato. L’eco dello scandalo apparentemente si attenuò e poi parve spengersi.
Tutti questi avvenimenti suscitarono tanto scalpore all’interno del monastero. In alcune suore, non tutte, perché alcune di esse pregavano per Lucrezia, per Spinetta e per l’altra novizia, essendo sinceramente addolorate per quello che consideravano un fatto triste e peccaminoso, in alcune albergava un misto di contrastanti sentimenti. Una mistura di astio rinnovato che traeva le sue origini negli sprezzanti giudizi che da sempre avevano nutrito per quella giovane suora troppo bella, per quella professa che stava così sulle sue non volendo confidarsi con nessuno; astio accompagnato ad un sentimento d’inconfessabile invidia del quale non potevano sfogare il proprio ... l’un l’altre.
Martellino nelle settimane precedenti al finto rapimento, si era sentito più volte perplesso notando tutto quello stare insieme, del pittore con la monaca; la giovane in posa, non più tanto triste, e il maestro che, mentre dava un tocco sapiente di pennello, le sorrideva e le diceva qualcosa. L’ortolano mal cacato, in quel modo alcune usavano chiamarlo, nel senso di persona nata male, doveva fingere di esser sordo e tardo di mente ma non era cieco.
Nei giorni seguenti al fattaccio lui e Peronella ne parlavano stupefatti: – ... lo dicevo che finiva male... la sfrontatezza di quel venereo pittore... la menò via il giorno ch’ella andava a vedere mostrar la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di nostro castello... – ... quale sfrontatezza... che vergogna vorrai dire! – rispose la donna come offesa per conto della badessa che lei stimava oltremodo. – .. di che le monache molto per tal caso enno svergognate... e che dire dell’altra giovincella! – commentò ancora la donna.
Infatti, la Badessa era sconvolta e per molto tempo non chiamò più Martellino a fare “l’alzamantice” per l’organo. Si sentiva umiliata; il suo monastero aveva subito un oltraggio insopportabile. Perché non mancasse null’altro alla vicenda dello scandalo, venne ad aggiungersi alla sua vergogna un altro tassello. Si seppe che il Castaldo del monastero, il notaio Piero d'Antonio di ser Vannozzo, creduto uomo di fiducia, fosse stato e fosse l’amante della novizia fuggita anch’essa in casa di fra’ Filippo.
Quella notizia, accreditata dal fatto che il notaio era ormai praticamente scomparso, la rese oltremodo infelice. La Madre nutriva per il notaio un trasporto simile all’amore, ma non un amore fisico a cui non avrebbe mai accondisceso, ligia com’era ai suoi voti di religiosa. Non era solo osservante al voto di castità che non le costava quasi nulla, ma anche a quello di obbedienza essendo la Madre Generale lontana da Prato, nondimeno al voto di povertà, purché non le mancassero mai il cardamono, lo zenzero e la curcuma, quelle rare e costose spezie necessarie alla sua salute; tutti voti osservati aridamente, non conditi di sentimenti semplicemente umani.
Il trasporto per il Castaldo era stato piuttosto un amore idealizzato e spirituale. L’uomo, scapolo e appena più giovane di lei, pareva un buon cristiano e, come lei amava la musica gregoriana. Tuttavia, procurandole qualche brivido di genere ereticale, il Castaldo amava citarle Platone l’antico filosofo del momento che portava ad una concezione dialogica del sapere. Le parlava delle nuove idee umanistiche secondo le quali l’uomo, autonomo e padrone della propria sorte sviluppava le facoltà che gli sarebbero proprie e che poteva scoprire in se stesso; e così via. Lei ne era affascinata, sembrandogli l’unica creatura alla sua altezza per conversare. D’altra parte, lei gli parlava di Ildegarda di Bingen, dei cui manoscritti gli donò un giorno una preziosa copia miniata.
Il demone della badessa non era il sesto comandamento, piuttosto era l’ambizione. Aveva convinto la sua famiglia d’origine, suo padre era anch’egli notaio ma notaio a servizio della famiglia de’Medici, a finanziare quella tavola, ormai quasi finita. In quella tavola fra’ Filippo Lippi, insieme al volto bellissimo di Lucrezia che prestava le sembianze a Santa Margherita, c’era anche la sua persona. Aveva raccomandato al grande artista, di lui si diceva fosse il più celebre nella Firenze di quegli anni, di ritrarla in postura umile perché non apparisse badessa troppo mondana, e il pittore l’aveva presa alla lettera. L’aveva ritratta piccola, scura e poco riconoscibile suscitando nella santa donna sentimenti di disappunto e di imbarazzo che non voleva manifestare.
Ma quel particolare in confronto al resto sarebbe passato in secondo piano. Sapere che il suo mentore e amico, il suo colto interlocutore era insieme a quella novizia, e forse proprio in quel momento la stava abbracciando o baciando, suscitava in lei un sentimento indefinito; un sentire non di invidia per quegli abbracci, ma piuttosto di tristezza per lui, per la sua persona che vedeva sminuita, resa pari a tante altre persone che non stimava.
Un anno dopo Lucrezia dette alla luce un bambino, che chiamò Filippo come il padre. Contrariamente alle apparenze per cui sembrava che lo scandalo fosse destinato a sgonfiarsi per convenienza di entrambe le parti, nonostante il fatto che fossero passati ormai mesi e mesi, la loro relazione continuava a destare scandalo, essendo ancora molto forte la pressione del Vicario, quella del vescovo di Pistoia e dei familiari.
Inoltre, si seppe che il notaio che pareva essere sparito dalla circolazione chissà dove, in realtà viveva con la sua giovane amante in un borgo non lontano nella valle del Bisenzio.
Quelle chiacchiere rinfocolate da una sorta di pruriginosa curiosità, passavano attraverso i vecchi e spessi muri del convento sotto forma di inquietante fremito che si insinuava sottile nell’animo delle monache. Le stesse chiacchiere e lo stesso fremito rinfocolarono nella Badessa tutti quei sentimenti che, dopo tanto tempo, pensava fossero sopiti.
Seguirono di nuovo notti insonni; le ritornavano a galla quei dolorosi pensieri e quelle immagini che, a suo tempo, l’avevano sbalordita e stupita. Ricordava bene di quel pomeriggio luminoso di primavera che doveva essere di giubilo e di riconoscente devozione per “Nostra Donna” che attraverso il “Sacro Cingolo” aveva onorato la terra di Prato di un dono meraviglioso, e di come invece si fosse miseramente voltato in giorno del disonore e di quanto il suo monastero si fosse tinto del colore della vergogna.
Per contrasto, voltando completamente scenario, tanto è volubile la mente quando è depressa come lo era la sua in quel momento, rammentava di aver detto una volta al notaio che le loro anime avessero qualcosa in comune, anzi come fossero legate da una corda invisibile, la corda del sapere, del sentirsi far parte di un mondo privilegiato, superiore a quello delle semplici persone che le stavano attorno.
Ripensare a quel mondo che le era crollato addosso, creava nella sua anima una deprimente angoscia, un’angoscia che sentiva strisciare dentro il suo corpo come un serpente impedendole di respirare, ma non sapendo neanche lei per che cosa.
Dopo ore ad occhi chiusi e irrequieti si alzava, fissava la luce della corona intorno allo stoppino della candela ancora accesa, poi si affannava nella sua cella avanti e indietro inseguendo la sua ombra tremolante. Voleva dormire ma non poteva: – Davvero l’insonnia è il giubilo del diavolo... – esclamava sottovoce; allora iniziava a recitare il “misterio” del Rosario di quel giorno e alla fine, spossata, riusciva a prender sonno.
Una notte pianse a lungo, cosa che non aveva mai fatto in quel modo; un pianto silenzioso e doloroso ma consolatorio. Poi si vestì e andò in chiesa. La chiesa era fredda e deserta; tra meno di un’ora le monache sarebbero apparse per la recita del “mattutino”. Salì gli scalini del presbiterio e, davanti al tabernacolo, si sdraiò bocconi allargando le braccia.
Il giorno successivo, la Madre Badessa, un po’ più serena e rincuorata sentì il bisogno di scuotersi ulteriormente da tutte quelle amarezze e fece chiamare Martellino; desiderava cantare un canto gregoriano composto da Ildegarda di Bingen, accompagnandosi all’organo.
Martellino, nonostante la fatica del suo impegno e la sua posizione scomoda rimase edificato da quel canto che parve provenire più da un angelo che da una creatura umana, benché badessa. Alla fine, alzandosi dall’alto sgabello la Madre non riuscì a nascondere una lacrima che non sfuggì all’uomo che tutti in quel convento credevano stupido. Avrebbe voluto dire qualcosa, quantomeno dirle quanto fosse rimasto emozionato, ma non poteva, dovendo sostenere la sua commedia di uomo sordo.
Due giorni dopo, di buon mattino, un mattino peraltro scuro per le nuvole ancora fitte e nere che si erano paurosamente addensate fin dal pomeriggio precedente, mandò di nuovo a chiamare Martellino, ma la monaca tornò concitata dalla Badessa che intanto si era accomodata sullo sgabello avendo già scelto il brano: “O speculum columbae”.
– Madre, Martellino non si trova da nessuna parte, qualcuno ha detto che ci sia stata una disgrazia! –
La Badessa scese, si incamminò spedita e mandò a chiamare colui che aveva preso il posto del notaio come Castaldo perché voleva saperne di più. Più tardi seppe che quel figlio gravemente storpio del suo “alzamantice” e di Petronella era affogato nel Bisenzio durante il tremendo temporale scatenatosi nella sera precedente. Dissero che l’uomo, come riferì un testimone, ubriaco come quasi tutte le sere si era avvicinato troppo alle sponde del fiume all’altezza del “Guado del Palco” e che un’ondata di piena lo avesse travolto e inghiottito. Ancora non si era trovato il suo corpo.
Poco dopo arrivarono al monastero i due anziani coniugi. Piangevano entrambi come vite tagliata. Erano entrambi molli di pioggia che non aveva ancora cessato anch’essa di piangere dal cielo, quasi che la natura volesse esser solidale con quei due semplici cuori. Suor Bartolomea era commossa e, con moto spontaneo corse ad abbracciarli, senza badare che si sarebbe infradiciata anche lei.
Tra i singhiozzi le dissero, immaginando che non lo sapesse ancora, quel che era successo e che non si era ancora trovato il loro unico figlio, né sulle sponde né più a valle. Erano disperati. Parlavano e soprattutto rispondevano entrambi senza problemi alle domande che la Badessa, premurosamente faceva loro.
Sul momento prese dall’afflato e dalla commozione la Badessa e le due monache lì presenti con lei non se n’erano rese conto, ma dopo pochi istanti realizzarono che Martellino stava ascoltando, sentiva quel che gli dicevano e rispondeva senza fatica. Rimasero a bocca aperta. Anche i due anziani coniugi se ne resero conto e si zittirono imbarazzati.
Seguirono alcuni istanti di silenzio, ma durante quegli istanti infiniti nel cuore di suor Bartolomea si rivelò un mondo nuovo; il mondo delle persone povere, il mondo delle persone autentiche. Si scosse e, facendo finta di nulla, piuttosto per non parere sciocca pensò che sarebbe ritornata nell’argomento, tornò di nuovo ad abbracciarli e a consolarli. Li fece sedere, li fece rifocillare.
I due coniugi guardavano lei, la severa Madre e si guardavano negli occhi, rinfrancati e meravigliati. Poco dopo vennero a portare la notizia del ritrovamento del corpo. La madre Badessa volle che i resti mortali di quel figlio deforme, prima del funerale, fossero esposti nella chiesa del monastero.
Quella notte, nel silenzio assoluto della chiesa vuota, all’insaputa di tutti stette a vegliare il morto. Non lo conosceva neppure, lo aveva appena intravisto una volta da lontano, una figura gravemente storpiata, orrenda nell’andatura. Per lei quel morto rappresentava ugualmente qualcosa di importante, un vangelo vissuto e non solo utilizzato per la propria ambizione.
Supponeva che i suoi genitori durante la gravidanza l'avessero aspettato con ansia; si immaginava la premura di entrambi per quella pancia, promessa visibile di una nuova vita, il loro bambino. Poi alla nascita l’amarezza per quelle deformità. Tuttavia, non lo avevano lasciato nel bosco perché fosse presto preda di qualche animale selvatico, lo avevano allevato e gli avevano voluto bene per quarant’anni, pur ricambiati malamente.
Il miracolo del ritrovamento dell’udito di Martellino, per un istante la fece di nuovo sorridere. Gli aveva parlato e gli aveva perdonato quella grossa bugia.
Al funerale parteciparono tutte le monache, professe e novizie. Alcune, incrociandolo nell’orto nei giorni successivi alle esequie, non riuscirono ad evitare il leggero rossore che imporporava il loro verginale volto, ognuna rammentandosi delle proprie leggere cattiverie usate nei suoi confronti. Martellino non ci badò o fece finta di non ricordarsi di nulla.
D’altronde l’uomo, oltre ad avere il compito di “alzamantice”, compito che svolgeva adesso più volentieri, era occupato a fare l’orto in un modo nuovo, secondo le indicazioni dell’antica Badessa Ildegarda di Bingen. Donna straordinaria, non solo mistica e compositrice di musica celestiale ma anche medico efficace attraverso l’uso di erbe e piante medicamentose, la cui coltivazione era descritta sapientemente nei trattati che suor Bartolomea teneva come una reliquia.
A distanza di due anni fece scalpore una “tamburagione”, una denuncia anonima indirizzata agli “Ufficiali di notte e conservatori dell'onestà dei monasteri” contro il procuratore del convento di S. Margherita, il notaio Piero d'Antonio di ser Vannozzo, e contro fra Filippo Lippi, ex cappellano del monastero, entrambi accusati di avere commerci carnali con religiose.
Le varie pressioni furono efficaci; incredibilmente si riuscì a riportare le due sorelle in convento. Esse ripeterono l’anno di noviziato; dopodiché, inginocchiate dinanzi all’altar maggiore con la candela in mano, furono rivestite un’altra volta dell’abito e del velo monacale. La solenne cerimonia si svolse ben tre anni dopo il clamoroso finto rapimento.
Suor Bartolomea che assisté in prima fila a quella liturgia era scossa in cuor suo da sentimenti contrastanti. Lei era stata intimamente contraria a questo ritorno forzato in monastero, ma non poté nulla davanti chi era più importante di lei. Le penitenti fecero solenni promesse tra le quali quella di mantenersi caste e di obbedire alle regole e alle prescrizioni del convento, ma il loro ravvedimento fu di breve durata. Dopo quell’esperienza di libertà i voti rinnovati si dimostrarono ancor più fragili. Lucrezia e Spinetta fuggirono una seconda volta in casa del pittore.
Al ché, suor Bartolomea non poté fare a meno di tirare un profondo sospiro di sollievo mal sopportando tutto ciò, ignorando questa volta quel che ne venisse di onore o di disonore al suo convento. Quell’onore non valeva la sua serenità. Da Ildegarda aveva appreso quanto l’immaginazione dell’insonnia tolga la ragione e quanto l’angoscia sia corrente che allontana da Dio.
In cuor suo si teneva stretta la lezione di autenticità di Martellino e Peronella. Pensò che quella loro semplicità che l’aveva edotta e maturata le valesse tuttora come balsamo contro insonnia e tristezza.
– fine –
P.S.
In questa finzione narrativa la vicenda di fra’ Filippo Lippi e Lucrezia che vi è inserita in forma romanzata, è comunque e in gran parte fatto storico. La loro storia, riportata dal Villani nella sua “Nova Cronaca” prosegue con lo scioglimento dei voti ai due amanti che in seguito papa Pio II, indotto dalle insistenze di Cosimo De’Medici, mentore dell’artista, concesse.
Il Lippi non sposò Lucrezia, dimostrando di voler fare come sempre a modo suo senza sottostare ad alcun obbligo. Tuttavia, consacrò la sua amata in modella immortale. Nei suoi dipinti, dalla Salomè divinamente rappresentata nel coro del Duomo di Prato, alla Lippina degli Uffizi e in altre occasioni, non ultima per valore artistico nell’aggraziato volto di Santa Margherita nella pala d’altare dell’omonimo convento, la ritrasse con grande talento dando vita ad un modo affatto nuovo e geniale di intendere la pittura.