L'ALZAMANTICE – 1456 –

L’ALZAMANTICE – 1457 – Martellino, Peronella, Bartolomea, Lucrezia, Filippo

 SANTA MARGHERITA

Martellino aveva sentito dire che al monastero, quello posto in fondo a piazza Mercatale, la grande piazza dove si teneva il mercato del bestiame il quindici di ogni mese, cercassero un uomo adatto all’orto e ai lavori di fatica, ma che la Badessa, a quanto si diceva con malizia, facesse un passo avanti e due indietro temendone la presenza, poiché aveva con sé tante giovani novizie e altrettanto giovani professe.

Martellino che pur essendo in buone condizioni aveva una certa età, avrebbe fatto volentieri a meno di zappare e potare ma non aveva altre risorse per mantenere se stesso, la sua vecchia e un figlio quarantenne buono a far nulla perché nato storpio. Dentro le mura non lo conosceva nessuno, infatti veniva da Carmignano, ed ebbe così la pensata di apparire completamente sordo e quasi muto se non per poche parole, e quindi un po’ scemo, cose che spesso andavano di pari passo.

Così si presentò al Castaldo preposto alle cose amministrative del convento, tal Piero d'Antonio di ser Vannozzo il quale giudicò che l’uomo, pur adatto alla fatica, avesse il vantaggio di non costituire pericolo alcuno per le monache avendo quelle menomazioni e non essendo, ad esser benevoli, troppo sveglio. Anzi, saputo che avesse per moglie una donna per bene e cristiana prese anche quella a saltuario servizio delle monache.

Martellino, ubbidendo via via alle richieste che gli facevano a gesti e che procuravano a qualche sorella sprazzi di ilarità, prese a lavorare il giardino, a fare l’orto, ad attingere l’acqua; andava ogni tanto al di là del Bisenzio per fare la legna nel bosco, faceva tanti lavoretti. Un giorno il Castaldo chiamò sua moglie che per fortuna non lamentava la stessa menomazione, pregandola di spiegare a modo suo al marito, – ... ché l’amor tra sposi intende far capire anche ad orecchi tappati. –  avrebbe dovuto fare, ogni tanto, l’alzamantice all’organo della Badessa, ma senza spiegarle che cosa volesse dire di preciso e neppure lei glielo chiese, per riguardo.

I due sposi erano contenti di come si era messa la faccenda ma, con l’andar del tempo, a Martellino sembrò che il salario fosse scrio scrio per tutto quel lavoro, bastando appena a sfamarsi, loro stessi e il figliolo, senza che avanzasse alcunché per brache e calzari. Oltretutto, gli pareva che molte monache, di cui sentiva i discorsi senza che loro, credendolo completamente sordo lo sospettassero, avessero la cattiveria in corpo. Molte si facevano beffe di lui rifacendogli il verso o gli prendevano la zappa di mano con sicumera per mostrargli come fosse meglio fare; altre invece, e queste gli facevano pena, camminavano silenziose e tristi in giardino o tra i filari delle verdure di stagione.

Tra queste ultime ne notò due che seppe essere sorelle di sangue e non solo di sorellanza religiosa, suor Marta la maggiore e suor Agnese. Figlie di Francesco Buti, un cittadino fiorentino mercante di seterie e morto da qualche anno come la madre, erano entrambe molto belle, anche se infelici, specialmente la prima. Il loro fratello Antonio, essendo gravato da troppe sorelle, ed essendo le doti per il convento molto più modeste di quanto richiedesse un marito, le aveva costrette a prendere i voti in questo monastero pratese che godeva fama di santità.

Martellino non se ne intendeva molto essendo cristiano all’acqua di rose come spesso lo rimproverava sua moglie e come riconosceva di essere, ma tutta quella santità non riusciva a scorgerla. La Madre Badessa per prima, seppur ligia ai doveri, all’ufficio divino e alle altre funzioni religiose che imponeva con fermezza a tutte le monache, le appariva superba, come avesse la puzza sotto il naso.

Suor Bartolomea, una donna alta che manteneva ancora quasi intatti i segni della giovanile bellezza, proveniva da una famiglia nobile. Quella religiosa così severa aveva una qualità che fingeva di non ostentare e che ancora troppo pochi, fuori del monastero, sapevano avesse. Ogni tanto, proveniente dal presbiterio, arrivava fin nell’orto una musica dolce e insieme solenne; amante di musica sacra si dilettava a suonare l’organo davanti al quale, a chi avendone l’opportunità l'avesse osservata in quei momenti, pareva un’altra persona.

In tali occasioni Martellino doveva svolgere il compito non proprio leggero di “alzamantice”. Si trattava di alimentare il flusso costante dell’aria nell’organo, compito del cui significato la moglie non era stata inizialmente in grado di spiegargli. Doveva entrare all’interno e, con forza, sollevare i mantici che si sgonfiavano via via sotto il peso di grosse pietre.

I brani preferiti dalla religiosa facevano parte di composizioni musicali di un’altra Badessa, Ildegarda di Bingen, una donna straordinaria vissuta tre secoli prima, alla quale presumeva di assomigliare o, quantomeno di ispirarsi in tutto. Quella religiosa era stata non solo una mistica ma anche musicista di prim’ordine, guaritrice, erborista, filosofa, artista, poetessa.

Scesa dallo sgabello dell’imponente organo a più registri suor Bartolomea smetteva i panni della sensibile interprete e ritornava ad essere severa, in particolar con suor Marta; la redarguiva spesso e di nulla, accusandola di non pregare con devozione o di non essere sufficientemente contrita. Alcune consorelle, seguendo il vento che spirava ne sparlavano con sottile cattiveria. Suor Marta, al secolo Lucrezia Buti, sia pur castigata dal pesante velo di stoffa nera e da un sottile velo di tristezza, appariva troppo bella e suscitava invidia e gelosia.

La sera, tornando a casa, una specie di scantinato che aveva preso a pigione vicino a Porta Fuja, Martellino riportava a Peronella le sue impressioni. I due si volevano bene e, fin dalla sua nascita, avevano accettato con paziente e cristiana rassegnazione la storpiatura del figliolo, il quale però, da quando erano tornati dentro alla terza cerchia muraria di Prato, aveva preso una brutta strada tornando avvinazzato dalle taverne ogni sera e facendoli confondere.

Tuttavia, anche quella sera, dovendo fingere la necessaria pantomima durante tutto il giorno, gli venne voglia di raccontare di ciò che sentiva dire al monastero: – ... qualcheduna di quelle son dei diavoli Peronella, si darebban foco. Lo sai che lo stemma dell’ordine gli è un cuore bruciante? Che sia per quello? – Lo disse un po’ burla e un po’ perché ne aveva davvero qualche dubbio.

– Tu sei un buono Martellino ma sei ignorante. Il cuore che brucia nello stemma brucia per l’amore inquieto degli homini che cercano Dio, come diceva il santo fondatore, il vescovo Agostino. – Peronella era più sveglia del marito anche al di là di quella sua finzione e sapeva leggere e un po’ anche a scrivere. Da ragazza aveva trascorso anche lei alcuni anni di convento senza costrizione alcuna, fino a che una malattia l’aveva costretta ad uscirne.

In quell’istante si aprì la porta. Insieme ad una forte folata di vento e acqua entrò il figliolo sciancato. Barcollava e puzzava di vino; senza dir nulla si sdraiò in terra accanto al fuoco e subito cominciò a ronfare. I due vecchi lo guardavano addolorati e non troppo stupiti ormai; a quel figliolo non riuscivano più a dir nulla senza che non rispondesse a male parole. Sgomenti, recitarono le loro devozioni e se andarono a letto.

Passarono alcuni mesi senza che niente venisse ad alterare lo svolgersi abituale della vita nel monastero; neppure nella vita dei due vecchi sposi era cambiato alcunché se non in peggio, per l’andamento sempre più disordinato di quel figlio storpio.

Un giorno, accompagnato dal Castaldo arrivò in convento un gran personaggio fiorentino, un famoso pittore, tal fra’ Filippo Lippi. Era un frate francescano dagli occhi vivaci e dai modi spicci, diverso da tutti i frati che Martellino aveva visto o conosciuto. Accompagnato dalla Madre Badessa visitò subito la chiesa che osservò da cima a fondo con accuratezza.

Si seppe che aveva avuto l’incarico di decorare con un suo dipinto la grande tavola dell’altar maggiore. Il dipinto doveva illustrare la Madonna che dà la Cintola a san Tommaso con un ricco contorno di personaggi. Tra le altre avrebbero dovuto fare spicco le immagini di sant’Agostino, di Santa Margherita e di suor Bartolomea, la severa badessa di quel monastero, in qualità di benefattrice.

Martellino da quel giorno vide arrivare spesso quel singolare religioso il quale, come si seppe, era stato, forse per l’occasione, nominato addirittura cappellano del monastero.

Come riportò una sera Martellino alla propria sposa, il pittore, girando in lungo e largo per il convento non mancava di osservare tutto e tutti. – ... in special modo parmi egli osservare le suore le più belle e più giovani... Peronella... parmi non sia cotanto spirituale, come si converrebbe... –

Ed infatti, il pittore individuò presto suor Marta; la vide e se ne invaghì per la sua grazia e la sua sobria bellezza. Col pretesto di ritrarla in quella tavola nelle vesti di Santa Margherita Filippo richiese quel permesso alla badessa in modo che la giovane suora ventenne posasse davanti a lui.

A quella domanda suor Bartolomea si sentì presa in grandi ambasce. La Badessa non era un’ingenua e conosceva il cinquantenne frate per fama, sia per la straordinaria arte pittorica, nondimeno per la sua disinvoltura con le giovani donne.

Era stato ingaggiato quattro anni prima, come tutti a Prato sapevano, per la decorazione del Coro della Pieve di Santo Stefano, un’opera per quale era stata stanziata dal Capitolo una somma ingente, ben dodicimila fiorini e già, chi poteva avvicinarsi al lavoro ancora molto parziale, avrebbe scommesso che l’affresco sarebbe stato un capolavoro, di una grazia e bellezza mai viste.  Tuttavia, nei mesi invernali il lavoro pittorico fatto “a fresco”, doveva interrompersi e adesso, in quel rigido mese di dicembre lui era lì su richiesta della religiosa per fare quella pala d’altare che avrebbe conferito molto prestigio alla sua famiglia e al suo ordine.

Fu molto combattuta, sentiva che la cosa sarebbe stata di gran rischio e la Madre dapprima non volle accondiscendere. Ma alla fine intuì che un suo diniego, come gli aveva fatto balenare astutamente il frate, avrebbe messo in pericolo tempi e consegna della pala e che ne avesse a subire la sua ambizione; così il pittore tanto seppe dire e fare che da ultimo ottenne ciò che voleva.

Filippo, di carattere gioviale ed esuberante si trovò quindi spesso con Lucrezia mentre dipingeva, e avendone comoda possibilità, si intratteneva con lei in piacevoli ragionamenti entrando presto in confidenza. Così si andò accendendo in lui il fuoco della passione amorosa, e non essendo persona che al crescere del pericolo cercasse di spengerlo per rispetto dei suoi sacri voti o per pentimento, se ne lasciò ancor più avvolgere. 

A sua volta, Lucrezia, dalla bellezza eterea e dai capelli dorati, non dovette star molto a confessargli, nella crescente intimità dei loro colloqui, come fosse stata messa in convento contro voglia dal fratello maggiore insieme alla sorella, e vestita monaca a forza, avesse proferito poi i solenni voti; forse fece anche, con maliziosa abilità intendere di essere profondamente infelice, e che di gran cuore sarebbe uscita da quella costrizione per godersi la sua parte di vita. Incuranti della grande differenza d’età, noncuranti dei mormorii, i due si innamorarono.

Il giorno delle celebrazioni per l’ostensione della “Sacra Cintola”, che ogni anno si celebrava in Prato con grande solennità e gran concorso di popolo, mentre le altre suore erano tutte a capo all’insù a seguire con devozione la cerimonia in piazza del Duomo il Maestro, che di imprese d'amore doveva aver già esperienza, escogitò un finto rapimento. Con grande audacia la portò insieme alla sorella Spinetta nella propria casa che aveva acquistato da non molto e che si trovava proprio ai margini della stessa piazza Duomo e dove le tenne nascoste. Nei giorni seguenti si sostenne, e la cosa più tardi risultò rispondente al vero, che anche un’altra monaca, questa ancora novizia, fosse fuggita dal convento e che si fosse rifugiata anch’essa in casa del maestro Lippi.

Quando venne allo scoperto l’incredibile fatto, la madre superiora e le autorità ecclesiastiche insieme alla famiglia delle due sorelle, cercarono di evitare lo scandalo, pregando e insieme minacciando il Lippi, ma il pittore, sentendosi forte della sua posizione ed essendo così innamorato di quella fanciulla, non volle recedere o rimediare in nessun modo. Non risultò peraltro alcuna privazione della libertà di quelle giovani, le quali neppure si erano opposte al ratto, anzi com’era verosimile, lo avevano agevolato.

L’imponente lavoro pittorico nel coro della pieve di Santo Stefano che stava costando tanto denaro e tanto sforzo era in corso e sarebbe stato un vero disastro se il frate, per rivalsa ad una azione di forza di quelle autorità, l’avesse abbandonato. L’eco dello scandalo apparentemente si attenuò e poi parve spengersi.

Tutti questi avvenimenti suscitarono tanto scalpore all’interno del monastero. In alcune suore, non tutte, perché alcune di esse pregavano per Lucrezia, per Spinetta e per l’altra novizia, essendo sinceramente addolorate per quello che consideravano un fatto triste e peccaminoso, in alcune albergava un misto di contrastanti sentimenti. Una mistura di astio rinnovato che traeva le sue origini negli sprezzanti giudizi che da sempre avevano nutrito per quella giovane suora troppo bella, per quella professa che stava così sulle sue non volendo confidarsi con nessuno; astio accompagnato ad un sentimento d’inconfessabile invidia del quale non potevano sfogare il proprio ... l’un l’altre.

Martellino nelle settimane precedenti al finto rapimento, si era sentito più volte perplesso notando tutto quello stare insieme, del pittore con la monaca; la giovane in posa, non più tanto triste, e il maestro che, mentre dava un tocco sapiente di pennello, le sorrideva e le diceva qualcosa. L’ortolano mal cacato, in quel modo alcune usavano chiamarlo, nel senso di persona nata male, doveva fingere di esser sordo e tardo di mente ma non era cieco.

Nei giorni seguenti al fattaccio lui e Peronella ne parlavano stupefatti: – ... lo dicevo che finiva male... la sfrontatezza di quel venereo pittore... la menò via il giorno ch’ella andava a vedere mostrar la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di nostro castello... – ... quale sfrontatezza... che vergogna vorrai dire!  – rispose la donna come offesa per conto della badessa che lei stimava oltremodo. – .. di che le monache molto per tal caso enno svergognate...  e che dire dell’altra giovincella! – commentò ancora la donna.

Infatti, la Badessa era sconvolta e per molto tempo non chiamò più Martellino a fare “l’alzamantice” per l’organo. Si sentiva umiliata; il suo monastero aveva subito un oltraggio insopportabile. Perché non mancasse null’altro alla vicenda dello scandalo, venne ad aggiungersi alla sua vergogna un altro tassello. Si seppe che il Castaldo del monastero, il notaio Piero d'Antonio di ser Vannozzo, creduto uomo di fiducia, fosse stato e fosse l’amante della novizia fuggita anch’essa in casa di fra’ Filippo.

Quella notizia, accreditata dal fatto che il notaio era ormai praticamente scomparso, la rese oltremodo infelice. La Madre nutriva per il notaio un trasporto simile all’amore, ma non un amore fisico a cui non avrebbe mai accondisceso, ligia com’era ai suoi voti di religiosa. Non era solo osservante al voto di castità che non le costava quasi nulla, ma anche a quello di obbedienza essendo la Madre Generale lontana da Prato, nondimeno al voto di povertà, purché non le mancassero mai il cardamono, lo zenzero e la curcuma, quelle rare e costose spezie necessarie alla sua salute; tutti voti osservati aridamente, non conditi di sentimenti semplicemente umani.

Il trasporto per il Castaldo era stato piuttosto un amore idealizzato e spirituale. L’uomo, scapolo e appena più giovane di lei, pareva un buon cristiano e, come lei amava la musica gregoriana. Tuttavia, procurandole qualche brivido di genere ereticale, il Castaldo amava citarle Platone l’antico filosofo del momento che portava ad una concezione dialogica del sapere. Le parlava delle nuove idee umanistiche secondo le quali l’uomo, autonomo e padrone della propria sorte sviluppava le facoltà che gli sarebbero proprie e che poteva scoprire in se stesso; e così via. Lei ne era affascinata, sembrandogli l’unica creatura alla sua altezza per conversare. D’altra parte, lei gli parlava di Ildegarda di Bingen, dei cui manoscritti gli donò un giorno una preziosa copia miniata.

Il demone della badessa non era il sesto comandamento, piuttosto era l’ambizione. Aveva convinto la sua famiglia d’origine, suo padre era anch’egli notaio ma notaio a servizio della famiglia de’Medici, a finanziare quella tavola, ormai quasi finita. In quella tavola fra’ Filippo Lippi, insieme al volto bellissimo di Lucrezia che prestava le sembianze a Santa Margherita, c’era anche la sua persona. Aveva raccomandato al grande artista, di lui si diceva fosse il più celebre nella Firenze di quegli anni, di ritrarla in postura umile perché non apparisse badessa troppo mondana, e il pittore l’aveva presa alla lettera. L’aveva ritratta piccola, scura e poco riconoscibile suscitando nella santa donna sentimenti di disappunto e di imbarazzo che non voleva manifestare.

Ma quel particolare in confronto al resto sarebbe passato in secondo piano. Sapere che il suo mentore e amico, il suo colto interlocutore era insieme a quella novizia, e forse proprio in quel momento la stava abbracciando o baciando, suscitava in lei un sentimento indefinito; un sentire non di invidia per quegli abbracci, ma piuttosto di tristezza per lui, per la sua persona che vedeva sminuita, resa pari a tante altre persone che non stimava.

Un anno dopo Lucrezia dette alla luce un bambino, che chiamò Filippo come il padre. Contrariamente alle apparenze per cui sembrava che lo scandalo fosse destinato a sgonfiarsi per convenienza di entrambe le parti, nonostante il fatto che fossero passati ormai mesi e mesi, la loro relazione continuava a destare scandalo, essendo ancora molto forte la pressione del Vicario, quella del vescovo di Pistoia e dei familiari.

Inoltre, si seppe che il notaio che pareva essere sparito dalla circolazione chissà dove, in realtà viveva con la sua giovane amante in un borgo non lontano nella valle del Bisenzio.

Quelle chiacchiere rinfocolate da una sorta di pruriginosa curiosità, passavano attraverso i vecchi e spessi muri del convento sotto forma di inquietante fremito che si insinuava sottile nell’animo delle monache. Le stesse chiacchiere e lo stesso fremito rinfocolarono nella Badessa tutti quei sentimenti che, dopo tanto tempo, pensava fossero sopiti.

Seguirono di nuovo notti insonni; le ritornavano a galla quei dolorosi pensieri e quelle immagini che, a suo tempo, l’avevano sbalordita e stupita. Ricordava bene di quel pomeriggio luminoso di primavera che doveva essere di giubilo e di riconoscente devozione per “Nostra Donna” che attraverso il “Sacro Cingolo” aveva onorato la terra di Prato di un dono meraviglioso, e di come invece si fosse miseramente voltato in giorno del disonore e di quanto il suo monastero si fosse tinto del colore della vergogna.

Per contrasto, voltando completamente scenario, tanto è volubile la mente quando è depressa come lo era la sua in quel momento, rammentava di aver detto una volta al notaio che le loro anime avessero qualcosa in comune, anzi come fossero legate da una corda invisibile, la corda del sapere, del sentirsi far parte di un mondo privilegiato, superiore a quello delle semplici persone che le stavano attorno.

Ripensare a quel mondo che le era crollato addosso, creava nella sua anima una deprimente angoscia, un’angoscia che sentiva strisciare dentro il suo corpo come un serpente impedendole di respirare, ma non sapendo neanche lei per che cosa.

Dopo ore ad occhi chiusi e irrequieti si alzava, fissava la luce della corona intorno allo stoppino della candela ancora accesa, poi si affannava nella sua cella avanti e indietro inseguendo la sua ombra tremolante. Voleva dormire ma non poteva: – Davvero l’insonnia è il giubilo del diavolo... – esclamava sottovoce; allora iniziava a recitare il “misterio” del Rosario di quel giorno e alla fine, spossata, riusciva a prender sonno.

Una notte pianse a lungo, cosa che non aveva mai fatto in quel modo; un pianto silenzioso e doloroso ma consolatorio. Poi si vestì e andò in chiesa. La chiesa era fredda e deserta; tra meno di un’ora le monache sarebbero apparse per la recita del “mattutino”.  Salì gli scalini del presbiterio e, davanti al tabernacolo, si sdraiò bocconi allargando le braccia.

Il giorno successivo, la Madre Badessa, un po’ più serena e rincuorata sentì il bisogno di scuotersi ulteriormente da tutte quelle amarezze e fece chiamare Martellino; desiderava cantare un canto gregoriano composto da Ildegarda di Bingen, accompagnandosi all’organo.

Martellino, nonostante la fatica del suo impegno e la sua posizione scomoda rimase edificato da quel canto che parve provenire più da un angelo che da una creatura umana, benché badessa. Alla fine, alzandosi dall’alto sgabello la Madre non riuscì a nascondere una lacrima che non sfuggì all’uomo che tutti in quel convento credevano stupido. Avrebbe voluto dire qualcosa, quantomeno dirle quanto fosse rimasto emozionato, ma non poteva, dovendo sostenere la sua commedia di uomo sordo.

Due giorni dopo, di buon mattino, un mattino peraltro scuro per le nuvole ancora fitte e nere che si erano paurosamente addensate fin dal pomeriggio precedente, mandò di nuovo a chiamare Martellino, ma la monaca tornò concitata dalla Badessa che intanto si era accomodata sullo sgabello avendo già scelto il brano: “O speculum columbae”.

– Madre, Martellino non si trova da nessuna parte, qualcuno ha detto che ci sia stata una disgrazia! –

La Badessa scese, si incamminò spedita e mandò a chiamare colui che aveva preso il posto del notaio come Castaldo perché voleva saperne di più. Più tardi seppe che quel figlio gravemente storpio del suo “alzamantice” e di Petronella era affogato nel Bisenzio durante il tremendo temporale scatenatosi nella sera precedente. Dissero che l’uomo, come riferì un testimone, ubriaco come quasi tutte le sere si era avvicinato troppo alle sponde del fiume all’altezza del “Guado del Palco” e che un’ondata di piena lo avesse travolto e inghiottito. Ancora non si era trovato il suo corpo.

Poco dopo arrivarono al monastero i due anziani coniugi. Piangevano entrambi come vite tagliata. Erano entrambi molli di pioggia che non aveva ancora cessato anch’essa di piangere dal cielo, quasi che la natura volesse esser solidale con quei due semplici cuori. Suor Bartolomea era commossa e, con moto spontaneo corse ad abbracciarli, senza badare che si sarebbe infradiciata anche lei.

Tra i singhiozzi le dissero, immaginando che non lo sapesse ancora, quel che era successo e che non si era ancora trovato il loro unico figlio, né sulle sponde né più a valle. Erano disperati. Parlavano e soprattutto rispondevano entrambi senza problemi alle domande che la Badessa, premurosamente faceva loro.

Sul momento prese dall’afflato e dalla commozione la Badessa e le due monache lì presenti con lei non se n’erano rese conto, ma dopo pochi istanti realizzarono che Martellino stava ascoltando, sentiva quel che gli dicevano e rispondeva senza fatica. Rimasero a bocca aperta. Anche i due anziani coniugi se ne resero conto e si zittirono imbarazzati.

Seguirono alcuni istanti di silenzio, ma durante quegli istanti infiniti nel cuore di suor Bartolomea si rivelò un mondo nuovo; il mondo delle persone povere, il mondo delle persone autentiche. Si scosse e, facendo finta di nulla, piuttosto per non parere sciocca pensò che sarebbe ritornata nell’argomento, tornò di nuovo ad abbracciarli e a consolarli. Li fece sedere, li fece rifocillare.

I due coniugi guardavano lei, la severa Madre e si guardavano negli occhi, rinfrancati e meravigliati. Poco dopo vennero a portare la notizia del ritrovamento del corpo. La madre Badessa volle che i resti mortali di quel figlio deforme, prima del funerale, fossero esposti nella chiesa del monastero.

Quella notte, nel silenzio assoluto della chiesa vuota, all’insaputa di tutti stette a vegliare il morto. Non lo conosceva neppure, lo aveva appena intravisto una volta da lontano, una figura gravemente storpiata, orrenda nell’andatura. Per lei quel morto rappresentava ugualmente qualcosa di importante, un vangelo vissuto e non solo utilizzato per la propria ambizione.

Supponeva che i suoi genitori durante la gravidanza l'avessero aspettato con ansia; si immaginava la premura di entrambi per quella pancia, promessa visibile di una nuova vita, il loro bambino. Poi alla nascita l’amarezza per quelle deformità. Tuttavia, non lo avevano lasciato nel bosco perché fosse presto preda di qualche animale selvatico, lo avevano allevato e gli avevano voluto bene per quarant’anni, pur ricambiati malamente.

Il miracolo del ritrovamento dell’udito di Martellino, per un istante la fece di nuovo sorridere. Gli aveva parlato e gli aveva perdonato quella grossa bugia.

Al funerale parteciparono tutte le monache, professe e novizie. Alcune, incrociandolo nell’orto nei giorni successivi alle esequie, non riuscirono ad evitare il leggero rossore che imporporava il loro verginale volto, ognuna rammentandosi delle proprie leggere cattiverie usate nei suoi confronti. Martellino non ci badò o fece finta di non ricordarsi di nulla.

D’altronde l’uomo, oltre ad avere il compito di “alzamantice”, compito che svolgeva adesso più volentieri, era occupato a fare l’orto in un modo nuovo, secondo le indicazioni dell’antica Badessa Ildegarda di Bingen. Donna straordinaria, non solo mistica e compositrice di musica celestiale ma anche medico efficace attraverso l’uso di erbe e piante medicamentose, la cui coltivazione era descritta sapientemente nei trattati che suor Bartolomea teneva come una reliquia.

A distanza di due anni fece scalpore unatamburagione”, una denuncia anonima indirizzata agli “Ufficiali di notte e conservatori dell'onestà dei monasteri” contro il procuratore del convento di S. Margherita, il notaio Piero d'Antonio di ser Vannozzo, e contro fra Filippo Lippi, ex cappellano del monastero, entrambi accusati di avere commerci carnali con religiose.

Le varie pressioni furono efficaci; incredibilmente si riuscì a riportare le due sorelle in convento. Esse ripeterono l’anno di noviziato; dopodiché, inginocchiate dinanzi all’altar maggiore con la candela in mano, furono rivestite un’altra volta dell’abito e del velo monacale. La solenne cerimonia si svolse ben tre anni dopo il clamoroso finto rapimento.

Suor Bartolomea che assisté in prima fila a quella liturgia era scossa in cuor suo da sentimenti contrastanti. Lei era stata intimamente contraria a questo ritorno forzato in monastero, ma non poté nulla davanti chi era più importante di lei. Le penitenti fecero solenni promesse tra le quali quella di mantenersi caste e di obbedire alle regole e alle prescrizioni del convento, ma il loro ravvedimento fu di breve durata. Dopo quell’esperienza di libertà i voti rinnovati si dimostrarono ancor più fragili. Lucrezia e Spinetta fuggirono una seconda volta in casa del pittore.

Al ché, suor Bartolomea non poté fare a meno di tirare un profondo sospiro di sollievo mal sopportando tutto ciò, ignorando questa volta quel che ne venisse di onore o di disonore al suo convento. Quell’onore non valeva la sua serenità. Da Ildegarda aveva appreso quanto l’immaginazione dell’insonnia tolga la ragione e quanto l’angoscia sia corrente che allontana da Dio.

In cuor suo si teneva stretta la lezione di autenticità di Martellino e Peronella. Pensò che quella loro semplicità che l’aveva edotta e maturata le valesse tuttora come balsamo contro insonnia e tristezza.

 

– fine –

 

P.S.

In questa finzione narrativa la vicenda di fra’ Filippo Lippi e Lucrezia che vi è inserita in forma romanzata, è comunque e in gran parte fatto storico. La loro storia, riportata dal Villani nella sua “Nova Cronaca” prosegue con lo scioglimento dei voti ai due amanti che in seguito papa Pio II, indotto dalle insistenze di Cosimo De’Medici, mentore dell’artista, concesse.

Il Lippi non sposò Lucrezia, dimostrando di voler fare come sempre a modo suo senza sottostare ad alcun obbligo. Tuttavia, consacrò la sua amata in modella immortale. Nei suoi dipinti, dalla Salomè divinamente rappresentata nel coro del Duomo di Prato, alla Lippina degli Uffizi e in altre occasioni, non ultima per valore artistico nell’aggraziato volto di Santa Margherita nella pala d’altare dell’omonimo convento, la ritrasse con grande talento dando vita ad un modo affatto nuovo e geniale di intendere la pittura.  

 

MICHELAGNOLO - anno 1564 -

MICHELAGNOLO – anno 1564 – Tommaso, Salvestra, Tobia, Michelagnolo

3

A cinquantasette anni ero ormai abbastanza vecchio per illudermi di nuovo; mi ero già illuso troppo a suo tempo e sapevo come vanno certe cose. E poi che cosa poteva aspettarsi da me il maestro; quella mattina mi aveva fatto chiamare nel suo studio.

Si immagina quello che so fare ed io lo so per primo... so pulire molto bene le scodelle dei colori. – esclamai sottovoce con un amaro pelo di ironia. Non so perché allora mi venne in mente Salvestra; guardavo dalla finestra spalancata e quello che vedevo mi rendeva malinconico. Era ormai tardi e da troppo tempo, ma sentivo che sarebbe stato bello vivere accanto a quella donna, e amarci, baciarsi, abbracciarsi sopra alla visione di questa città, sopra tutti gli amori che essa rinchiude, sopra ai desideri comuni.

E ancor meno non so come abbia fatto quella giovane donna, quello fu l’anno più bello della mia vita, a parere innamorata di me, data la mia bruttezza. Disse che le sembravo bello d’animo e che ciò le bastasse. Di sicuro poi non le bastò avendo un giorno preferito quel mercante romano che curava alcuni interessi presso la famiglia De’ Medici; tant’è, questa è la vita.

 

Il ricordo della mia bruttezza giovanile, che adesso aveva poca importanza non dovendo piacere a nessuno, quella sera strideva con la bellezza struggente del tramonto romano con gli antichi resti che qua e là rimandavano alla memoria dei fasti antichi. Erano gli ultimi giorni di luglio e il sole che stava per scomparire dietro il Pantheon riversava una pioggia di fiamme sui tetti. Il cielo era di un color rosso acceso, mentre più in alto pareva tinto prima d’oro sbiadito poi di giallo e di verde pallido intriso di luce, diventando poi di colore azzurro puro e fresco, all’orizzonte. Chissà come il maestro avrebbe realizzato quei colori su una delle sue tele, pensai. Ero a servizio di un grande artista, ormai vecchio, molto più di me, e anche lui, per quanto ne sapevo, non era più lo stesso.

Non mi aspettavo più nulla riguardo al mio mestiere; nondimeno ci sono delle sere in cui anche agli animi meno esaltati come era il mio in quei giorni, viene fatto di recriminare o di sognare, contro ogni evidenza: – ... se avessi auto più pazienza...e se fussi stato men saccente... – mormorai appoggiato alla larga soglia di travertino della finestra. Un gatto che vi era appollaiato, forse anche lui sognava qualche cosa, si scosse, mi guardò e scappò via saltando sul tetto vicino.

 

Mi venne di ricordare. Lasciando la mia povera famiglia di contadini ero partito da Poggio a Caiano, piccolo borgo e porto fluviale sull’Ombrone. Poggio era vicino alla villa che Lorenzo de’ Medici si era fatto costruire con magnificenza pochi anni prima, sotto alle prime propaggini del Montalbano. Forse fu proprio l’esser accosto a quella gran casa, a quei giardini pari di bellezza ai giardini dell’Eden che mi fece desiderare di spingermi fino a Firenze a cercar fortuna. Mi accompagnò a fare quel passo audace quel che mi aveva raccontato un mio parente che di quelle cose pareva informato, lavorando nella città gigliata: – ... dei sapere che il grande Filippo di ser Brunellesco, di ingegno elevato che ben si può dire che e’ ci fu donato dal cielo per dar nuova forma alla architettura, è molto sparuto Tommaso... anche più di te. –  Non si peritò di dirmi quella spiacevolezza, perché quella mia fama era meritata ed era sulla bocca di tutti, ed ormai non ci facevo più caso.

Fui preso a bottega per quattro ducati al mese da un maestro che non badò punto al mio aspetto fisico; ero fiducioso del mio talento e maestro Pietro si fidò del mio sentire. – Egli vide alcuni miei fogli imbrattati, giudicò essere in me ingegno in nuce da farsi in questa arte mirabile e valente... – ricordai ad alta voce a me stesso, mentre osservavo la luna che pian piano stava salendo.

Avevo cominciato bene. Mi affidò per molto tempo certe rifiniture da cui desiderava valutarmi, per non fare il passo più lungo della gamba, come diceva, che lo soddisfecero. Poi mi assegnò alcune parti minori e piccole, di secondo piano, in un importante dipinto “a fresco” raffigurante San Bartolomeo in atto di essere scorticato vivo.

Pareva avessi guadagnato la sua fiducia, così che un giorno insieme ad altri due pittori appena più esperti di me che aveva ingaggiato per l’occasione, lo accompagnai a Pistoia dove da tempo aveva impostato un altro grande dipinto da fare “a fresco” per il quale, da tempo, aveva terminato a i cartoni preparatori fatti a carboncino. Il muro del refettorio di quel convento era stato intonacato a malta solo in parte, essendo il progetto pittorico fatto di quadri a episodi biblici, così il maestro, per saggio, ci fece cominciare da alcuni angoli per i quali lavorammo molti giorni, arrampicati su quei ponti di legno.

 

Mentre quelle cose mi scorrevano dolorosamente nella memoria e il buio tiepido prendeva il posto del rosso tramonto, si era rifatto vivo il gatto. Era un gattone vecchio, in proporzione alla vita dei gatti, vecchio come me; bianco a macchie nere anche sul muso. Si accoccolò vicino, strofinando il suo muso dolce ai gomiti che avevo appoggiati sul davanzale. Mi ero chiesto tempo fa se anche i gatti ricordino o se abbiano un’anima spirituale. Era un dubbio che non osavo esprimere a nessuno; con la santa Inquisizione non c’era tanto da scherzare; tanto più qui, nella città eterna.

Mi venne allora di seguitare quel ricordo a voce, forse perché mi è ancora vivo: – ... ma veduto le fatiche nostre molto lontane da ’l desiderio suo e non sodisfacendogli, una mattina lui, il maestro Pietro, si risolse di gittare a terra ogni cosa che avevamo fatto.... capito gatto?... e quella fu la fine della mia carriera. – Il morbido animale non si espresse e continuò a strofinarsi a me, forse per bestiale compassione.

Il maestro Pietro quel giorno si era rinchiuso nel refettorio e non ci volle più vedere. Era venuta quindi a mancare la sua stima che sperai aver perso soltanto in modo provvisorio. Ma non fu così; ho continuato fino all’anno scorso a fare saltuari lavori ora in una bottega, ora in un’altra, senza mai eccellere, per la maggior parte rifiniture sia a pennello che a scalpello. – Questa è la veritate, ed ora che son vecchio come te, più non mi dolora. – mormorai.

Furono anni difficili e non solo per le mie rare soddisfazioni artistiche. L’ambiente fiorentino delle botteghe d’arte era molto competitivo e a volte corrotto. Non ch’io sia un’anima bella ma mi sono sempre sentito a disagio respirando quell’aria spesso intrisa di gelosie e di astio reciproco.

 

Tant’è, da qualche mese ero a servizio di Michelagnolo di Lodovico Simon Buonaroti, non più come artefice, benché di secondo piano, ma come servitore. Mi pareva di non avere più la mano ferma come un tempo o forse, per arrendermi sentendo meno dolore, mi ero semplicemente fatto quella convinzione. Così, ad un certo punto mi era convenuto serenamente piegarmi a servire tal genio. Pulivo i pennelli, le scodelle dei colori, rimettevo a posto, preparavo tutto ciò che serviva al grande fiorentino, compreso scalpelli e mazzolo. Mi aveva assunto volentieri e senza esitazione, anzi, nonostante vivessi a Fiorenza mi aveva fatto venire a Roma attraverso un comune conoscente.

Era un uomo vecchio di ossatura grande e dal viso solcato di rughe profonde e sgraziato. Sapevo che il maestro avesse un bruttissimo e litigioso carattere e che il suo naso storto fosse la conseguenza dell’aver fatto a cazzotti con un altro artista, in tempi lontani. Così mi chiesi più volte, procurandomi ripetutamente una modesta porzione di ilarità, se il maestro non fosse rimasto affascinato e consolato della mia rara bruttezza, maggiore della sua.

Un giorno piovoso d’autunno, seguente alla conoscenza con il gatto che avevo nel frattempo battezzato Tobia e che aveva preso a seguirmi dappertutto, il maestro mi chiamò, come aveva fatto altre volte, nello studio. Questa volta però aveva da chiedermi, come disse subito dati i miei trascorsi, una opinione su una rifinitura importante da fare su un particolare dell’opera a cui stava lavorando, non riguardante certo la parte con la Madonna e il Cristo, ma il basamento. L’avermi comunque chiesto l’opinione mi meravigliò molto sapendo quanto non amasse che altri giudicassero il suo operato “in fieri”.

Il maestro aveva quasi ottant’anni e da tempo aveva smesso di lavorare per compenso, essendo egli molto benestante. Da anni si era ritirato nel suo studio, una vasta e alta stanza al pianterreno, assorto davanti ad un grande blocco di marmo già scolpito, un’opera già finita da una decina d’anni, per modificarla. Quella “Pietà” destinata alla sua propria sepoltura, pareva essere diventata la sua ossessione. Io l’avevo intravista, in poche circostanze in cui c’era stato bisogno di qualche riordino in sua presenza, senza mai avere il tempo di star lì a contemplarla.

Quel giorno, mentre aspettavo che il maestro alzasse la testa da certi suoi appunti mi trovai per molti istanti davanti a quella statua. Ne rimasi sconcertato e insieme affascinato. Si capiva che rispetto alla vecchia opera da lui stesso fatta, avesse apportato vistose modifiche al volto e al corpo della Vergine, come pure al torso di Cristo che aveva fatto magrissimo, quasi filiforme. Pareva che la missione di quel suo lavoro fosse quella di ridurre tutto all’essenziale. Più tardi intuii che il ridurre tutto all’essenziale fosse, al tramonto della sua vita, anche lo scopo delle sue riflessioni.

Michelagnolo mi sorprese in quella mia postura contemplativa ma non disse una parola, fino a che fui io ad accorgermi dei suoi occhi piantati sopra la mia persona. Dette un’occhiata curiosa anche al gatto che mi aveva seguito e che si era messo anche lui, con un fare di sufficienza, davanti alla scultura. Non commentò, mi chiese solo cosa ne pensassi della estrema ruvidità del basamento, quel blocco di marmo squadrato sopra a cui partiva la figura del Cristo, e se me la sentivo di metterci le mani e lo scalpello rendendolo più liscio, meno “bugnato”. Il lavoro era facile e gli dissi di sì. Rispetto alle ambizioni che avevo avuto da giovane era una cosa da niente; eppure ne rimasi inorgoglito.

Lui era il genio assoluto, autore di capolavori davanti ai quali si inchinavano papi, re e imperatori, eppure la figura fragile e curva di quel vecchio severo che ebbi modo per molti giorni a seguire e di osservare, tutto poteva suggerire meno che fosse lo stesso uomo capace di fare frutti più divini che umani. Di ciò era accreditato tra il popolo non meno che tra i patrizi e i potenti dell’Urbe.

 

E come io ebbi agio di osservare lui, forse anche lui aveva osservato me. Un’altra volta, in una opaca mattina di fine novembre, mi chiamò ancora in quello studio non per assisterlo in qualche cosa, ma semplicemente per parlare. Quando in seguito ebbi modo di ripensarci, l’avermi probabilmente giudicato persona degna con cui si potesse discorrere, fu cosa che mi fece molto piacere. Anche lui era solo, mostrandosi al mondo con caparbia soddisfazione di voler esserlo, ma quel mattino, forse, una delle rare volte, mostrò la sua vulnerabilità.

Meravigliandomi, mi chiese prima di tutto che cosa ne pensassi della sua opera incompleta. Gli risposi senza esitazione che mi aveva commosso. La risposta gli piacque, non ero entrato in considerazioni ulteriori che non avrebbe apprezzato; apprezzò invece il sentimento che avevo espresso e che sentì sincero. L’esperienza di tanti anni mi avrebbe anche consentito di dire altre cose, ma non lo feci subito. Gli avrei potuto dire, in modo particolare, che mi aveva emozionato il fatto che l’opera apparisse, forse volutamente, non finita, poiché i due corpi, quello del Cristo, il quale più che morto pareva ancora agonizzante e quello della vergine, parevano come fusi in un tutt'uno, in modo sublime. Non lo dissi subito a causa di quel dubbio che lui stesso avrebbe sciolto più tardi.

Dopo qualche attimo di silenzio, mi chiese infatti se l’opera mi sembrasse troppo rustica, quasi informe, al che risposi che non toccava a me giudicare ma a lui. Poi presi coraggio: – Ma fusse per me, maestro, l’artefatto sarebbe finito così come lo vedo. Ci veggo senso di umanità, la quale è cosa imperfetta per natura sua e che non va a braccetto con le troppe perfezioni. Ciò detto è ciò che sento. –

Michelagnolo annuì pensieroso; forse era ancora combattuto tra il considerare l’opera imperfetta e incompleta o terminata in quel modo. Poi chiese anche qualche notizia di me facendomi capire che ne sapeva già qualche cosa, ma non gli detti importanza ritendo quella curiosità come puro atto di cortesia, pur raro per il suo noto carattere.

Ero sicuro che in quei giorni il maestro pensasse alla vita e alla morte, alla propria morte e che quasi aspettasse quella sua decisione da artista per prepararsi e accogliere l’ineluttabile. In seguito, mi chiamò altre volte. Pochi mesi dopo, in un giorno freddo di febbraio il grande artista morì. Il suo servitore di camera lo trovò senza vita nel suo letto e immediatamente chiamò anche me. La vista di quel povero corpo senza vita, subito deteriorato da sembrare morto da una settimana o più, mi suggerì in modo acuto il senso della caducità umana.

L’eco della sua morte fu grande ed arrivò fino a Firenze, dove il sublime artista mancava da trent’anni.

Il nipote Leonardo, come tutti poi seppero, una notte di luna vuota provvide in gran segreto a trafugarne la salma dalla basilica dei SS. Apostoli. In modo avventuroso la fece passare ad uso di mercanzia dentro una balla, e la portò nella sua patria dove fu tumulata con grandi omaggi nella basilica di Santa Croce.

 

Passato il clamore di quell’avvenimento furbesco che scandalizzò anche il papa io, Tommaso Cirri, mi ritrovai solo, in compagnia soltanto del gatto, nella casa di Michelagnolo. Tutto ciò che aveva riguardato il vecchio maestro, il suo studio, alcune piccole opere su tela e perfino quella monumentale “Pietà” a cui aveva tanto assiduamente lavorato andarono nel dimenticatoio. Nessuno se ne interessò e la casa rimase deserta. Se ne fossi uscito con l’idea di tornarvi ogni tanto, probabilmente non vi sarei mai più tornato. Fui allora incapace di staccarmi da quella casa e in particolar modo da quella scultura che pareva parlare tanto anche a me. Uscivo soltanto a sera per fare qualche compera di vivande ma senza farmi vedere da nessuno.

A volte mi immaginavo di discorrere ancora con il maestro, ovunque fosse; il suo viso mi appariva pallido ma segnato da un lieve sorriso che, da vivo, non gli avevo mai visto: – Tommaso, non sei l’inetto pittore o scultore di cui ti meni quasi vanto... – così mi ammonì una notte. –  ... per quanto poco manchi al finir dell’opera mia, tu dei far di necessità virtute... di ciò ne sarai fiero. –  Quella volta, seguitando nel discorso, mi invitava a dare alcuni colpi di scalpello finali alla sua “Pietà”.

Ne parlai a Tobia come ogni tanto facevo; nel fare quella burla esercitavo la necessaria ironia per sopravvivere senza dar di matto non potendo chieder consiglio o parlare con nessun altro. Lui, il gatto, non parve sconsigliarmi, ma esitai ugualmente a lungo, parendomi cosa sacrilega metter le mani sull’opera del grande maestro.

Fino a che, un giorno, proprio il gatto nel suo peregrinare nella vasta casa si infilò in uno stretto pertugio che conduceva in una sala a me sconosciuta e illuminata appena da una finestrina posta in alto. Forse era chiusa da chissà quanto tempo. Lo seguii e, nell’aprire quella porta fui investito da un pesante odore di chiuso e di lezzo. Vi trovai, insieme a mobili vecchi, sparse e appoggiate ai muri varie tele abbandonate, dipinti interrotti, abbozzi in terracotta e, incredibilmente, alcuni schizzi preparatori che riconobbi subito. Erano miei, li avevo fatti io tanti anni prima. Ero sommamente meravigliato. Appartenevano ad uno dei miei periodi migliori, quando ancora speravo di essere apprezzato come artista, quando ancora credevo nel mio talento. Mi chiesi come avessero fatto a capitare in quella casa.

Ricordai che mi aveva assunto volentieri e senza esitazione, per cui credetti di rinfilarne la trama. Forse i miei schizzi, firmati in calce, erano capitati, dopo essere passati da chissà quante mani, in qualche rivendita proprio qui, nella città eterna. Forse Michelagnolo passando da una di quelle strette vie al di là del Tevere e abitate da tante bottegucce, li aveva notati e giudicati come apprezzabili e poi acquistati, sicuramente per poco. Sapendo poi da qualche amicizia comune della mia disponibilità a fare quel servizio che a lui serviva, mi aveva fatto venire da Firenze.

Io ero solo e non cercavo altro; uscire da quell’ambiente fiorentino che mi pareva ormai pesante e che per troppi anni aveva frustrato le mie ambizioni. Non ne ero e tuttora non ne sono sicuro, ma credo che in questa storia vi sia entrato in qualche modo il Giorgio Vasari, un buon artista e letterato che avevo conosciuto, una persona dalle mille conoscenze e dalle utili entrature.

 

Quel ritrovamento costituì per me viatico potente per la mia autostima come artista e al mio amor proprio. Non potevo dire fossero opere d’arte da additare ai posteri, ma potevo dire che avessero catturato l’attenzione di un così grande maestro. –  Forse lui ne intuiva un potenziale inespresso. – pensai a voce alta esaltandomi, catturando anche l’attenzione di Tobia che, acciambellato ai miei piedi mi guardava perplesso. – Forse, pian piano mi avrebbe fatto credere di nuovo in me stesso... mi avrebbe dato nuove opportunitate... sì, forse questo stava facendo il maestro. – 

Ripresi a dipingere; trovai delle tele e i preziosi colori ad olio che Michelagnolo, pur con tutto il suo carisma, non aveva avuto il potere di portare con sé nell’oltretomba. Mi sentivo ispirato e mi stava convincendo di ciò che stavo facendo. In tre settimane ne completai quattro, tre di tema biblico ed una raffigurante Salvestra per la quale esercitai volentieri memoria di mente e di cuore. Provai anche a modellare alcune forme con l’argilla propedeutiche a sculture, ritrovando agilità di mano e sicurezza e ne ebbi soddisfazione. Facevo comunque di tutto pur di dimenticare ciò che il maestro, in sogno, mi aveva chiesto di fare. La mia accresciuta sicurezza non mi pareva ancora sufficiente per affrontare quel compito, dubitando che mai lo sarebbe stata.

 

Ma un giorno successe quello che, da gran tempo, temevo succedesse. Sentii dei rumori, delle voci maschili tonanti che si avvicinavano verso lo studio. Feci in tempo a nascondermi dietro un finto muro scorrevole. Erano i procuratori del cardinale Colonna, proprietario della casa che Michelagnolo aveva preso in pigione. Dalla discussione capii che in capo ad una settimana avrei dovuto andarmene per non farmi sorprendere dal nuovo affittuario.

Nell’immenso studio troneggiava quella “Pietà” che attirò la loro attenzione: – ... e di questa che ne facciamo? Non è neppure finita. – Il maestro negli ultimi anni era come bollito. – disse uno di loro accompagnandosi ad una fragorosa risata. – Non è affar nostro... – disse l’altro. – ... deciderà il cardinale.

Quella notte non riuscii a dormire; non mi agitava tanto il dolore che mi dava l’idea di dover andarmene da quel posto a cui ormai ero affezionato, quanto il pensiero per il destino di quell’opera. – Cosa ne faranno quegli oscuri figuri? Riuscirà a capirne il gran valore quel cardinale? – sussurravo insonne.

E poi: – Doverò infine far quel che chiese il maestro in sogno... e ne sarò capace?  – Mi alzai prima dell’alba e, davanti all’opera marmorea stetti in raccoglimento, cercando di attingere dal profondo di me stesso quel poco o tanto di talento che possedevo. Pregai quel Cristo lì raffigurato che Michelagnolo aveva fatto divinamente sortire, come liberato, dal macigno apuano affinché guidasse la mia mano.

Sapevo quel che dovevo fare; pochi tocchi di scalpello a sottolineare i contorni della veste. Non fu un compito da poco; ad ogni colpo ne sentivo la pesantezza, come avessi dovuto scavare, ogni volta, qualcosa posto dentro di me.

A sera, prima del tramonto, quel che avevo fatto, avevo fatto. Non mi sfiorò neppure lontanamente il pensiero di intervenire sulle due forme che erano insieme umane e divine. Ero sereno e la notte non fui disturbato da nessun tipo di fantasma, né da alcun rimpianto.

Al mattino seguente, ancora prima dell’alba lasciai con la morte nel cuore quella casa. Con me, contenute in due vaste bisacce da pellegrino, portai le tele dipinte di recente e alcuni di quegli schizzi che tornavano per mio inoppugnabile volere ad appartenermi. Tobia, da buon gatto non mi seguì. Gli raccomandai di badare bene alla casa e lui, dopo avermi fatto le ultime fusa, miagolando se ne tornò indietro.

 

Cominciai una nuova vita, ma non tornai più a Fiorenza di cui ricordavo le angustie patite e le miserie umane di quella vita cittadina. In “trastevere”, a due passi dalla chiesa di Santa Maria dell’Orto, misi in piedi la mia bottega e assunsi anche un apprendista. Avendone il tempo andavo a contemplare a naso all’insù la immensa cappella di papa Sisto, affrescata mirabilmente dal genio del mio maestro, all’interno della quale me ne stavo trasecolato e muto.

Oppure ad ammirare la prima delle sue “Pietà” quella fatta in età giovanile e posta in santa Maria della Febbre. Vi permanevo immobile anche per un’ora intera tanto era bella, con il corpo ancor florido di Cristo sulle ginocchia della vergine adolescente; e pur così diversa, come mi veniva da dire con millantato orgoglio, dalla “mia” Pietà, da sembrar fatta da altro artefice.

Altrettanto divinamente artefatto, in San Pietro in Vincoli, visitavo il possente Mosè di cinque braccia di marmo, i cui capelli insieme alla barba, cose difficilissime da scolpire, erano all’apparenza così morbidi e sfilati da parere che lo scalpello fosse diventato pennello.

La mia Pietà, che comunque rimaneva a parer mio incomparabile per spirituale drammaticità e insieme per la dolcezza dei sentimenti che ispirava, e per la quale anch’io avevo contribuito con alcuni sofferti tocchi, fu racchiusa in un enorme salone del palazzo di quel cardinale, e non la rividi mai più.

 

Un giorno ero in bottega intento a mostrare una statuetta romana di Bacco, una buona contraffazione invecchiata che io stesso avevo scolpito con membra ben fatte avendogli dato la sveltezza della gioventù maschile e la carnosità e la tondezza femminile. C’era uno speziale che da giorni, incerto per il prezzo, la stava corteggiando: – ... vi potevo anche mentire messere... ma non è nelle mie corde far ciò... – gli stavo dicendo. In quel momento passò una dama davanti alla bottega; sollevai distrattamente lo sguardo su quel viso ma, preso dal discorso, lo diressi di nuovo verso l’incerto speziale. Poi, continuando a fissare quell’uomo, mi interruppi. –  Quella dama è Salvestra... – pensai per un istante.  – ... come sia possibile? –

Feci qualche passo fuori dalla porta con la statuetta ancora in mano. Adesso ero sicuro; benché si fosse già allontanata di poche braccia ne ero sicuro. Quante volte in quegli anni l’avevo ancora immaginata, mentre mi parlava, mentre camminava con il suo passo leggero ma particolare nell’andatura. Era lei.

Tornai dallo speziale che era rimasto lì stupito in attesa, dentro la bottega. Gli misi la statua in mano: – Prendetela, è vostra, mi fido di voi, fate voi il prezzo; tornate domani ve ne prego... accomodatevi. – Accompagnai fuori l’ancora attonito speziale e chiusi a chiave la porta. Prendendola larga e correndo con quanto più fiato avessi per una viuzza parallela feci in modo di arrivare davanti alla chiesa di San Francesco a Ripa, dove presto speravo di vederla arrivare.

Naturalmente il tempo era trascorso anche per lei, ma era ancora bella. Vestita di magnifici velluti intarsiati di pesanti e ricche sete era accompagnata da due dame di compagnia parendo Eleonora di Toledo, l’elegante moglie di Cosimo I della quale avevo visto più di un ritratto, probabilmente vili copie fatte a Fiorenza. Nascosto dietro un angolo della piazza non mi feci vedere, mentre mille cose turbinavano dentro il mio vecchio cuore. Sapevo che la nobile coppia si fosse stabilita sul colle di Fiesole, e adesso ritrovavo qui dopo tanti anni Salvestra. Ero sorpreso e ammirato. Non sapevo che cosa fare; mi stavo chiedendo confusamente se e come mostrarmi quando, senza che mi fossi reso conto, il piccolo corteo venne dalla mia parte svoltando l’angolo.

I nostri occhi si incrociarono; dal lampo del suo sguardo fermatosi per pochi istanti su di me capii che mi aveva riconosciuto. Solo un breve pallore, ma non un muscolo del suo viso si mosse; monna Salvestra proseguì senza indugio con il suo passo leggero. Io avevo appena dischiuso le labbra, non so tuttora per dir cosa, ma non riuscii ad emettere alcun suono. Ero rimasto come impietrito.

Tornai a casa, una piccola casa al primo piano e non lontana, presa a pigione, con gli occhi sbarrati, parendo un morto in cammino. Era stato solo uno sguardo, ma uno sguardo da cui avevo compreso molto. Quella freddezza mi deluse profondamente.

Non pretendendo di riannodare nulla del passato l’avevo pensata per anni, avevo coltivato il ricordo della sua figura facendone pochi ritratti che non ho mai voluto vendere. L’avevo immaginata come sposa di quel mercante, forse felice, ma forse con qualche lontano rimpianto; ciò bastandomi per alimentare, in occasione di un rosso tramonto o durante una notte insonne, qualche intimo, umano sospiro.

 

Un po’ per volta, chino e in un angolo della mia bottega sto scrivendo adesso queste mie notazioni, non avendo nessuno a cui dedicarle, per me stesso. Sento di aver bisogno di questo esercizio di chiarezza che mi rende sereno. Mi sono anche illuso più volte, ma ho illuso me stesso, non ho ingannato nessuno. La mia vita non è stata perfetta e brillante, ma è stata vera.

Tobia che ho raccolto randagio per la strada giorni addietro, pur sonnecchiando o strusciando leggero ai miei piedi, par che anche lui ripensi alle cose della vita che scorre in un soffio, e di quanto la gloria umana sia effimera rispetto alla Verità.

Questa mattina ho assistito di nuovo alla Messa solenne all’interno della Cappella sistina. Ammetto di non essere buon cristiano ma desideravo più che altro ammirare ancora, sospesa nella grande volta come un miracolo di bellezza, la maestosa scena della cacciata dal Paradiso terrestre, artefatta anch’essa da quel genio del quale ho avuto la sorte di essere consigliere e servitore.

Penso che la bellezza consoli; la bellezza fa diventare migliori. Mi ha fatto pensare la mirabile scena pittorica dove nella figura dell’angelo appare la grandezza che gli deriva dall’esser mandato dal Signore, un Signore adirato con l’umanità. Dove, nella postura di Adamo che è progenitore di tutti noi, si legge il dispiacere per il proprio peccato e non di meno la paura della morte. Dove nel gesto di Eva colpisce la vergogna, la viltà e il desiderio di raccomandarsi; quel suo restringersi nelle braccia, quel giuntare delle mani, quel suo torcere la testa verso l’angelo, esprimendo paura per la giustizia più che speranza nella Misericordia divina. Quella Misericordia a cui, alla fine della vita io Tommaso Cirri da Poggio a Caiano, pur privo di alcun merito, vorrò affidarmi per l’eterna riconciliazione.

– fine –

P.S. La Pietà di cui si parla, a cui Michelangelo lavorò fino agli ultimi giorni, oggi è conosciuta come “Pietà Rondanini”

 

 

A GONFIENTI - 1371 –

A GONFIENTI – 1371 – Nello, Agnese, Martuccio, Rufina, Gemma, Chinue,

GONFIENTI

L’onesta e bella Agnese, a distanza di quattro anni, prendendo un’involontaria pausa rispetto al ritmo con cui avevano cominciato a popolare Gonfienti, era di nuovo incinta. Le cinque gravidanze ravvicinate, sei con quella in corso, non avevano scalfito la sua grazia e la sua serenità.

Nello come tanti altri considerava normale fare un figlio l’anno e se necessario anche di più. E se, ma questo valeva per tutti, alla fine restavano in casa pochi figli ciò era dovuto alla grande mortalità infantile, a tutte le malattie che giravano per le famiglie e che non avevano rimedio, quando non era proprio la stessa madre che veniva a mancare prematuramente per un parto complicato.

Ma Agnese non pensava a quelle cose infelici che tutti sapevano esistere e che facevano parte dell’ineluttabilità della vita, e non si lamentava.

Nello che era nato praticamente muto, quasi avesse avuto un nodo alla lingua che nessuno era riuscito a sciogliere, emetteva soltanto qualche suono incomprensibile, era padrone e fattore di una bella fattoria nella zona di Gonfienti. Grande e grosso ma ben fatto, dormiva poco, lavorava senza sosta, e molto spesso faceva l'amore con la sua sposa da cui era attirato in maniera esagerata, fecondandola ogni volta che quel corpo fosse pronto per essere fecondato.

Nel tempo che gli avanzava la sua passione preferita, a parte la passione per Agnese, era l’orto che accudiva personalmente. Nella primavera appena trascorsa e come aveva fatto gli anni prima, vi aveva piantato molte prode di poponi e cocomeri oltre che pomodori e cetrioli. A volte si piazzava a sedere a rimirarlo, quasi che la sua vista lo facesse crescere più rigoglioso, proprio vicino alla strada maestra e a fianco della casupola degli attrezzi. Vi portava spesso i due figliolini più grandicelli affinché gli scacciassero i passerotti e i corvi dall’orto. Loro ci andavano volentieri avendo agio in quel modo di fare scorpacciate di pomodori maturi e profumati e di quei poponi così dolci. Dalla strada passavano carretti e gente di ogni tipo che aveva voglia di assaggiare un popone o un cocomero, portando in cambio uova, polli e conigli. Nello se la passava bene.

Nella casa in legno attigua alla casa in pietra di Nello abitavano due donne nere, schiave ereditate da suo padre, il quale si era trasferito a Gonfienti da Firenze ancora in gioventù. Nella città gigliata c’erano famiglie agiate che possedevano degli schiavi, in massima parte donne, utilizzate per le servitù domestiche. A Prato, a differenza di Firenze, erano pochi coloro che ne possedevano, e poi la mentalità meno mercantile di una città più piccola non si prestava, anche per chi ne avesse avute le possibilità, a tale possesso.

La più anziana si chiamava Chinue; quello era il suo vero nome di origine e non voleva essere chiamata altrimenti. Era una abbondante donna nera con denti bianchi e sani ma di poca conversazione, non essendo riuscita ad imparare la lingua toscana se non per poche essenziali parole e, quando occorreva, si serviva della figlia che invece la parlava alla perfezione, compreso le acca aspirate. La figlia, una morettina, si chiamava Gemma; il nome le era stato dato dal padre di Nello. Lei e la madre venivano dal sud dell’Egitto, diventato ormai una facile riserva di caccia per i negrieri arabi. Strappate dal loro villaggio, bruciato insieme a quegli abitanti che erano ormai inservibili perché feriti o troppo anziani, erano state vendute al mercato di Alessandria da cui erano approdate a suo tempo a Firenze. Gemma, pur rimanendo schiava, era andata in sposa a Martuccio, un contadino di quella zona. Lui era un uomo taciturno e sottomesso al padrone a cui faceva da aiutante avendone tuttavia molta soggezione. Gemma aveva un bel carnato e una bella bocca rossa ed aveva partorito da qualche mese una bambina bellissima chiara di pelle della quale qualcuno dubitava a proposito della reale paternità.

Invece la nutrice monna Rufina e Nicolozzo suo marito addetto alle stalle abitavano nella grande e solida casa in pietra dal pianterreno molto basso, insieme alla famiglia del fattore, ma in un’ala a parte. Monna Rufina, magrolina e malinconica, a differenza di Chinue, pur avendone la stessa età aveva la bocca devastata dalle carie e non sorrideva mai.

Quell’estate fu fredda e umida come non si ricordava da lungo tempo e l’aria pesante e quasi irrespirabile. Il Bisenzio che scorreva proprio vicino alla chiesa era pieno d’acqua come d’inverno, e le zanzare e le mosche la facevano da padrone; la prima settimana di agosto poi fu insopportabile.

In quei giorni Chinue era pervasa da uno strano malessere, e non solo fisico; disse a Gemma che aveva fatti dei brutti sogni e che si sentiva infelice, ma non sapeva il perché. Diceva che ci fosse nell’aria qualcosa di strano.

Poi, un giorno si sentì dire che in due, tre famiglie di quel villaggio, in alcune persone giovani e due bambini, erano comparsi dei “gavaccioli”, cioè dei bubboni dolorosi alle ascelle, all’inguine e al collo. Era l’inizio di una nuova comparsa della peste, prima in sordina, poi in modo violento. Purtroppo, la gente conosceva bene quei segnali. Nelle persone colpite, ai bubboni seguirono macchie scure e livide sul corpo e poi, quasi sempre la morte.

La “peste nera” del 1348 non se n’era mai completamente andata. Dopo quella devastante ondata che a Prato e dintorni aveva dimezzato la popolazione, essa si era riaffacciata qua e là ad intervalli di otto, nove anni. Adesso la Peste pareva essere ritornata al posto che le competeva come è descritta nell’ultimo libro della Bibbia, aggiungendosi alla Fame, alla Guerra e alla Morte; le quattro sofferenze dell’umanità, alla maniera dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.

Il morbo si diffuse nuovamente e colpì allo stesso modo famiglie ricche e povere, abati e chierici, famiglie di mercanti e di contadini, liberi e schiavi ma soprattutto, questa volta, bambini. E come in passato, molti che attribuivano l'epidemia alla volontà di Dio considerandola un castigo per i propri peccati, cercavano conforto e giustificazione nella fede. Come era già successo aumentò il fanatismo religioso, crebbero la paura e l’egoismo. Il medico prescriveva salassi e clisteri ripetuti, fumigazioni con erbe aromatiche, bacche di alloro e di ginepro da tenere in bocca per protezione, acqua di rose e aceto per lavarsi viso e mani, e consigliava di dare aria alle stanze. Ma alla fine, accorgendosi di non avere altri rimedi efficaci, il suo scrupolo era quello di invitare l'ammalato a confessarsi.

Per contro, nella dissoluzione del normale vivere quotidiano per molti altri si allentavano i legami e i comportamenti civili. Matteo Villani, nella sua “Cronica”, scrive che “gli uomini si dierono alla più sconcia e disonesta vita che prima non aveano usata. Vacando senza meta, usavano dissolutamente il peccato della gola, con delizie e dilicate vivande, scorrendo senza freno alla lussuria.”

Anche Nello in qualche modo era diventato più lussurioso del suo solito. Non tanto per vincere la paura della morte a cui non pensava o per riempire il vuoto delle giornate oziose con dissolutezze come diceva il Villani, ma per un suo improrogabile bisogno fisico. Nel timore di attaccare la peste alla sua sposa e quindi ai bambini qualora gli fosse capitato di averla contratta in giro, con le buone e a gesti eloquenti si era dato a persuadere Gemma a giacere con lui, facendole capire con naturalezza che ne avesse proprio bisogno. D’altra parte, la donna, pur essendo da anni considerata quasi di famiglia era pur sempre schiava e anche questa volta non ci fu troppo bisogno di rammentarglielo. Martuccio fece finta di non accorgersene, come già era successo pochi anni prima in occasione di un lungo e fastidioso fuoco di Sant’Antonio occorso dalla dolce Agnese.

Lui desiderava Agnese, a modo suo l’amava, ma non si pose mai la questione se quel suo urgente sfogo, fatto si intende a fin di bene come Nello pensava con convinzione, fosse una cosa giusta da fare.

Nello era eccessivo in tutto, nell'amore fisico per la moglie quanto nella premura per i figlioletti; cosa non scontata all'epoca, quando i bambini piccoli, a causa della straordinaria moria infantile, non facevano in tempo per meritarsi un gran valore affettivo. Era peraltro eccessivo nell'adempimento del proprio lavoro per il quale non si stancava mai, e nella pretesa che anche i suoi contadini lavorassero senza posa proprio come lui.

Dopo tre mesi dall'iniziale scoppio dell'epidemia successe l'irreparabile. Agnese, in cinta di sei mesi circa, chiuse gli occhi per ultima dopo aver assistito con grande pena alla fine di quasi tutti i suoi figlioli. La terrificante malattia si portò via Ferruccio e Bartolomea e non ebbe pietà neppure per Ginetta e la dolce Isadora. Gemma lottò a lungo con tutte le sue forze, ma dopo quattro, cinque giorni si arrese anche lei alla morte insieme alla sua bambina così tanto somigliante al fattore.

Martuccio, monna Rufina e Nicolozzo suo marito, compresa non si sa come l'ormai inutile Chinue, non furono minimamente toccati; forse proprio perché avevano già respirato, vent’anni prima, l’ammorbante aria della “peste nera”. E, incredibilmente, anche il primogenito, il piccolo Vieri, chissà per quale misteriosa ragione, a differenza di tutti gli altri bambini, ne era stato risparmiato.

Nello dopo un primo momento di sconcerto, era convinto che alla sua famiglia tutto questo non potesse succedere per tutte le precauzioni che aveva preso, si accorse di essere rimasto solo. Ma la cosa che soprattutto scoprì, inizialmente con meraviglia, era il fatto che lui non stesse provando nessun dolore. Vedeva i contadini piangere non solo per la loro ma anche per la sua disgrazia particolarmente vistosa, mentre dagli occhi di lui non sortiva neppure una lacrima. Non era stupito solo per quella mancanza di lacrime; era piuttosto incredulo di non essere addolorato come avrebbe dovuto.

L’uomo fece tutto quello che doveva fare con scrupolo; vegliò a lungo Agnese e i bambini e provvide alla tumulazione di quei corpi dietro alla chiesetta di San Martino. Fece quelle cose con zelo come era abituato a fare in ogni adempimento, perché erano tutte cose giuste da fare, ma si rese conto di non provare emozione, almeno non più di tanto. Inoltre provava anche una sorta di disappunto aspettandosi da un momento all'altro che qualcuno gli dicesse essersi trattato di un malinteso o qualcosa di simile; o che qualcun’altro lo avvertisse che Domine Iddio si fosse proprio sbagliato.

Ma non perché lui non fosse capace di sopportare il peso di quelle disgrazie. Nostro Signore doveva essersi sbagliato perché lui aveva preso tutte le precauzioni; ne era convinto e con ciò non pensava affatto di bestemmiare, sia pure in silenzio.

In tutti i casi continuava a non sentire dolore e quel fatto lo inquietava; così si stese sul letto, immobile, guardando il soffitto con occhi sbarrati e lì si mise in ascolto di se stesso aspettando di sentire una parvenza di dolore. Non si mosse per due, tre giorni, senza mangiare o bere e sempre ad occhi asciutti.

Nondimeno non riuscì a dormire se non per brevi sonni, scervellandosi e non riuscendo a capire perché lui, a parte il nodo della sua lingua, non fosse come tutti gli altri.

Non se n’era mai reso conto, forse perché fino ad allora non gli era mai capitata nessuna disgrazia che fosse paragonabile a quanto gli era successo; escludendo certi raccolti sciupati per grandine o vento o una eccezionale moria di vacche o di pecore; cose per le quali ragionevolmente, a suo tempo, non si era aspettato di provare del dolore ma soltanto rabbia e disappunto, tanto o poco.

Non era mai stato malato, né mai stato ferito e dei suoi genitori, morti quando era piccolissimo non ricordava niente. L'aveva allevato monna Rufina con il cospicuo lascito del suo babbo e gli era sempre andato tutto abbastanza bene. La donna però, a parte la tenerezza dei primi anni infantili, via via che cresceva provò per lui, a causa forse dei suoi occhi severi o causa del suo imbarazzante difetto, una soggezione che la tenne lontana e che le aveva impedito di essere per lui come una mamma.

Infine, Nello si scosse da quei ricordi, si alzò finalmente da letto, chiamò Martuccio a cui dette alcuni ordini; poi affidò stabilmente il figlioletto sopravvissuto alla nutrice, a monna Rufina, la quale non riuscì né a dire né a strappare da lui neppure un cenno con gli occhi che significasse qualcosa, tanto era naturale che così andasse fatto.

Sparì allontanandosi senza aver deciso dove andare; dove i piedi lo avrebbero portato lui sarebbe andato. Voleva capire ciò che gli stava succedendo.

Si inerpicò su per la “Calvana”, quella montagna vicino a Gonfienti dove non c’era niente. Dopo aver superato i ripidi fianchi del monte un po’ ombreggiati da cipressi e quercioli di cerro e cosparsi di qualche macchia verde, si ritrovò sull'arida sommità. Anche lì, rarissimi cipressi, qualche basso arbusto, sassi e grossi massi appuntiti. Il paesaggio era piatto e arido, conforme al suo stato d’animo. La percorse senza una meta, sentendo di avere assolutamente bisogno di morire di fatica ma senza riuscire a stancarsi. Dopo molte ore, si buttò per terra in un posto a caso. E su quel prato di erba secca, disseminato di pietre aguzze e bianche questa volta si addormentò, ma senza fare alcun sogno.

Si svegliò dopo molte ore ma non si rese conto dove si trovasse. Era quasi l’alba, si guardò attorno, pareva non esserci nessuno. Invece non era solo, dietro a lui c'era un uomo piccolo di statura dall'età indefinibile che lo osservava; appoggiato ad un lungo “bordone” nodoso era accompagnato da un cane maremmano. Nello sentì il respiro ansante del cane e si girò. Con mimica eloquente del volto e delle mani gli chiese perché mai lo guardasse.

– Io?... io non ti guardo, aspetto che tu te ne vada... devo far brucare il prato alle mie capre – Nello sentì un belato tremolante, poi due, poi tre. – Il prato è del barone Carnesecchi. – Allora Nello si alzò per andarsene; quel tipo l'aveva distratto con le sue capre ma d’un tratto si ricordò perché era lì; rammentò ancora una volta di essere una persona strana, una persona senza dolore.

Era un’alba plumbea di fine novembre; il cielo si stava gonfiando di nuvole grosse e scure; l’aria, nonostante il freddo della mattina sembrava irrespirabile. Aveva già fatto qualche passo quando udì l'ometto rivolgergli la parola: – Non ti preoccupare di quel senti o non senti, la vita è fatta in questo modo. –

Nello lo guardò con aria interrogativa come a chiedergli chi gli avesse detto di ciò che sentiva lui. – Io?... lo so. – Il fattore scosse il capo e prese ad allontanarsi. Pensò che l'ometto fosse una persona fuori di testa trattandosi di uno che stava sempre con le capre.

Se vuoi ti racconto una storia, ti potrebbe servire. – insisté la strana creatura. Con l’espressione degli occhi il fattore gli fece capire di non sapere di cosa parlasse. – Ascolta, parla di uno come te; si chiamava Meuccio. Anche a lui mancò la moglie per una disgrazia, ma non le voleva il vero bene e non provò dolore, come te. –

Nello si fermò e si voltò indietro.  – In realtà non era morta, cioè era morta ma per un disguido non poteva ancora raggiungere l'oltretomba. Il messaggero non aveva portato a Caronte il necessario “rotulus” che attestava il dolore e non lui la poteva accogliere sulla barca per oltrepassare il fiume Stige. –  Il fattore sgranò gli occhi e inarcò le sopracciglia.

– Quando Meuccio lo seppe in sogno dalla sua sposa si rattristò, ma anche volendo non poteva farci nulla: provò e riprovò a sforzarsi ma non riusciva a sentirsi addolorato. Tutte le notti Matheldina, così si chiamava, gli compariva in sogno chiedendogli conto del dolore mancato.

Nello lo ascoltava a bocca aperta; era una storia folle, ma si stava chiedendo come facesse lui a sapere della sua, di disgrazie. Il piccolo e anziano pastore proseguì dicendo che Meuccio non ne poteva più; tutte le notti, tra sogno e realtà, ascoltava la solita lamentela e non riusciva più a dormire. Era disperato non per la morte di Matheldina ma per quell'assillo. Meuccio alla fine, non potendo più dormire, diventò pazzo e finì a mendicare agli angoli delle strade.

Ma ora io devo andare, le capre mi aspettano. – concluse allora il piccolo pastore con una strana risatina finale.  – Boh! – pensò Nello che da ultimo l’aveva ascoltato dandogli di spalle; dirsi perplesso era dir poco. Si voltò; lo strano pastore, le capre, il cane maremmano, tutto era scomparso. Davanti, dietro, di fianco. – Eh!... figlio d’una... oh questa? – Inveì tra sé, ma intorno non c’era proprio più nessuno.

Intanto il cielo si era fatto ancora più scuro. Venne giù un primo scroscio che, dopo un momento di esitazione, divenne un fiume. Si alzò e si mise a camminare, alla cieca. Vide una grotta e vi entrò. Si mise a sedere su di un masso dentro la grotta guardando nel vuoto e ripensando a Meuccio e a Mathildina – Che cosa avrà voluto dire... forse che il dolore sia anco cosa da meritare –

Smise di diluviare dopo più di un’ora. Riprese a camminare; con la terra fangosa e i sassi resi scivolosi dalla pioggia andava lentamente. La montagna ad un certo punto prese a salire ripida e venne fuori il sole, un sole a picco, caldo e opaco. Doveva essere circa l’ora sesta, così si fermò sull’orlo di un dirupo scosceso sul versante a nord-est. Distrattamente scivolò e rotolò a lungo per il dirupo, fino a che una grossa e alta siepe di rovi lo trattenne tra le sue ruvide braccia. Anzi, vi penetrò fin dentro, rimanendone avviluppato e graffiato. Alcune spine gli erano penetrate dappertutto sulle cosce e sulle mani. Finalmente sentì una sorta di dolore fisico e sentì la fame.

Mentre aspettava nuovamente l'alba ripensò alla sua infanzia e alla sua giovinezza e si vide, forse per la prima volta come stesse osservandosi dall'alto, ma non in quel momento e in quella stretta di pruni bensì, tornando a ritroso nel tempo, osservando se stesso com'era in quegli anni più o meno lontani.

Vide un ragazzo incapace di parlare se non a gesti, che spesso si sentiva solo e vuoto, distaccato dalla realtà e da tutti. Si vide quando faceva a botte con gli altri giovani del villaggio i quali lo temevano perché non riuscivamo mai fargli del male mentre lui, non tanto con cattiveria quanto per abitudine eccedeva nel picchiarli. Era già insensibile ai cazzotti e al dolore.

Poi vide un giovane uomo che stringeva i denti per non sentire il disagio della sua menomazione e che lottava per farsi strada. Emerse con la sua piccola fattoria perché non sentiva la fatica e lavorava senza stancarsi mai. Sorrideva poco e quel poco lo riservò ad Agnese che prese ad amare subito in modo esagerato. Era un amore fisico, forsennato, un rapporto che dal suo punto di vista non aveva bisogno di parole per esprimersi. Lei gli voleva bene ma spesso ne usciva stravolta; avrebbe fatto anche a meno di tanto ardore, ma per lui era quello il modo per voler bene; non conosceva altra forma e non poteva farne a meno.

Stretto dai rovi, mentre cominciava appena ad albeggiare, finalmente intuì. Non aveva mai provato il dolore perché non aveva mai voluto il bene di chi gli stava davanti, perché quando si prova il dolore, non si può più volere male a nessuno; come l’altra faccia della stessa medaglia.

Mai aveva rinnegato se stesso, si era accettato per quello che era e per realizzarsi aveva usato il linguaggio della sensualità o quello della prevaricazione. Fin da giovanissimo aveva rivestito con sottili strati di durezza il suo cuore che adesso non sentiva più nulla per nessuno, non molto neppure per i figli. Anche loro gli erano appartenuti, anche se in un modo diverso; la loro mancanza lo sconcertava, ne sentiva la sconfitta, l'impotenza di averla impedita, non tanto il dolore, neppure per loro. Eppure, se ne era preso cura con diligenza.

E la prima volta che aveva rinunciato a qualcosa nel timore di comunicare la peste alla sposa e quindi alla sua famiglia intesa quasi come sua proprietà, l'aveva tradita con la sua schiava tanto era incallito e naturale il suo egoismo.

Alla luce dell’alba si liberò da quei rovi; risalì il dirupo e si incamminò, facendo a ritroso il percorso dell’andata fino al punto da dove si vedeva, come da un’altissima torre, la città. Poi riuscì facilmente ad orizzontarsi e arrivò a Gonfienti. Erano tutti allarmati e preoccupati e, quando lo videro si preoccuparono anche di più; infatti il fattore che normalmente, pur severo con tutti, pareva il ritratto della salute aveva il volto bianco come un morto. Fece intendere con l’espressione del viso di lasciarlo in pace; si rifocillò, mangiò qualcosa e dormì di nuovo. Nel pomeriggio parlò a modo suo con Martuccio al quale spiegò di occuparsi lui di tutto perché l’indomani sarebbe partito di nuovo. Doveva ritrovare quel pastore.

Ma invece non partì. Nella notte aveva dormito profondamente e si era rappacificato in parte con se stesso e con il mondo. Gli venne in mente il suo orto che adesso era invaso da erbacce secche.

Quel giorno lo vangò, lo pulì perbene e, nei giorni a seguire vi seminò fave, piselli, ravanelli, spinaci e valeriana. Voleva dimenticarsi di tutto e di tutti e ogni giorno, quando non aveva da fare nei campi e nella stalla ritornava per vedere la seminagione.

Ogni tanto gli pareva di sentire delle vocine di bambini. – Sciò, sciò... via, via... – come quando in primavera facevano alzare i passerotti in volo. Gli veniva uno struggimento, ma il dolore non lo sentiva.

Una notte, inquieto si alzò e, al chiarore della luna che traluceva attraverso una nuvola uscì da quella casa vuota e andò a vedere l’orto. Aguzzò gli occhi; dietro l’orto che confinava con il bosco si avviava un viottolo su cui stranamente si stava riversando qualche raggio più lucente. 

Ad un tratto, accanto al viottolo, su un rialzamento del terreno si accese una fiammella. – Ma guarda... – pensò. Si mise le mani sui fianchi e se ne stette a guardare. La fiammella si spense, ma un poco più lontano se ne accese un’altra.

– Qui c’è qualcosa di strano. – e fece per avvicinarsi. In quel momento sentì una risatina e si ricordò di aver già sentita quella risatina. La seconda fiammella si spense e poi più nulla.

La notte seguente, insonne, uscì di nuovo nell’orto. La luna era coperta da nuvole spesse ed era completamente buio. Questa volta percorse il viottolo nel bosco a tentoni pensando di rivedere quelle fiammelle. In una radura trovò invece un montone dagli occhi cosi fiammeggianti da far luce tutto intorno da sembrare esserci la luna piena. Al ritorno sentì di nuovo quella risatina.

Così il giorno seguente si incamminò di nuovo per salire su per la “Calvana”. Ma prima di partire si fece un piffero con un pezzo di legno stagionato e, durante il cammino prese a suonarlo. Natale era già passato e gli erano riaffiorate alcune nenie tipiche di quella ricorrenza. Non sapeva emettere le parole ma sapeva suonare bene il piffero il cui suono piaceva tanto ai suoi bambini.

Il babbo suona il piffero... il babbo suona il piffero... – cantavano girandogli intorno. Se ne ricordò e sospirò, ma non provò dolore al pensiero che non ci fossero più; è vero, c’era Vieri, ma non l’aveva voluto rivedere. E lui in chiesa non c’era ritornato; aveva un conto in sospeso con Domine Iddio, il quale non si era ancora degnato di farsi vivo con lui. Arrivò nel solito prato ormai di erba bruciata dal gelo e pieno di sassi bianchi aguzzi.

– Ti aspettavo Nello. – sentì dire. L’uomo si girò da tutte le parti ma non vide nessuno. – Hai pensato a quello che ti ho detto? – Non c’era nessun pastore ma fece un salto dalla paura accorgendosi che quella voce proveniva da un uccello appollaiato su di un ramo di cipresso.

– Non ti preoccupare, sono sempre io... – continuò la voce che veniva sempre da quel becco giallo. – Tu hai un macigno, Nello, nel cuore, non lo senti?... devi liberartene. – Il fattore rimase davvero come di sasso; non sapeva che cosa pensare ma dopo un istante l’uccello volò via.

L’uomo allora vagò per ore fino a raggiungere una estesa prateria e poi una sommità aguzza. Sopra alla sua testa si rincorrevano spesse nuvole bianche portate via dal vento e che scavalcavano i monti, nuvole che generavano rimpianti. Rimpianse di non aver voluto bene come ora cominciava a capire quale fosse il vero bene, nondimeno sentì finalmente dentro di sé la speranza di un cuore libero come non lo era mai stato.

Si levò allora un vento di tramontana forte e gelido che gli sferzava la faccia. L’uomo allargò le braccia al vento e cominciò ad urlare rivolto verso il cielo. Un urlo che diventò parola, una sola e ripetuta: – Dio... Dio ! –

Era già buio quando arrivò alla sua fattoria, stanco e infreddolito. Nessuno lo aspettava, quella sera nessuno si era dato pena per lui, ma sentiva dentro di sé qualcosa di diverso. Bussò alla porta di monna Rufina che non si immaginava quella visita e non si aspettava neppure la lacrima che vide scendere dagli occhi del padrone mentre abbracciava il suo figlioletto. Quella notte non dormì; il pianto glielo impediva e finalmente, quella notte, seppe che cosa fosse e quanto fosse necessario il dolore.

Da quel giorno ogni settimana Nello ripeté quel pellegrinaggio in cima alla Retaia da dove affidava quella Parola al cielo, l’unica che sapesse pronunciare.

– fine –

IL MATERASSAIO AMEDEO

1966 – IL MATERASSAIO AMEDEO

7

Amedeo era un quarantenne tanto robusto di costituzione quanto tirchio, ed era rimasto vedovo per la seconda volta e senza figli. Ce l’aveva messa tutta per averne almeno uno, magari maschio a cui lasciare un giorno la sua fortunata attività di materassaio. Invece le mogli, una dopo l’altra era morte prematuramente, l’una, più delicata, di polmonite acuta a causa del freddo intenso di quell’inverno, l’altra, a distanza di dieci anni, sfinita di crampi e diarrea per una grave intossicazione alimentare. Ma di prole neanche a parlarne. Eppure, la Tosca, la seconda moglie, robusta e di largo bacino pareva fatta apposta per mettere al mondo figlioli.

Di lavoro ne aveva tanto e venivano anche da Bibbiena e da Poppi per avere un buon materasso nuovo fatto da lui. Non riuscendo ad accontentare tutti, dopo la morte della seconda moglie, si decise a prendere come aiutanti, prima una ragazza orfana che gli era stata raccomandata dal priore di Romena e poi un garzone di pochi anni più anziano.

La sua casa era una porzione di colonica situata nella campagna intorno a Pratovecchio, soltanto in parte abitata da contadini, dopo che molti di loro avevano preferito il lavoro di fabbrica al lanificio di Stia, famoso per il suo tessuto a riccioli detto “Casentino”

Quel giorno, una domenica di fine maggio, la giornata, per quella stagione, era abbastanza afosa, Ada stava ravversando in cucina. Lei abitava lì, era sola al mondo e non aveva altri posti dove andare. D’altra parte, Amedeo era stato chiaro; oltre alla misera paga che le dava, avrebbe potuto mangiare con lui e alloggiare nel sottotetto, ma in cambio, avrebbe anche dovuto accudire alla casa.

Gabriele, un giovane sarcigno dai capelli rossi ricciuti, era di Sansepolcro. Era una persona di quelle che si usano definire un po’ selvatiche, e spesso preferiva dormire nel vecchio fienile che il padrone teneva per garage, piuttosto che fare il viaggio di andata e ritorno al suo paese.

La casa colonica aveva l’acqua corrente ma non disponeva ancora dello scaldabagno a gas, per cui nella vasta cucina con il tetto a travi affumicate, il fuoco del camino sotto alla pentola, posto al centro della stanza, era quasi sempre acceso. Anche quel giorno, mentre dalla finestra i raggi del sole irrompevano sulla tavola ancora non completamente sparecchiata, Ada vi attingeva l’acqua calda e rigovernava le stoviglie. In casa si respirava l’odore dell’aja e gli afrori delle galline; il pollaio poco distante, insieme ad altri animali da cortile, Amedeo l’aveva voluto mantenere, per avere tutte le mattine uova fresche e coniglio a buon mercato.

Di televisione, in casa, neppure a parlarne; il padrone preferiva ascoltare una vecchia radio e la sua trasmissione preferita era “Il grillo canterino” e, al posto del frigorifero che ormai, nel 1966, si era diffuso in tutte le famiglie del Casentino, anche le più remote, lui preferiva ancora la ghiacciaia posta in cantina. Non era valso a dissuaderlo neppure il sospetto che la sua seconda moglie fosse morta di dissenteria per una certa ricotta andata a male, pervicacemente tenuta in ghiacciaia. Non era tirchio per natura; ogni tanto, infatti, sentiva il bisogno di andare fuori strada, quella rigida educazione alla gretta avarizia che il suo babbo gli aveva inculcato; ma poi interveniva un forte senso di colpa e ritornava in carreggiata.

Dopo aver finito di pulire e di spazzare, la ragazza si accasciò come stordita su una sedia. Poi si alzò e andò sulla soglia a prendere una boccata d’aria. Accolta dalla vampata di luce meridiana, si sentì ancora di più appesantita. Poco distante dall’uscio, il più grande dei pavoni stava dispiegando la sua ruota. La magnificenza delle sue piume e dei suoi colori riflessi nella luce del sole attirò per un po’ la sua attenzione, ma poi la ragazza si diresse verso un boschetto di meli e melograni in fiore.

Il padrone si era recato di buon mattino a Montemignaio a fare la manutenzione dei materassi in una fattoria. A lui non piaceva quel servizio faticoso e polveroso del “manutentore”, preferiva fare quelli nuovi, ma a volte non poteva sottrarsi. Aveva cercato di insegnare quel lavoro a Gabriele ma il ragazzo era indolente. Non si fidava ancora e, con certe famiglie benestanti, non voleva fare brutta figura.

Ada si era buttata supina sull’erba alta di una piccola radura, a braccia aperte. Fiori gialli e papaveri splendevano come festoni in mezzo al verde intenso, il verde nuovo della primavera.

Si sentiva bene; lentamente chiuse gli occhi, assopita. Era sul punto di addormentarsi quando sentì che due mani si erano posati sui suoi seni. Era Gabriele; non se lo aspettava, lei pensava avesse accompagnato il padrone alla fattoria il quale, invece, lo aveva messo a cardare all’aria aperta, sul retro della casa, una quantità di vecchia lana dura e infeltrita con un attrezzo chiodato.

Da un po’ di tempo il giovane l’aveva presa di mira; l’aveva vista sdraiarsi, si era avvicinato di soppiatto e, con gli occhi lucidi aveva cercato di baciarla. Ada si alzò come una furia e gli dette un sonoro schiaffo.

– Scusami, non credevo te la prendessi tanto. –  Il giovane si accucciò appoggiato ad un albero, mostrandosi mortificato. Dopo un po’ lei gli sorrise; allora si sedettero accanto e cominciarono a parlare. Dopotutto erano soli entrambi; lui i genitori ce l’aveva e altri sette tra fratelli e sorelle, ma ormai, sentendosi di peso, se ne era staccato e tornava a casa sempre meno. Parlarono e parlarono, e lei, volgendo lontano lo sguardo smarrito fino al paese che, prima della morte della mamma l’aveva vista crescere e dove adesso sopravviveva solo una vecchia zia che non le voleva bene, si commosse a quei pensieri non solo per sé stessa, ma anche per lui.

Gabriele, appena intravedeva un varco, le si avvicinava, cercava di strusciarsi, fremeva di desiderio. Così, d’un tratto le montò addosso cercando di baciarla a forza, ma Ada, era una ragazza asciutta ma molto energica, gli tirò di nuovo uno schiaffo così forte, molto più forte del primo, da fargli sanguinare il naso. – Ohi, ohi, ma che hai nelle mani? – La guardò stupefatto.

– T’ho fatto parecchio male? – Rise. Poi gli guardò il viso, gli asciugò il sangue con la pezzola e, quando smise di sanguinare lo tirò su con la mano: – Vieni scemo... si fa du’ passi... –  Si incamminarono. – Non sono scemo... sono innamorato. – Ridendo lo guardò di sbieco poi gli si piantò davanti con un fare tra la sfrontata e la divertita: – Allora sposami. –

Lei aveva le gote rosse e piene e i seni bianchi e perfetti che si intravedevano sotto alla camicetta, le labbra rosa e il lungo collo sudato che si ergeva sotto una bella testa luminosa di capelli biondi, raccolti a pocchio. Gabriele era divorato dalla passione e non ebbe esitazioni: – certo che ti sposo... mi piaci tanto. – Allora si abbracciarono e si baciarono a lungo rimanendo entrambi senza fiato, poi corsero nel fienile. Da quel momento si cercavano continuamente appartandosi, o nei luoghi più nascosti, o all’aperto tra i campi, al chiaro di luna, senza mai saziarsi, per settimane.

Un giorno, tornato alla casa colonica, dopo essere andato a sorpresa a Sansepolcro per qualche motivo che non spiegò, e rimastovi per tre giorni, Gabriele pareva un altro. Faceva fatica a rivolgerle la parola, e quando lei lo cercava lui cercava di evitarla. Ada fu presa da una grande tristezza, non capendo il motivo del suo voltafaccia, finché un giorno, sbigottita, si accorse di essere rimasta in cinta. Ma non gli disse nulla, il suo orgoglio glielo impediva; era infuriata più con se stessa che con Gabriele per essere stata così credulona. Avrebbe però trovato il modo per ricordargli la sua promessa. Lo braccava e, pur non volendo umiliarsi a mendicare commiserazione, cercava il momento giusto per metterlo di fronte alle sue responsabilità. A un certo punto cominciò a non vederlo più; pensò fosse tornato nuovamente al suo paese, ma non osava chiederlo al padrone, il quale, invece, una mattina, indicandole un giovane le disse: – Lui è Loris, è al posto di Gabriele. –

Ada, con grande sforzo, riuscì a nascondere il proprio sgomento, ma le gambe le tremavano. Appena potè farlo corse su al suo sottotetto e pianse in silenzio; era disperata e confusa. Passarono le settimane e, nonostante il suo stato d’animo così depresso le sue forme si stavano arrotondando.

– Dio mio... quando il padrone lo saprà mi manderà via... e dove andrò... – Non conosceva nessuno; la zia, anni fa, l’aveva messa dalle suore dalle quali, a un certo punto, aveva voluto allontanarsene in tutti i modi. Fino all’anno precedente, all’infuori del ricamo e del cucito, non aveva mai fatto alcun lavoro.

La sua reazione, o per istinto, o forse per non pensare a quelle paure, fu quella di buttarsi a corpo morto nelle cose da fare. Loris si era ammalato e lei dovette fare anche il lavoro da garzone, quello più pesante nella bottega di materassaio, e lo fece senza lamentarsi. Inoltre, puliva a fondo la casa, governava con solerzia le galline e i conigli.

Una volta Amedeo si dovette allontanare per poche ore. Ada prese coraggio e fece una cosa che non doveva fare; impugnò il lungo ago, infilò lo spago bianco e mercerizzato nella cruna e si mise a cucire un saccone di robusto cotone ancora informe e ripieno di lana, già pronto e sollevato sulle due solide caprette di legno. Fino a quel momento il padrone, quando si trattava di fare dei nuovi materassi, lei doveva assisterlo, ma non le aveva mai consentito di cucire. Diceva che la vera abilità del materassaio stesse nella cucitura e che lei non ne fosse in grado.

Quando il padrone tornò e vide quel che aveva combinato, si infuriò, ma poi si mise attento ad osservare il lavoro fatto. Era quasi perfetto: – Sei stata te? ma come hai fatto... – Non ci voleva credere. Allora il giorno dopo, mentre lui, ancora scettico, rimaneva a sedere da una parte, gliene fece fare un altro. Vide che aveva la mano sicura e il polso forte. Il lavoro, un materasso matrimoniale imbottito di lana nuova venne ancora meglio di quello precedente. I contorni erano gonfi in modo uniforme e le linee diritte, ma non fece commenti.

Peraltro, come se d’un tratto gli si fossero aperti gli occhi, aveva visto anche un’altra cosa; Ada era diventata bella. L’aveva presa l’anno precedente quasi per misericordia come usava dire alla gente; era una ragazzina pallida e smagrita. A lui le donne, mogli e non mogli, erano sempre piaciute ben in carne. Ma adesso lei era una donna vera e, in sovrappiù brava con l’ago, ed era una gran lavoratrice. Ci rimuginò spesso nei giorni seguenti: – Come moglie è tanto più giovane di me... però è brava ed energica nel lavoro... però l’è bella, e fatta bene... la farò ingrassare... –

Un giorno la chiamò nella stanzina sudicia che teneva come una specie di ufficio. Lei si allarmò: – Ha scoperto che sono in cinta, mi manderà via... povera a me. – Amedeo vide che era impallidita: – Oh che cos’hai Ada?... ti senti male?... siedi. – Ecco, l’ha capito... ora me lo dice. –  pensò la ragazza. Nel sedersi emise un gemito impercettibile e diventò ancora più pallida.

Tra sé decise fosse meglio non farla tanto lunga e troncare quella sofferenza: – Va bene, va bene... me ne andrò, padrone, sia buono, mi dia il tempo di chiedere in giro... qualche giorno. – Ma che dici Ada?... perché te ne vuoi andare?  – Di quelle parole quasi sussurrate non ne aveva afferrato il senso ma rinunciava comunque a capire, tanta era l’ansia che provava in quel momento; cosa insolita per lui. Poi puntò lo sguardo diritto nei grandi occhi marroni di lei e, dopo un primo balbettio si schiarì la voce: – Ada, hai mai pensato a sistemarti? – Anche lei non capiva, e siccome non diceva niente Amedeo, in una sorta di dialogo tra sordi, riprese: – Icché tu ne dici?... lo so che sono vecchio per te, ma sono ancora in salute e sono forte come un toro... – In effetti, a parte quell’avarizia appresa dal suo babbo e che faceva torto alla sua vera natura, Amedeo sarebbe stato un omone gioviale e non era brutto. Quella mattina si era fatto la barba e si era pettinato. – Ho visto che sei attiva e sai fare le cose... saresti una buona moglie... che ne pensi?... – Si zittì, non sapendo che altro dire. Poi, quasi con pudore, aggiunse: – Non mi devi rispondere subito Ada, lo capisco. Dimmelo domani... eh? –

La ragazza uscì dall’ufficio con gli occhi stralunati. A quelle parole, finalmente comprese, non aveva fatto una piega, né di sorpresa, né di scontentezza, né il contrario; non si aspettava una cosa del genere. Quel giorno lavorò a fatica e non riuscì a pensare a niente. Passò la notte agitata; le si affollavano alla mente i ricordi della sua giovinezza trascorsa in miseria, la penosa morte della sua mamma, quella zia che non le aveva voluto bene e che l’aveva messa in convento, pur di non occuparsene. Per lei Ada era figlia del peccato; sua sorella aveva ceduto ad un amore ingannevole e poi era stata abbandonata. Pensò con amarezza di essere segnata anche lei, proprio come sua madre, dello stesso stigma; stava vivendo il suo stesso triste destino.

Ciò che, di quella proposta, finalmente stava realizzando le sembrava un’assurdità; sarebbe stato un matrimonio con un uomo quasi sconosciuto, che non amava, almeno non ancora.  D’altra parte, non avrebbe più sofferto la fame e la miseria, e l’età dell’uomo non le pareva l’aspetto principale del problema. Ma poi pensò che, prima o poi, avrebbe dovuto dirglielo: – Padrone... aspetto un bambino. – Era sicura che l’avrebbe scacciata, seppure come serva. Poteva anche non dir nulla, anche se il dover sostenere quella bugia, a ripensarci, lo considerava una cosa ripugnante; la sua educazione cattolica la faceva pensare in quei termini. Fece comunque un calcolo; era in cinta più o meno da un mese e, per giungere al matrimonio sarebbe stato necessario almeno un altro mese e mezzo o due, o forse tre; per le pubblicazioni e tutto il resto. Sentiva già i seni turgidi e davanti al suo specchio rotto aveva notato i propri labbri ispessiti e si immaginava come sarebbe stato il suo corpo per quel tempo. Sarebbe stata svergognata davanti a tutti. Più che la ripugnanza per la falsità potè quel calcolo. Decise che il giorno dopo gli avrebbe detto che non si sentiva pronta per sposarsi, e si addormentò finalmente di un sonno profondo, opaco, senza sogni.

E infatti verso le dieci del mattino lui la chiamò nuovamente in quell’ufficio che, essendo accanto al gabbione dei conigli, sapeva di un tanfo particolare.

– Allora?... ci hai pensato? – ma non le dette il tempo di rispondere; era quasi sicuro che la serva, dopo averci pensato, avesse accettato tra sé quella proposta, per lei troppo vantaggiosa. Anche lui aveva almanaccato per tutto il pomeriggio precedente; a parte la giovinezza e l’avvenenza di Ada che lo aveva tanto colpito, quel matrimonio sarebbe stato per lui un ottimo affare. Una ragazza così brava e lavoratrice gli avrebbe portato più che una dote, di cui peraltro lei non poteva disporre.

Inoltre, soppesando i pro e i contro aveva stabilito che, finalmente, sarebbe stato il momento di godersi quel gruzzolo depositato in banca, guadagnato in tanti anni. – La ragazza è giovane, avrà idee moderne e non voglio sbagliare un’altra volta... sì, farò uno sforzo e comprerò lo scaldabagno... ha le mani forti ma la pelle delicata. Sì... comprerò anche la televisione. –

Gli era venuto però il dubbio che se ci fosse stato ancora il suo babbo, non sarebbe stato d’accordo. Ma aveva scrollato le spalle: – I tempi son cambiati, babbo... voi capite. – aveva mormorato passando davanti all’altarino con l’immagine dei suoi genitori. Lo sguardo dell’uomo in giacca nera e cappello, dentro al quadretto, era però severo e non pareva affatto comprensivo come Amedeo avrebbe desiderato. Allora si era guardato intorno, qualora ci fosse stato qualcuno, magari la stessa Ada ad osservare, aveva sollevato il quadro dal mobiletto e, dandogli un bacio frettoloso lo aveva riposto adagiato con l’immagine all’ingiù. – Scusatemi, babbo e mamma. –

Così, fiducioso per tutte quelle buone ragioni ed eccitato, prima che lei potesse rispondere, aveva ripreso: – Compreremo la televisione e lo scaldabagno, magari anche la stufa a Kerosene... Ada, che ne dici? –

Ada dapprima non disse nulla, ma poiché egli rimaneva a guardarla, articolò con fatica: – No, padrone, non posso, non sono pronta per sposarmi. – Lui subito si alzò: – Come un tu poi... e perché mai ragazza, come sarebbe, un son pronta... o icchè vuol dire? – Un posso! – ridisse Ada.

Lui, prima la guardò come inebetito ma poi si arrabbiò: – Ho capito, sai... l’ho capito, la santerellina, tu hai un ganzo!... eh, confessa...  – Lei non rispondeva e lui la incalzava: – Dimmi chi è quel farabutto... dimmelo! – Prese a camminare in su e giù per la stanza e la guardava infuriato: – Anzi, non mi di’ nulla, l’ho capito... è Gabriele che tu vedi ancora... eh? l’ho notato sai come ti guardava... – No, non c’entra nulla lui! – rispose lei piangendo. Ada fece comunque il viso rosso come un peperone, balbettò qualcosa e uscì ancor più piangendo.

Il giorno dopo la richiamò in ufficio; si era calmato e le disse: – Senti Ada, se è vero che non hai nessuno, io ci credo e te lo richiedo un’altra volta; ti interessa sposarmi?... sennò un se parla più, te lo prometto. –

Ada, a capo basso, non rispose subito, ma poi fece di no con la testa. – Proprio no? – insisté Amedeo. – Non posso. – sospirò lei. Il padrone uscì, silenzioso.

Ada rimase affranta e con molti dubbi, ma allo stesso tempo si era tranquillizzata, pensando che l’angoscia provocata da quella inaspettata proposta fosse ormai per cessare. Semmai era rimasto il nodo dell’essere in cinta; quello rimaneva e avrebbe pesato come un macigno sul suo incerto futuro. Era troppo stanca per pensarci in quell’ora e, dolorante alle gambe per la tensione, come avesse camminato un giorno intero, si addormentò come di schianto e prestissimo, come si diceva da quelle parti “con le galline”.

Ma nel cuore della notte venne svegliata da un tramenio insolito. Si spaventò, aprì gli occhi ancora appesantiti, ma era buio quasi pesto; la luna calante che faceva capolino dalla finestra senza persiane era ridotta ad uno spicchio sottile. Ma quel che non vide cominciò a sentire: – Sono io Ada, non ti spaventare, ti devo parlare. – Era il padrone, il quale, più che parlare pareva volesse ben altro. Due mani ruvide, sotto le lenzuola, avevano cominciato a risalire il suo corpo nudo. Emise un grido strozzato e prese a tremare. Sentiva il suo corpaccione, nudo anch’esso, che si era steso sopra di lei ma senza pesantezza. Sorretto sui gomiti e sulle ginocchia stava posando quelle grosse mani sui suoi seni. Sentì il suo alito vicino quando le sussurrò: – Come sei bella... come sei bella... –

Dapprima lei accennò ad una fiacca resistenza, voltanto il capo ora verso il muro, ora verso la finestra, per evitare il contatto con la bocca di lui che cercava la sua. Si divincolò provando a respingere il suo petto potente e peloso con le mani, ma poi cessò di tremare. Ada sentiva che avrebbe presto smesso di resistere e non solo perché sopraffatta da quella forza. L’uomo, come inebriato, cessò in parte di sorreggersi sui ginocchi e fece per farsi posto verso il ventre di lei, che acconsentì. Ada chiuse gli occhi e lo cinse con le braccia. Trascorsero la notte insieme. Amedeo tornò la sera dopo e poi ogni notte.

Un giorno le disse: – Ho fatto le pubblicazioni, tra un mese e mezzo o due ci sposeremo. – Lei sorrise tra sé. Il calcolo dei mesi che, a suo tempo aveva fatto e che l’aveva atterrita, adesso non valeva più; un mese più, un mese meno, era tutto in regola. E cominciava a sentire per lui qualcosa simile all’affetto.

Il padrone era sommamente contento, aveva una bella moglie, brava a far tutto e lavoratrice. Dopo un mese, seppe che Ada fosse in cinta. Lei non aveva voluto andare dal ginecologo per accertarsene; disse che sentiva una nuova creatura dentro di sé. Amedeo era al settimo cielo e, mentre la donna stava mostrando sempre più le sue belle forme di puerpera, un giorno andarono a Pontassieve per ordinare quel che aveva promesso, quelle moderne comodità che si confacevano alla sua giovane moglie e che facevano piacere anche a lui.

Arrivò il rigido inverno che finalmente in quella casa faceva meno paura, poi a fine febbraio venne il momento del parto. Era una bellissima bambina che, pur nata prematura di un mese come diceva Amedeo, pesava tre chili e mezzo. Erano tornati ormai a casa dall’ospedale e l’uomo, intenerito, aveva preso in braccio la bambina. – Quelle grulle... in due un sono riuscite a farmelo il figliolo... e la Tosca l’arrivò quasi a dire che l’era colpa mia... che ero io a non esse’ bono... – A quel ricordo il padrone quasi si “imbizzì” con la morta, come se quella lontana insinuazione l’avesse sentita un’ora prima.

– L’Ada sì...  di schianto l’ha messo su una creatura... e come bella. – La guardò bene; aveva una piccola voglia violacea a forma di mezza luna dietro l’orecchio destro, ma non disse nulla.

Felice, si rivolse allora alla moglie che era in bagno; anche quello una novità ultimata da poco, ricavato con l’entrata sul mezzanino: – Ada, preparati...  presto voglio anche il maschio! –

Il quadro dei genitori sull’altarino l’aveva rimesso in piedi già da tempo; lo guardò e gli parve che il suo babbo avesse ancora quell’espressione severa, come di rimprovero. Era una foto, la stessa di prima, tuttavia avrebbe preteso che adesso quell’uomo tutto d’un pezzo mostrasse più indulgenza di prima, visto che le sue scelte si stavano rivelando giuste.

Ada si dimenticò presto delle sue passate apprensioni, viveva tranquilla; la bambina in pochi mesi cresceva “veniente” e radiosa, facendo già mostra di radi ma setosi capelli castano rossicci, ma ogni tanto le riaffiorava qualche scrupolo; quella voglia dietro l’orecchio l’aveva notata subito anche lei. Si sforzò di rammentare se Gabriele avesse avuto qualcosa del genere, ne aveva un vago ricordo ma non ne era certa.

Ma poi presa dal lavoro e dall’amore, sia quello profuso che quello ricevuto, quello infantile e tenero di Clara, e quello maschio e carnale di Amedeo, si dimenticò della piccola voglia violacea. Amedeo, che aveva desiderio anche di un figlio maschio, non si lesinava per la sua parte. Ada era ingrassata piacevolmente e alla sera, anche se la giovane donna ogni tanto avrebbe visto volentieri “Il Musichiere” o “Canzonissima”, la televisione spesso veniva spenta presto, preferendo, quell’uomo ancora pieno di vigore, trascorrere il tempo in altro modo.

Erano passati ormai tre anni; il lavoro andava bene, Clara era una meraviglia; carnato bianchissimo e capelli fiammeggianti e ondulati, aveva occhi così chiari e splendenti che nessuno poteva fare a meno di non ammirarla.

Ada non era riuscita a rimanere di nuovo in cinta e Amedeo da tempo era cambiato d’umore. A tavola non era più gioviale come prima e del solito appetito; a volte guardava sottecchi la moglie che alla fine se ne accorse: – Amedeo, che hai? Non ti senti bene? – Lui non rispondeva e si rianimava soltanto giocando con la bambina che gli saltava sulle ginocchia.

Un sabato mattina d’agosto, salì sul suo furgone Fiat 238 per recarsi ad Arezzo, dove doveva consegnare due materassi nuovi. Fatta la consegna si fermò al mercato settimanale di viale Giotto. Prese verdure, ortaggi freschi, un salame e un paio di scarpine nuove per la bambina, della taglia e della forma che Ada gli aveva descritto.

Stava per andarsene quando notò all’angolo della strada un giovane con la barba lunga, accosciato in terra, in compagnia di un grosso cane, un maremmano peloso. Chiedeva l’elemosina, come pareva evidente dalla presenza in terra, di un cappello da operaio con qualche spicciolo. A mezzogiorno il sole aveva già reso l’aria rovente e questi, a torso nudo, sonnecchiava, appoggiato ad un tiglio del viale.

Amedeo ebbe un tuffo al cuore; non era sicuro ma da lontano gli sembrò Gabriele, il garzone che, tre o quattro anni prima se n’era andato improvvisamente senza dare spiegazioni. Si avvicinò, era proprio lui, il ragazzo un po’ indolente dai capelli rossi; faceva pena tanto era sporco e scheletrito. Il cane, abituato alla vita di strada e alla gente che si accostava per gettare rare monete nel cappello, si degnò appena di aprire un occhio che richiuse subito; forse la fame che condivideva con il suo padrone lo consigliava di muoversi con parsimonia.

Amedeo non lo chiamò, non gli sembrava il caso; Gabriele emanava odore di vino cattivo e di orina. Allora si avvicinò ancora di più per mettere qualche spicciolo nel cappello poi, mentre stava per allontanarsi, con la coda dell’occhio vide una cosa che lo trattenne. Il giovane, cambiando posizione ancora immerso in quel sonno malato, mostrava adesso sul collo una piccola voglia a forma di mezza luna, violacea. Gli si aprirono gli occhi della memoria; il materassaio rimase a bocca aperta.

Se ne allontanò lentamente con la sua borsa della spesa, ma poi si accasciò a sedere su una panchina non molto distante. Da lì lo poteva ancora osservare, da lì poteva pensare a come va il mondo. Realizzò che non lo odiava anzi, gli faceva un’immensa pena, ancor più di prima. Lui, sospinto dal suo istinto selvatico, o immaginando qualcosa riguardo a Ada, quel giorno se n’era andato per sempre, voltando le spalle ad un destino che per lui sarebbe stato sicuramente migliore.

Raggiunto il suo furgone, Amedeo partì per tornare a casa. Durante il breve viaggio decise che non avrebbe detto nulla a Ada, né di Gabriele, di come si era ridotto, né della mancata sincerità di Ada stessa. Arrivò a pensare che la giovane donna, dopotutto abbandonata senza colpa, avesse agito bene. E poi era stato lui a forzarla. Una forzatura e un’omissione benedette dal cielo. – Icché potrei chiedere di più... una bella e brava moglie e una bambina d’oro... – disse tra sé.

Aveva una gran voglia di affrettarsi per abbracciare nuovamente Ada con quel trasporto che da tempo, colpevolmente, non aveva più sentito ma, prima di tornare a casa, sebbene avesse anche fame, si fermò al cimitero di Pratovecchio. Al baracchino del fioraio comprò un mazzetto di gladioli e poi, dopo averne riordinato i sassolini bianchi, lo pose sulla tomba di Tosca. – Cara Tosca, t’avevi ragione... l’era colpa mia... l’era colpa mia... – mormorò.

– fine –

 

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