IL SASSO DELLE FATE

IL SASSO DELLE FATE – 1922 –

 “... perché molta sapienza. Molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore.” (Ecclesiaste)

 IL SASSO DELLE FATE

– L’uomo aveva un’espressione di grande accasciatezza, ma non era molto anziano. Miope, stava seduto quasi immobile, e teneva il palmo della mano accostato alla fronte come per ripararsi dalla vampa della fiamma. Con un piccolo basco che appena gli si reggeva sulla testa calva, pareva lui il malato; stretto di petto, pallido in viso, era troppo magro per l’abito che indossava; un vestito nero con gilet a righine marroni, residuo di qualche antico matrimonio. La presenza dei due forestieri lo aveva però svegliato dal solito torpore. 

Agata gli aveva detto d’aver sentito dire di certi fatti antichi: – Sposa... qui ce n’è stati di fatti strani e parecchio vecchi... il babbo, il nonno e su su la gente d’una volta l’hanno sempre riportati.... – 

– Oh bene... che vi dispiace raccontarne qualcheduno qui, a Giorgio?... a lui gli piace, vero Giorgino? – Sie va... oh bel ragazzino, quale tu voi sentire? – Giorgio fece spallucce; si stava annoiando e lui era lì con la sua mamma e dove lo portava lui andava. Aveva sei anni e in quel posto non c’era nessuno della sua età; lo traversò un’uggia al pensiero di sentire le chiacchiere dei grandi. – Allora ti racconto “Il sasso delle fate”; la sai?, io dico che non la sai Giorgino. – Il bambino sgranò gli occhi e sollevò il viso.

 – Agata era una signora ben in carne, dalle larghe spalle, dalle folte sopraciglia nere, liscia di capelli e semplice di tratti, con un’ombra di baffetti e con mani lunghe e non pareva affatto malata.  Invece dopo un inizio di tisi trascurato, in quell’inverno appena trascorso si era aggravata molto; tossiva e in malo modo e Leandro si era fatto convincere dal cognato di affidarla alle cure  del dottor Renzi di Calenzano il quale le aveva raccomandato il soggiorno in questo borgo. Cavarzano era un posto molto ameno situato nel cuore dell’appennino pratese, e passava per godere di un’aria particolarmente balsamica, essendo frequentato anche da persone di Firenze.

Però alla fine della primavera dell’anno 1923 in quel paese disteso su un alto pianoro fitto di castagni alternati a boschi di faggi, come in tutta la montagna circostante non si avvertiva ancora il benché minimo sentore che la stagione calda fosse alle porte; ma Agata diceva di sentirsi già meglio.

Quella sera, come le altre sere, la signora con il ragazzino avevano preso posto attorno al grande focolare sotto alla cui cappa, dalla quale ciondolavano trecce di agli e cipolle, ci si poteva sedere in cinque, sei persone. Ospiti in due stanze al piano superiore di quella casa colonica, erano arrivati da due settimane. 

Arturo cominciò a raccontare; la sua accasciatezza si accompagnava alla voce deboluccia, cosicché da tutta la sua figura, meno che dagli occhi i quali invece lanciavano certi lampi indefiniti, traspariva un non so che di donnesco e di un’audace timidezza: – La giovane Edgarda, figlia del giudice Guidone e promessa sposa a Tebaldo, aveva acceso la bramosia  del giovane conte che ben presto sedusse la ragazza... –

La leggenda si svolgeva ai tempi dei conti Alberti, già allora come per i due secoli a venire, signori assoluti della val di Bisenzio. Narrava di tranelli, vendette, feste a palazzo. Il conte venne murato vivo in una grotta e la bella Edgarda fu avvelenata dal padre.

– La roccia dove venne murato il conte è ancora abitata da fate malvage e astiose, lo sai? – Giorgio rabbrividì, guardando nel vuoto. – ... e ci tengono ancora dei prigionieri che piangono e si disperano... e a volte, di notte, si sentono grida e lamenti. – ... ma se sei bravo,– concluse Arturo posando la propria mano sopra a quella ancora infantile del ragazzo, – non ti succederà nulla. –

La cognata di Arturo passò ad offrire della frutta secca e del vino moscato e i presenti si distrassero da quel terribile racconto. Suo fratello, più giovane di Arturo, faceva un po’ il contadino avendo campi e stalla e in parte il boscaiolo; vendeva la legna ai carbonai per ricavarne maggiormente da vivere ed era grande e grosso. Chino in avanti, si sorreggeva la guancia con il pugno ma era distratto; lui quella storia l’aveva sentita tante volte e non ci badava più. Sembrava più interessato alle forme della signora ben in carne, tutta diversa da sua moglie, una donna magra con l’occhio secco e dalle labbra sottili, un po’ grigia in viso e di capelli. Le piantò gli occhi addosso per qualche momento, poi volse lo sguardo al fratello aggrottando le sopracciglia.

Agata che era stata attenta alla narrazione chiese se c’era davvero questa roccia, vera o finta che fosse la vicenda. – Sì certo, – fece il narratore, – è vicino alla Torre di Luciana, non lontana da qui. – 

Se volete un giorno vi ci porto signora Agata... – intervenne il boscaiolo d’un tratto, attirando l’attenzione della moglie che non si aspettava che il marito aprisse bocca. Pietro, così si chiamava, appariva taciturno, di modi quasi rudi seppure, quando si ricordava di ravversarsi un po’, di aspetto piacevole. Dicevano che una volta fosse scherzoso ma da un po’, da quando Gina aveva abortito per la seconda volta si era chiuso in una sorta di melanconica apatia. Da tempo i due coniugi si trattavano in modo freddo e scostante. 

La donna con il mal sottile sorrise: – No, non credo che potrei accettare signor Pietro, con tutte le cose che ha da fare... non merita. – Poi ci ripensò: – Ma forse a Giorgino piacerebbe vedere il Sasso delle Fate... vero Giorgio?... ma non avrai paura eh?... poi la notte ti svegli, eh? – 

– Stia tranquilla signora, non c’è da aver troppa paura... è solo un sasso. – aggiunse il taglialegna un po’ sogghignando. Intanto si era sollevato dalla posizione china come per rimarcare la leggera presa in giro nei confronti del fratello. 

Agata, per il modo con cui Pietro l’aveva detto, stralunò gli occhi e scoppiò a ridere mostrando i suoi bei denti bianchi. Arturo fece una smorfia come di contrarietà e la moglie di Pietro s’allontanò con la faccia cupa. Nessuno aggiunse altro e per alcuni minuti si sentì solo lo scoppiettare dei tronchi più fini che, presi d’assalto dalla fiamma viva schizzavano scintille qua e là. Poi si alzò anche il boscaiolo per andare nella stalla attigua per governare le mucche; nell’aprire la porta, facendo filtrare per qualche istante il forte odore di stallatico e l’uggiolare di Lea, il vecchio cane pastore, si soffermò con lo sguardo ancora sulla signora Agata. Lei fece finta di non accorgersene.

Ormai era ora di andare a letto, così i due ospiti salirono, attraverso una ripida scala esterna alle stanze che avevano preso “a pigione”.

L’indomani giovedì 25 maggio si festeggiva l’Ascensione del Signore e la chiesa di San Pietro, alta e solenne per un paese di modeste proporzioni e sperduto tra gli Appennini, era gremita di fedeli. 

Il signor Leandro per l’occasione, trascurando i suoi affari come fece ben rilevare alla moglie, affari che non erano floridi in quel periodo, era venuto a trovare la sua famiglia con l’idea di trattenersi fino alla domenica successiva. Lui non aveva quello che si definisce un bel viso, ma era alto e di portamento aristocratico, indossava una rendigote e ostentava due fieri baffi arcuati. Il commerciante fiorentino non mostrò alcun desiderio di trascorrere le serate a veglia in casa dei due affittuari che, appena appena degnandosi, aveva salutato all’arrivo e che, allo stesso modo avrebbe salutato poi alla partenza. 

Ma partito il marito, Agata insieme al figlio, riprese volentieri a sedersi la sera sotto a quella vasta cappa. Faceva i complimenti alla moglie del taglialegna per la squisitezza dei suoi berlingozzi e per la dolcezza del suo vino moscato, ma non riusciva ad accaparrarsene la simpatia. Gina sopportava l’ospite solo per il buon tornaconto che ne risultava, ma ne avrebbe fatto a meno. Su richiesta della signora Arturo raccontò loro altre storie, ma Giorgino chiese di risentire quella del Sasso delle Fate. Pietro, tornato taciturno, sedeva anche lui intorno al focolare e ogni tanto sbirciava sia la signora che il fratello.

 

– Una sera il fratello giovane non c’era; era partito per tre giorni per un lavoro in Val d’Arno. 

– Ti piace tanto questa storia delle fate eh, bel ragazzino... ti piacerebbe vedere il Sasso delle fate eh?... ti ci porto io. – gli sussurrò in un orecchio Arturo, proprio  mentre Agata, sentendosi quasi di famiglia si era alzata per prendere della legna da ardere, fuori della porta. Il ragazzino annuì; l’uomo gli fece allora dei complimenti, lo accarezzò sulla testa; il ragazzo, scostandosi, fece una smorfia e inarcò le spalle.

Passarono alcuni giorni e gli odori e i colori della primavera finalmente comparvero in pieno, riprendendo il tempo perduto e come era loro dovuto dal calendario, tra boschi e prati. 

Mamma e figlio vi passeggiavano felici; odoravano e coglievano i nuovi sbocci e talvolta Arturo che in quei giorni pareva stranamente rinvigorito li accompagnava per brevi tratti. Teneva sempre con sé una scatola di pastiglie Valda morbide  e al sapore di menta che ciucciava volentieri: – Che vuole signora, io non bevo e non fumo e queste mi danno un po’ d’energia... ne vuoi una Giorgino? eh? – Allora dandone una per ciascuno ai due ospiti gli si illuminava il viso di soddisfazione. Poi, quando il ragazzino stentava a camminare per la noia, con la sua mano grinzosa e ossuta lo prendeva per la mano e gliela stringeva piano, come avrebbe fatto un nonno.

 

 – Un giorno, una contadina che tornava con il suo cane da un campicello lontano coltivato a patate in zona Gagnaia, vide che l’animale non voleva staccarsi da un alto cespuglio in mezzo ad una macchia molto intricata di lecci e corbezzoli, e abbaiava richiamando la padrona. La donna, avvicinatasi con molta fatica a quei pruni vide spuntare qualcosa che somigliava ad una piccola gamba scarnificata coperta da un lembo di pantalone strappato.

In paese e in tutta l’alta vallata fu una grande emozione. Molti anni prima era scomparso un bambino di otto anni; la mamma, una donna di Prato che era in vacanza con la sua famiglia lo aveva perso di vista un attimo e non lo aveva più trovato. L’avevano cercato dappertutto i carabinieri, la gente del posto e squadre di cittadini venuti anche dalla città laniera. I familiari, esaurite le lacrime, si rassegnarono. Si ipotizzò di una bestia selvatica, un lupo o un cinghiale che, dopo averlo azzannato alla gola, lo avesse trasportato chissà dove. Nessuno pensò, neppure per un istante, che il predatore fosse un abitante di quei luoghi.

Quella notizia rinnovò, qualora fosse stato almeno un po’ rimosso, l’enorme dolore dei suoi genitori, chiamati a riconoscere quei poveri resti. La cosa che sgomentò ancora di più, dopo molti giorni, fu il risultato degli riscontri fatti sul corpo del bambino; i chirurghi non trovarono nessun segno che potesse far pensare a morsi di animali, né a segni sul cranio o altrove provocati da eventuali cadute. C’era soltanto e inequivocabile lo slittamento della colonna vertebrale all’altezza del collo, come per un’inverosimile azione di strozzamento.

 

 – Pochi mesi prima, nel mese di ottobre, nel contesto di una forte instabilità politica e di insicurezza sociale che si respirava evidente nel paese, c’era stata da parte dei fascisti trascinati da Benito Mussolini la “Marcia su Roma”. Lo stesso Mussolini dopo aver pronunciato il suo primo e storico discorso era diventato primo ministro. Il nuovo stile di governo, autoritario e nelle intenzioni inflessibile, portava le forze di polizia e l’arma dei carabinieri ad intraprendere azioni più efficaci che dessero il senso dell’ordine e della stabilità.

La pratica della morte del povero bambino archiviata ormai da nove anni, sull’onda di quell’emozione, fu riesaminata. Furono riaperte indagini e fatti nuovi interrogatori che non portarono però a nulla.

Passarono le settimane e la signora Agata stava sempre meglio; lei respirava bene e forse con l’intento  di respirare ancor più a pieni polmoni prese ad indossare, considerando anche il clima caldo di quel mese, delle mise adatte a scoprire il suo candido e morbido décolletté, suscitando nella padrona di casa acidi commenti.

Leandro, dai giorni dell’Ascensione non era più tornato a trovarli e, scudandosene, aveva scritto che per cause gravi di lavoro, non avrebbe potuto fare una visita, seppur breve, ancora per un bel po’.

Agata, se da una parte era dispiaciuta, dall’altra ne ricavò un senso vago di libertà, quasi di una imprevista eccitazione, del cui motivo non avrebbe saputo darsene una vera spiegazione. Gli sguardi del silenzioso Pietro la confondevano e non sempre sapeva o voleva sottrarsene. 

 

 – Un giorno caldo di inizio agosto, Giorgino alternava l’osservazione curiosa nei confronti delle galline mugellesi che, come impettite beccavano nell’aja, alla costruzione di una casetta con dei piccoli legni avanzati dalla tagliatura del legname. Agata, seduta all’ombra su una seggiolina lo guardava con tranquilla tenerezza e sorrideva ai suoi goffi tentativi di toccare le galline più svelte di lui, quando si accorse che Pietro stava venendo proprio nella sua direzione; non era mai successo che le si avvicinasse di proposito, e il cuore le prese a battere forte. 

L’uomo guardava a destra e a sinistra e aveva occhi come di brace accesa che Agata non gli aveva mai visto. Le si accostò: – ... non c’è nessuno in casa. – Ansando come avesse appena tagliato un ettaro di bosco, con una voce che pareva venire dall’oltretomba, le aveva appena mormorato quelle poche parole. 

Agata rimase sbigottita. Capì subito che cosa voleva dire e non fece finta di non aver capito. In un fitto turbinìo di pensieri di pochi attimi le apparve lo scostante e superbo marito, dei cui sentimenti come dei propri da tempo dubitava, poi volse lo sguardo verso l’ignaro Giorgino e la sua precaria casetta. 

Il timor di Dio e la sua educazione le avrebbe imposto di alzarsi subito, mentre con fiere e indignate parole avrebbe redarguito quell’uomo con asprezza. Poi, prendendo Giorgino per una mano, avrebbe velocemente salito le ripide scale esterne che conducevano alla sua abitazione, senza neppure voltarsi.

Ma non lo fece. Le gambe non si mossero e la voce non le uscì. 

Lui, prima le posò, avide, le grosse mani sui fianchi e poi accostò la sua bocca tremante sul bianco e colmo petto di lei che la generosa scollatura non riusciva a contenere. – Pietro... che fai?... – Agata... – Lei indugiò, poi dischiuse la bocca. Le loro labbra scivolarono le une sulle altre, umide e calde.

La donna si volse indietro; il figliolo era intento nel gioco. Come stordita si lasciò allora condurre  nella stalla sopra un letto di odoroso fieno tagliato di fresco. 

Non aveva mai provato in modo così vivo quelle sensazioni, come un completo abbandono ai propri sensi da troppo tempo repressi. La sua pelle sussultava sotto le dita pur grosse ma sensibili di quell’uomo del quale conosceva poco di più della sua avara voce e dei suoi prolungati sguardi. Sentendosi desiderata e stimata, Agata cedeva a un bisogno che non solo era nelle carni, ma assai più profondo. 

Alla fine di quell’estasi rimasero quasi in silenzio guardandosi e accarezzandosi, ma d’un tratto Agata si rammentò di Giorgio. Pur ancora tremante per quella breve ed intensa passione, si alzò senza preoccuparsi, non più di tanto, di ravversare la propria veste. Avrebbe solo dato un’occhiata fuori del portone per vedere il figlioletto. Guardò da una parte poi guardò dall’altra, guardò oltre alcune siepi di bossolo, poi uscì dalla stalla per vedere se fosse entrato nel pollaio o nel porcilaio, cosa di cui dubitava perché i maiali gli facevano paura. Ancora discinta e con i capelli un po’ arruffati cominciò a chiamare: – Giorgio... Giorgino... non mi far confondere, dove sei?... Giorgino! – Non c’era da nessuna parte. Anche Pietro, mettendo da parte la prudenza si mise a cercare e a chiamare. 

Ma dopo la preoccupazione si affacciò la paura; Agata cominciò a piangere e, ad un certo punto Pietro le abbracciò le spalle, questa volta come per consolarla e rassicurarla. 

Proprio in quel momento si affacciò nel cortile sua moglie. Sebbene in anticipo era tornata dal mercato del giovedì a Mercatale di Vernio. La merce esposta era conveniente e molti vi si recavano salendo su un carro a motore FIAT che faceva quel servizio, l’unica automobile presente a Cavarzano in quegli anni. 

Gina rimase stupita di quella confidenza non meno che dell’aspetto disordinato di Agata da cui, con le lacrime agli occhi, fu messa a corrente della sparizione del ragazzo: – Lui non si allontana mai, è un bravo bambino... ma da un’ora non si trova. –

– Ma Arturo dov’è? – disse Pietro d’un tratto come se la cosa gli importasse molto. – La moglie si voltò sgranando i suoi occhi piccoli: – Che t’importa di quel buonanulla?... sarà andato a Luciana da quel suo amico, come fa a volte...  tornerà domani di sicuro.   Ma poi prese a fissare suo marito, fino a che lui distolse lo sguardo. 

Agata che intanto aveva perso la voce a forza di chiamare correndo qua e là, pur commossa e preoccupata non potè fare a meno di notare quei duri sguardi e quelle parole di avversione di cui non sapeva nulla. Ma in quel momento c’era un’emergenza a cui pensare. Pietro convulsamente disse a Gina di chiamare aiuto e lui stesso lo fece; in molti accorsero, era ancora forte l’impressione lasciata negli abitanti del paese dal recente ritrovamento dei resti di quel bambino pratese.

Le ricerche continuarono tutto il giorno e anche dopo l’imbrunire. Pareva ripetersi tragicamente ciò che era successo anni prima e la popolazione era costernata. Agata improvvisamente era passata dalla passione amorosa la più intensa che avesse mai provato, alla disperazione più profonda. 

Alla fine della giornata, nella quale lei stessa non si era risparmiata per quei boschi intricati, invocando continuamente il nome del suo bambino fino allo sfinimento, pareva una tetra maschera di dolore; non piangeva, non diceva nulla, guardava nel vuoto.

Nei recessi della sua anima stava vivendo oltretutto  un dramma terribile; quello della colpa: – Dio mi ha punito... mi ha punito... ho peccato e mi ha punito. – Si macerava pensando ad un Dio giustiziere non potendosi confidare con nessuno. 

Anche Pietro che avrebbe voluto consolarla ma non poteva non chiuse occhio; lui non credeva a nessun giustiziere, ma non per questo era meno afflitto: – la colpa è mia... la colpa è mia... – anche se dentro di sé, della sparizione, se ne stava facendo una certa idea, ma non osava parlarne e forse neppure pensarci.

 

 – Al mattino prestissimo, mentre casolari isolati s’accendevano con parsimoniosa pigrizia e un baluginare lontano annunciava l’alba,  sentirono bussare fragorosamente alla porta della casa colonica. Un pastore che si chiamava Pio e che tutti conoscevano, pascolando sopra Luciana l’aveva trovato accucciato sotto un nocciolo, sano e salvo, e l’aveva condotto lì dove sapeva che un ragazzino si era perso. Agata, dalla gioia, ebbe un accenno di svenimento; le dovettero somministrare dei sali mentre qualcuno pensava ad accudire e a sfamare il povero Giorgino. 

Pio raccontò che lui stava trascorrendo quella notte al pascolo e che, a un certo punto, sentendo qualcosa che assomigliava a deboli singhiozzi, lo aveva trovato. Disse che il bambino, sporco e piangente stava rabbrividendo per il freddo, e che non gli era riuscito a spiccicare neanche una parola. Ancora di buio, entrambi in groppa al suo asino, avevano preso subito la strada per Cavarzano. 

Anche alla mamma Giorgio non riuscì a dir niente; pianse un po’ e poi, di schianto, si era addormentato nelle braccia materne.

– Dove lo hai trovato, Pio... a Luciana?... ma come ha fatto ad arrivare fin là? – qualcuno chiese. – Pietro sentendo parlare di quel posto si fece avanti e volle sapere il punto preciso. Non disse niente ma gli occhi gli si erano rabbuitati e qualcuno che lo conosceva bene disse che parevano pieni di rabbia.

– Ti ci accompagno io Pietro... ho lasciato il gregge abbadato solo dai cani e sono in pensiero. – Lui si avviò subito con il suo asino. Il boscaiolo prese il carro a cui attaccò il vecchio mulo e lo seguì insieme al cane. 

– Il calessino l’ha preso di sicuro Arturo... quel... uuh, guarda... non mi fate dir nulla...  – sibilò amara la moglie, quando lo vide partire. Lei era spesso in polemica con il fratello di suo marito che si riteneva padrone dei poderi come Pietro e lo era, ma non faceva nulla adducendo la sua debolezza e i suoi mali come cause della sua inattitudine al lavoro. Pietro, pur biasimando il fratello, pareva che lo proteggesse, non solo dalle parole di fiele della Gina ma anche da certe chiacchiere che, qua e là erano fiorite da molto tempo; molti dicevano che ad Arturo non piacessero le donne e che avesse un amico particolare proprio a Luciana.

Pietro era più giovane del fratello di dodici anni, eppure quando il babbo fu in punto di morte, mentre tutti, intorno al focolare, vegliavano l’ora fatale  lo chiamò al suo capezzale: – Chiudi la porta Pietro... tu sei giovane ma in realtà sarai te il capo famiglia... non è colpa sua... lo sai che difetto ha Arturo, ma è figliolo anche lui... nessuno dovrà ridere di lui... giuramelo Pietro. –

Lui stava pensando ancora tra sé a queste cose mentre Pio prese per una vecchia mulattiera che conduceva su per dei prati in salita. – Ecco... l’ho trovato lì. – fece il pastore indicando un punto tra una macchia di ginepro e un boschetto di bassi nocciòli. Il boschetto era non lontano da una ripa pietrosa molto scoscesa coperta a chiazze di alte felci. Lea intanto si era allontanata ed aveva cominciato ad abbaiare in quella direzione. – Che c’è, che c’è, Lea... icché tu voi... – La cagna corse avanti per quella ripida discesa e quando si fermò cominciò ad agitarsi e a latrare guardando il padrone. 

– È Arturo... è Arturo... – gridò Pio che, accorso subito, era arrivato per primo. Pietro, giunto anche lui in quel punto si chinò per toccarlo; aveva una larga ferita sulla nuca e l’abbondante sangue fuoriuscito si era ormai rappreso tingendo di rosso sbiadito il terreno intorno: – È morto, Pio... – 

Rimase chino su Arturo per un po’; gli chiuse gli occhi che gli erano rimasti aperti in un’espressione quasi di stupore. Da qualche parte, lontano, un uccello gettò un richiamo. 

Pietro, sulla strada del ritorno, mentre intanto Pio rimaneva lì a sorvegliare il corpo, trovò anche il calesse. Era stato abbandonato in un campo, ma senza cavallino di cui non c’era neanche l’ombra.

 

 – La notizia si sparse per tutta la zona. L’uomo aveva battuto la testa su una pietra cadendo in quella scoscesa. Come avesse fatto a cadere e, soprattutto, del motivo per cui fosse proprio lì, si può dire non lontano dal luogo dove il pastore aveva trovato Giorgino, nessuno potè dire nulla, anche se i mormorii furono tanti. 

Pietro se avesse potuto, avrebbe fatto in modo che i due ritrovamenti fossero stati fatti in posti distanti tra loro ma ciò non fu possibile. Pio, eccitato e protagonista della giornata non fece che raccontare tutto quello che sapeva a destra e a manca, trascurando anche le pecore.

I carabinieri interrogarono tutta la famiglia e Gina, dopo aver detto per un po’: – Oh povero Arturo, oh povero Arturo... – non perse tempo nel rivelare che il cognato avesse avuto delle amicizie speciali, tra cui, le sembrava, una persona di Luciana che si occupava di “mezzeria” nel campo degli animali da stalla. Questo tizio fu subito rintracciato e interrogato. 

Dopo un po’ di resistenza l’uomo ammise che sì, lui era stato molto amico di Arturo e anche qualcosa in più, ma che se ne era allontanato. Oltre non voleva andare. Lo portarono alla caserma di San Quirico e qui, di fronte alla minaccia di una lunga  prigionia cautelativa rivelò: – Lui... era attratto dai bambini più che dagli adulti... soprattutto maschi. La cosa a me... mi faceva ribrezzo... ed io gli dicevo, ma non hai una coscienza Arturo? ... – Non ne era sicuro, ma come disse a un certo punto con voce esitante, temeva che la morte di quel bambino di Prato avesse qualcosa a che vedere con i gusti di Arturo. Poi si pentì di aver detto quelle cose, ma ormai aveva aperto la strada ad una terribile ipotesi. Piangendo aggiunse che non ne avrebbe parlato se non avesse temuto di esserne coinvolto. – Comunque non lo vedo da anni e non sapevo nulla di quest’altro bambino.... lo giuro 

Furono interrogati altri testimoni. Non ne venne fuori altro se non delle ipotesi non comprovabili e ulteriori chiacchiere su cui quel popolino di montanari si gettò con famelica curiosità. 

Pietro era affranto; non era riuscito a mantenere la promessa fatta al babbo in punto di morte e sentiva che il nome della sua famiglia ne era rimasto compromesso. Sua moglie non gli fu certo d’aiuto in quel momento difficile anzi, se possibile faceva in modo da allargare la ferita. In quel momento la donna era vinta dalla cattiveria non solo nei confronti del morto che aveva sempre detestato ma anche a causa di suo marito e di Agata: – Quella forestiera... lei non solo fa la signora... ma si è presa anche Pietro... –

Giorgino rimase muto e con gli occhi tristi per molti giorni; guardava le galline ma non le rincorreva più e i legnini non gli interessavano. Stava spesso in collo alla mamma la quale a sua volta, stringendolo forte, ripensava in un assurda e stridente alternanza a quell’ora irripetibile di amore e a quella notte popolata di incubi e di terribili sensi di colpa. 

A volte Agata e Pietro, incontrandosi, si scambiavano sguardi spenti e melanconici, non osando dirsi neppure una parola. Gina, che aveva già capito tutto in quel giorno terribile, capì ancor di più da quegli sguardi muti che non facevano che alimentare il suo odio nei confronti di tutti e due. 

Ai primi di settembre arrivò il signor Leandro. Con un telegramma aveva saputo della convulsa sequenza degli avvenimenti a ritrovamento fatto; aveva risposto che se ne congratulava mandando un bacio al figlioletto ma allo stesso tempo redarguiva la moglie per non averlo sorvegliato bene. 

La sera stessa adempì più volte ai suoi doveri e piaceri coniugali; Agata quella notte pianse in silenzio.

Decisero, poiché la donna stava migliorando di protrarre il soggiorno a Cavarzano per tutto il mese fino alla metà di ottobre, così il commerciante ripartì, non senza di avere intimato alla moglie di fare una più efficace sorveglianza.

Una mattina, era un giovedì della terza settimana di settembre, Giorgino dormiva beato; si era dimenticato ormai di quella strana gita quando Arturo, intuendo che gli amanti si stavano stordendo di passione nella stalla, lo aveva preso con sé e fatto salire sul calessino, facendogli balenare il miraggio della visita al Sasso delle Fate. Si era forse anche dimenticato di quando, arrivati su un prato lontano quell’uomo, sbaciucchiandolo, lo aveva accarezzato dappertutto e aveva cercato di spogliarlo; quando lui, confuso e spaventato, divincolatosi si era messo a correre, e quando lo “zio” Arturo come si faceva chiamare, rincorrendolo, era goffamente inciampato e poi ruzzolato giù per una ripida scarpata e non lo aveva rivisto. 

Si ricordava forse appena di aver vagato tutto il giorno su quei prati, ma senza allontanarsi molto. All’arrivo del buio, ancora singhiozzando si era rincattucciato sotto  i nocciòli dove lo trovò Pio.

 

 – Agata era in vetta a quelle scale di pietra consumata, seduta sul pianerottolo esterno. Il bambino era ancora immerso nelle braccia di Morfeo e lei si guardava intorno. Il bosco, tappezzato di ombre avare non era più così verde e la campagna, illuminata ancora da un forte riverbero, appariva ormai chiazzata di erba gialla e di felci appassite.

Pietro, passando dall’aja con un carico di legna voltò lo sguardo in su e la scorse. Agata impallidì. L’uomo abbandonò le fascine in terra e, dopo un attimo di esitazione balzò su per le scale. Stettero l’uno di fronte all’altro per un bel po’, guardandosi negli occhi: – Abbiamo sofferto abbastanza Pietro... – disse infine Agata. Lei gli prese la mano callosa e lo condusse dentro. Il corpo e il petto di lui ansavano ancora di fatica trasudando afrore di carne e di sudore. In lei, montava forte il senso che bastasse abbandonarsi a quella voluttà per immergersi in una felicità che avrebbe estinto tutti i turbamenti e tutte le colpe.

Giacquero di nuovo insieme, appiccicati ed esausti; ne provarono un senso di tenerezza infinita e di allegria. Risero di un riso silenzioso per non svegliare Giorgino, e senza un motivo preciso. Si dissero di rivedersi ogni giovedì, ma all’addio subentrò un velo di tristezza: – Le settimane che rimangono sono poche Agata... come faremo... – 

Non riuscirono ad arrivare al giovedì successivo. La notte seguente il taglialegna, silenzioso come un gatto, uscì in piena notte per salire quelle scale, sicuro di trovare la porta accostata, e così fece poi anche in molte altre notti. Gina faceva finta di non accorgesene e intanto maturava la sua idea di vendetta. Avrebbe detto tutto al commerciante fiorentino quando fosse venuto a prendere la sua moglie infedele e non prima; non avrebbe voluto perdere neanche una lire della sua buona pigione. In quanto a Pietro, lo disprezzava da tempo.

 

– Arrivò la prima settimana di ottobre e poi la seconda. Quando, attenti a non svegliare Giorgino immerso nel sonno, si separavano dopo l’ora d’amore, era uno strazio. Lui e lei non ridevano più come all’inizio; al contrario non potevano fare a meno di piangere pensando che presto non si sarebbero mai più rivisti. Tre giorni dopo, sarebbe stata la terza domenica di ottobre, ed era stabilito il ritorno a Firenze. Leandro l’aveva comunicato per telegramma.

Era giovedì e Gina, alzandosi, non aveva trovato Pietro a letto. – Non credo che sia ancora con quella troia... sarà andato nella stalla per quel vitellino appena nato. – Così si avviò a piedi in piazza dove il camion per Mercatale stava già aspettando. 

 

 – Ma al ritorno in casa trovò uno strano silenzio; non sentiva né i soliti versi da fanciullo di Giorgino, né avvertiva la presenza di Pietro: chiamò dappertutto, ma non c’era nessuno. E neppure Leandro, tre giorni dopo trovò i suoi famigliari. Il fatto suscitò un grande scandalo e nessuno ne seppe più nulla per molto tempo, sebbene Leandro avesse fatto subito denuncia ai carabinieri per la scomparsa della moglie e del figlioletto. 

Invece Gina non denunciò nessuna scomparsa. Le dispiacque molto per la “calessa” che Pietro evidentemente aveva preso; era una vettura che usavano raramente, adatta ai viaggi più lunghi e l’uomo ci aveva attaccato l’unico cavallo rimasto; il primo, quello preso da Arturo per il calessino non era mai stato ritrovato. 

Raccontano che una donna, mentre riempiva la mezzina alla fonte, proprio all’uscita del paese di Montepiano, sentendo ridere allegramente si fosse voltata per guardare. Stavano scendendo da un grosso calesse, condotto da un uomo robusto e sorridente, una signora con il suo bambino. Notò che dopo essersi dissetati, erano ripartiti alla volta di Castiglion de’ Pepoli. La donna era stata colpita dai volti sereni e gioiosi dei tre viaggiatori; la signora in particolare, una bella signora, era raggiante. 

Qualche anno dopo, un carbonaio di Cavarzano che come tutti i carbonai girava per il mondo per fare il suo lavoro, giurò di aver visto un taglialegna del tutto simile a Pietro tanto da sembrare il suo gemello, in un bosco della Corsica. Raccontava di averlo chiamato ma che il taglialegna, sollevato appena lo sguardo, avesse ripreso l’ascia con ancora maggior lena. 

 

 – fine – 

 

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