NEL BOSCO

IL BOSCO – 1971 –

 – ... se vuoi saper chi son codesti due, la valle onde Bisenzio si dichina, del padre loro Alberto e di lor fue –  (Inferno, canto XXXII)

 NEL BOSCO

 – Rilassato, me ne stavo bocconi proprio al margine del sentiero con i gomiti appoggiati sull’erba ingiallita; Gianni, il maturando dalle sopracciglie fitte e nere sul viso ancora imberbe, stava steso sulla schiena, le mani intrecciate dietro al capo, e guardava fisso in su, verso il cielo terso di nuvole. Sopra di lui s’allungava la Via Lattea che ancora per poche settimane sarebbe stata visibile; non lontano risplendevano Andromeda e Pegaso che, insieme ad altre stelle più fioche stavano sospese come in dormiveglia. Omero e Marco, terminata la sistemazione della loro tenda si erano avvicinati, curiosi, e si erano anch’essi sdraiati sull’erba.

Il pastore, un vecchio sdentato con viso tremulo, stava dicendo delle cose strane; di ritorno con un gruppetto di pecore che si era allontanato si era poi fermato lì, appoggiato ad un lungo bastone. Diceva di abitare a Valibona ma che avrebbe trascorso la notte su quei prati. E, quasi sottovoce aveva aggiunto: – bisogna stare con gli occhi aperti... loro arrivano... – 

– Come dice scusi?... chi loro? – chiesi perplesso, ma il vecchio sembrava non aver capito: – Io a volte non me ne accorgo subito, ma il gregge invece li sente e si sparpaglia dappertutto  aveva continuato con voce bassa.

Le pecore dormivano. Il grigio fondo della notte era attenuato dalla luce debole della luna calante, che faceva trasparire qua e là i profili in ombra di qualche pecora che invece non dormiva; stavano ritte, sulle quattro zampe e, a testa bassa, pensavano. Come ingessate, non si accorgevano né della presenza di estranei, né d’altro. I loro pensieri, lenti, esili, non scaturivano da altre percezioni che di questi prati vasti e del cielo, dei giorni e delle notti. 

Il vecchio che pareva addormentato d’un sonno greve riprese: – A volte invece li sento anch’io... litigano... – Ma che sta dicendo? – mormorò piano Marco, mentre si ravversava i lunghi capelli. – Dice che qua la notte ogni tanto ci sono dei fantasmi che litigano – ... e perché no?, tutti hanno il diritto di litigare. – La battuta di Omero lo fece sorridere. 

– Zitti per favore, fatelo parlare, fatelo parlare. – mi affrettai a dire suscitando il suo solito sarcasmo. 

– ... mamma mia, ma non eri te l’intellettuale? – Il pastore sembrava non sentire: – ... a volte lei piange e lui dice che non l’abbandonerà; poi si sentono dei rumori, come degli spari e urli, urli di donna... – Poi rimase in silenzio, immobile.

Omero sogghignava muto così gli sussurrai: – Perché ridi?... o non ci potrebbe essere qualcosa di vero in certe cose?... te che ne sai? Non è detto che il mondo del soprannaturale non sia anche reale... vuol solo dire che è sopra alla nostra dimensione... – Mah... sarà, credevo che negli anni ‘70 a queste cose non ci credesse più nessuno. Ti ricordi “2001 odissea nello Spazio”, l’abbiamo visto insieme quest’inverno, c’era anche il “bambino”. – disse ammiccando verso Gianni che ancora stava guardando il cielo. Il ragazzo con le sopracciglie fitte e nere sul viso imberbe, si riscosse: – Sarei io il bambino?.. vi ho sentito... e quel film cosa c’entra? – C’entra eccome... si suppone che l’intelligenza di un super computer potrebbe soppiantare l’uomo e noi si pensa ancora alle streghe?... –

 – Partiti nel pomeriggio tardi, Gianni la mattina era stato impegnato con la scuola, ci eravamo fermati per la notte su un vasto prato, vicino alla croce del Monte Maggiore. Avvicinandoci, avevamo ammirato con stupore un branco di cavalli allo stato brado, bellissimi; alcuni correvano a gruppi, altri, solitari, masticavano quasi che la nostra presenza non li dovesse riguardare.

Era la prima tappa del percorso che ci avrebbe condotti a Bocca di Rio. Ci pensavamo da tempo e, subito dopo l’estate lo avevano programmato. Avevamo scelto la fine di ottobre, per il clima e per i colori dell’autunno; era stato Gianni a mettere in rilievo il particolare non trascurabile dei colori. 

Noi quattro eravamo persone abbastanza diverse l’uno dall’altro, per aspetto e per carattere, ma avendo in comune ideali e speranze tipiche di quell’epoca irripetibile che ancor’oggi, a distanza di tanti anni e al netto di tutte le sue distorsioni, rimpiango.

– Ragazzi è quasi mezzanotte, domani ci aspetta una bella sgroppata. – avvertì Marco che passava per quello più avveduto. Lui ne era consapevole avvertendone un vago disagio non volendo apparire allo stesso tempo anche quello più noioso. 

– Peccato... si stava proprio bene qui a guardare le stelle. – Gianni, il più giovane, faceva fatica a tirarsi su, mentre noi tre più vecchi ci avviammo solerti verso le tende, ma ci fermammo subito. 

  io me ne ricordo... nel ‘44 abitavo alla Briglia... qualche fascista all’inizio s’impaurì. Arturo non era proprio fascista e non scappò per la paura... lo vogliono dire, ma non è vero... – Il pastore aveva ripreso a parlare con quella voce tremolante, e pareva che parlasse più con se stesso che con noi. 

– Pastore, di chi parli?  – ... per amore voleva scappare nei boschi con la Marisa, la figliola di un partigiano comunista... e qui invece litigarono... ma poi furono ammazzati. Ogni tanto litigano ancora sapete... e le pecore li sentono, e anch’io li sento – Il vecchio a quel punto, appuntando lo sguardo nel vuoto si zittì, indifferente della nostra attonita espressione. 

 

 – Al mattino dopo nessuno di noi entrò nell’argomento. Era molto presto, i boschi mostravano ancora una specie di tremore notturno e ci eravamo incamminati di buon passo. C’erano stormi d’uccelli, forse merli o storni che volavano sopra di noi come mossi da un’energia comune, ma solo dalla cima di un albero all’altra. Davano l’impressione di cominciare a radunarsi in masse chiassose, in preparazione del gran volo verso sud.

Il crinale era diviso come in due, verso il Mugello coperto di scarna vegetazione e verso la Val di Bisenzio rimboschito da tempo di una lunga striscia di abetaie; dalla stessa parte scendevano faggete orlate di felci e prati, mentre in lontananza verso oriente massicci monti chiudevano l’orizzonte.

Via via che il sole si alzava il bosco, tappezzato in prevalenza d’ombre avare, cominciava a chiazzarsi di liquidità luminose come scaturite dal suolo, mentre la piana del Mugello appariva vasta e chiara di luce radente. Alla fine delle abetaie, il sentiero entrava scendendo in un forteto di quercioli per poi risalire quasi subito verso “Aja Padre”.

– Come mai si chiama “Aja Padre” questo posto? – La curiosità di Gianni, che teneva la cartina del CAI in mano, ruppe lo strano silenzio che, dalla partenza non si era ancora interrotto. – Boh, io non lo so. – rispose Marco che era il più esperto in fatto di sentieri e montagne. 

– Chi sa che storia c’è per questo nome. – osservai, – ... certo ce ne sono di cose strane a questo  mondo. – Già, come quella di ieri sera. Per me quello, poverino, era fuori come i terrazzi. – fece Omero riducchiando.

– Io invece ne sono rimasto colpito... – sussurrai. – Non ci credo ai fantasmi... cioè nella maniera come ce li propongono i film, con un lenzuolo in capo e i buchi per gli occhi, però... – Gianni annuì; lui era sempre pronto a prendere in considerazione l’inconosciuto.

Marco che, a dispetto della sua apparenza sessantottina era quello più convinto degli insegnamenti del nostro mentore, fece una smorfia: – Stiamo attenti a credere a queste cose... con tutto il rispetto per quel vecchio, anche padre Carlo, come la Chiesa, ammonisce a non andare dietro a certe superstizioni. – E quei ricordi alla fine? Quelli erano in carne ed ossa... –  interloquii. – ... e che c’entra con tutto il resto? Può darsi che quello sia un fatto vero... anche se ne dubito fortemente. – intervenne Omero. 

– Può essere che quel fatto violento e allo stesso tempo romantico, se fosse vero, lo abbia suggestionato a tal punto... – Marco ci teneva a che si trovasse un punto di sintesi nelle discussioni. 

 

 – Nel pomeriggio il tempo cambiò velocemente; spirando una brezza forte che non prometteva niente di buono le cime degli alberi iniziarono ad ondeggiare. Dopo un po’ il ventolino si trasformò in improvvisi e forti fiati di vento; ricordo che mi sentivo sferzare sulla faccia. Ripensavo a quella discussione e, mi pareva, fosse proprio quel vento a presentarmi quei pensieri, recandomeli dai boschi e dai prati. Nel cielo intanto stavano avanzando nuvole buie come la notte e dopo gli spruzzi iniziali arrivò infine la pioggia vera. – Corriamo, ormai siamo a Montecuccoli; un riparo lo troveremo. –

Completamente fradici, a niente erano valse le mantelle cerate di cui eravamo provvisti, fummo ospitati in un fienile che ci apparve davvero provvidenziale. Indossati i ricambi e frizionati i capelli subentrò in tutti noi una sorta di eccitazione allegra. L’odore denso del fieno tagliato, gli afrori della stalla sottostante, i muggiti delle mucche e i versi delle capre, tutto pareva divertirci, tutti quanti non avvezzi alle avversità della natura e tantomeno alla vita contadina. 

Alle cinque e mezzo il sole era già tramontato e l’aria si era fatta fredda. Attirato dal tepore che emanavano gli animali della stalla scesi anch’io con Gianni a curiosare. Il ragazzo, che amava fare delle belle foto, senza affatto volere fece innervosire i due cavalli con il flash della sua rolex. 

– Giovanotti, i cavalli non li devete spaventare. – Il contadino, richiamato dai nitriti era venuto a vedere che cosa stava succedendo e anche gli altri due amici erano accorsi giù. Angiolino era un buon uomo; rimasto vedovo con tre figlioli ancora piccoli, faceva loro da babbo e da mamma. 

– Mi scusi davvero, non lo avevo disattivato. – si era subito dolso Gianni. – Li adopero per raccogliere la legna nel bosco, ma non sono nati per portare il carro... si spaventano per nulla. A volte la notte scalciano e nistriscono e io devo alzarmi per calmarli... – Li accarezzò sulla criniera e poi vi si accostò con il viso; erano stati bei cavalli da trotto allevati per le corse, ma senza avere avuto troppa fortuna. – C’è chi dice che sentono i bambini della Rocca. – proseguì sorridendo. – Cioè... chi sono i bambini, che bambini? – fece lo stesso Gianni, ancora con l’arma del delitto in mano. – ... macchè, non ci fate caso, è una storia che ci raccontano le persone anziane, una leggenda vecchia di... secoli, sì di secoli, a quanto pare. – 

In quel momento entrò una persona alta e canuta che, nonostante l’età considerevole, camminava diritta come un fuso. – Ah, eccolo qui il mio babbo... diglielo te babbo. Vogliono sapere dei bambini della Rocca Cerbaia... ma è vero o no? –

Il vecchio non rispose ma fece un cenno cordiale come ad invitarci ad entrare attraverso la porta comunicante, nella casa colonica. Seduti intorno al fuoco di un grande camino, dai lati del quale ciondolavano trecce d’agli e cipolle c’erano due dei figlioli del contadino; due ragazzotti dall’aria vispa che si accucciarono subito accanto al nonno. – Naturalmente è una leggenda, è una cosa da ignoranti, come siamo noi contadini; eppure c’è chi giura che sia tutto vero. – esordì il vecchio con voce bassa ma che faceva supporre, dal timbro, fosse stata una volta voce stentorea. 

Spiegò che molto tempo fa, vicino alle fondamenta della Rocca di Cerbaia, il castello dei conti Alberti costruito su un’altura da cui quei signori controllavano tutta la valle, e non lontana da Montecuccoli, fossero state trovate dai pastori della zona, alcune conformazioni del terreno che parevano di piccole tombe, tombe di bambini: – La sapete no, la storia dei conti Alberti? Siete tutti studenti, lo vedo dalle mani. – disse sorridendo. Poi aggiunse: – ... e cè chi giura di sentire ogni tanto delle voci... ma voci di bambini, sembra che scherzino tra di loro... sempre che sia vero... – 

Fece una pausa, mentre aspirava profondamente il suo toscano: – Io ne dubito, però il mio vecchio che nacque, diceva lui, quando Garibaldi e il re si misero d’accordo, ne era sicuro. –

A quel punto intorno al camino fu fatto girare e mescere più volte del buon vino. 

– ... se vuoi saper chi son codesti due, la valle onde Bisenzio si dichina, del padre loro Alberto e di lor fue. – fece a quel punto Gianni, come ispirato forse da quel racconto. Tutti si misero a ridere. – Vien fuori la cultura... guardate che mani lisce ha... – lo sfotterono gli amici. 

Più o meno arzilli e di buon umore stavamo tornando su al fienile quando Omero, che non era abituato per nulla a pasteggiare con il vino, si mise a ridere sguaiato: – siete dei vigliacchi e vi siete messi d’accordo con i contadini... dite la verità... mi state prendendo per il culo... siete tutti d’accordo. – 

Noi ci ridemmo su: – ... è vero, è vero, è stato Gianni... no è stato Marco... stanotte stai attento ai bambini... – Infine Omero, dopo avere reiterato più volte l’accusa di complotto ma con voce sempre più flebile, entrò nel sacco a pelo e si addormentò come un sasso.

 

– Al mattino dopo, freschi e riposati, dopo aver salutato con trasporto i buoni abitanti di quella casa colonica, ripartimmo. Il temporale della sera avanti aveva lasciato il posto ad una bella giornata di sole autunnale. Tutto intorno era una festa di colori caldi e variopinti, dal giallo ai rossi, dai marroni al ruggine e Gianni che faceva il Buzzi per diventare tecnico tessile era entusiasta di ammirarli e di fotografarli. Ogni tanto qualcuno tirava fuori una battuta sulla clamorosa sbornia di Omero, oppure faceva qualche allusione spiritosa ai futuri fantasmi che avremmo potuto incontrare da lì a Bocca di Rio. 

Superato il passo della Crocetta, senza fretta, ci accingemmo ad attraversare una vasta foresta di abeti che, come da cartina dei sentieri, si estendeva per chilometri fino alla strada che conduce a Bocca di Rio. Ad un certo punto, dopo qualche ora di cammino sbagliammo sentiero e quando ce ne accorgemmo era troppo tardi per tornare indietro, ma la cosa sul momento fu presa da tutti in modo sportivo. Era pomeriggio inoltrato e le ombre si erano già fatte lunghe; proseguendo saremmo arrivati al santuario con il buio così decidemmo di piantare le tende in una piccola radura piuttosto buia e coperta da lunghi rami soprastanti, in mezzo a fitti e alti fusti di abete.

Stranamente le battute e i lazzi che avevano accompagnato il nostro cammino fino a quel momento cominciarono a diminuire. Mentre il buio diventava sempre più denso mangiammo qualcosa davanti alle due tende, ma come assorti e di malavoglia. A Marco non venne neppure in mente di tirar fuori l’armonica a bocca, come faceva di solito. 

Dopo appena mezz’ora, a malapena qualche timido raggio di luna calante poteva filtrare tra le alte fronde degli abeti. I nostri occhi tuttavia si stavano abituando all’oscurità nella quale quella debolissima luce azzurrina era solo sufficiente a distinguere le tante forme del bosco.

Tutti senza dirselo, ci mettemmo in ascolto di ciò che si muoveva in ognuno di noi; un misto di timore e un vago stato di allerta. Nel silenzio quasi mai interrotto dalle nostre parche parole auscultavamo i più minuti fruscii. Tutto, dal movimento di un topo notturno o di uno scoiattolo fino a certi scricchiolii più sospetti ci faceva sobbalzare un po’; così mi pareva, perché non ci potevamo vedere in viso. 

Rammento che almeno in me, nella mia parte più razionale, conviveva un’ambigua sensazione di piacere, il piacere di sfidare certe paure che, fin da bambino mi sono sempre portato dietro. D’altra parte percepivo, ed ero convinto che anche Gianni in quel momento godesse di tale opportunità, la bellezza nell’essere immersi nella magìa della natura notturna, apparentemente incontaminata.

Così ad un certo punto con la più studiata nonchalance mormorai: – oh, che ci facciamo qui?... andiamo a fare due passi qui intorno. – Presi la torcia elettrica e mossi qualche passo. 

– ... ma... dove vai Luciano, che ti prende? – Marco ed Omero mi guardarono meravigliati, a giudicare almeno dalle espressioni. – Perché, che c’è?... due passi... andiamo... qui vicino. Omero, ma non la senti la poesia del bosco?... sul serio... – aggiunsi cambiando tono di voce, – ... non lontano dovrebbe scorrere un ruscello; io ho finito l’acqua della borraccia. – Marco confermò; sulla carta del Cai era segnato un piccolo corso d’acqua. Gianni mi seguì subito, anche gli altri, titubanti infine si mossero.

– Lo sapete, no, che molte delle antiche leggende su strane presenze nascono proprio all'interno dei boschi durante la notte... – feci a voce bassa ad un certo punto. – Abbozzala, sennò ti tiro un cazzotto. – La risposta pronta di Omero suscitò una leggera ilarità, ma poi tornò subito il silenzio. 

Camminavamo lungo un sentiero non segnato da diversi minuti ma del ruscello non vi era traccia. 

Dai, forse  manca poco, andiamo. – insistevo, ma alla fine mi arresi: – Ha piovuto poco, a parte la sfuriata di ieri sera e forse non l’abbiamo visto con il letto essiccato. – cercai di giustificarmi. 

Decidemmo allora di tornare indietro. Non mi sentii più di fare battute sciocche e l’atmosfera era quella; i lontani rumori nel buio, certi lievi schiocchi secchi che non fossero causati dai nostri passi, ci facevano trasalire.

Dopo alcuni minuti, più di dieci, Omero disse che forse avevamo sbagliato strada: – Non ci abbiamo messo così tanto all’andata. – Hai ragione... torniamo indietro e poi prendiamo a destra, forse abbiamo sbagliato lì. – suggerì Marco che aveva la carta in mano. Camminammo ancora per venti minuti alla fioca luce delle torce elettriche che cercavamo di centellinare, ma del nostro bivacco, niente. Provammo altre direzioni per ancora quasi un’ora mentre dentro di noi serpeggiavano malumori e paure che fuoriscivano ogni tanto solo attraverso qualche moderata imprecazione, e si stava affacciando concreta la prospettiva di dormire all’addiaccio, sotto un albero, sulla nuda terra. A me, ricordo, mancava il fiato, non per la fatica, ma per l’ansia e per il senso di colpa che provavo a causa della mia improvvida iniziativa. 

Ognuno di noi pur senza mettersi d’accordo, dai margini dei sentieri e nonostante il buio, era riuscito a raccattare un bastone o un ramo secco consistente. Giorni dopo ad avventura finita, avemmo modo di considerare quel gesto come un moto ancestrale e spontaneo, una reazione del nostro cervello che arrivava dai primordi della preistoria umana; per una difesa, all’occorrenza, da un nemico nascosto nel buio, come poteva essere un cinghiale, o un lupo, o peggio ancora un uomo malvagio, “homo homini lupus”.

Alla fine trovammo, tra i tanti abeti, un’enorme quercia; non cambiava molto, ma il posto ci sembrò più rassicurante e anche il terreno, cosparso di foglie gialle pareva più morbido. La scomodità assoluta e il freddo umido, tuttavia sarebbero state cose ben sopportabili a confronto con quello che la sorte ci avrebbe riservato più tardi.

 

 – Ancora nel cuore della notte, ritengo che nessuno di noi fosse veramente riuscito ad addormendarsi, improvvisamente si levò il vento. La foresta si animò, frusciando e come gemendo per la sveglia precoce; i rami, mossi da quel vento parevano grandi braccia che volessero dirci qualcosa senza riuscire a farlo. D’un tratto io, che sentivo un gran freddo, e che mi ero messo a sedere appoggiato al tronco della quercia abbracciandomi il petto e le spalle, levai un grido sia pur soffocato. Non avrei voluto farlo ma non riuscii a trattenermi; in lontananza avevo intravisto come delle fiaccole. Gli altri, al grido si alzarono e le videro anche loro. Come se non bastasse, nello stesso istante sentimmo un ululato lontano. Quelle fiaccole oscillavano svelte mosse dal vento; parevano spengersi per poi riprendersi e si muovevano. 

– Vengono da questa parte... – disse Omero che pareva quasi terrorizzato. Raccattammo le nostre cose compreso i bastoni e ci allontanammo nella direzione opposta. La fiaccolata che era di uno strano corteo di almeno dieci persone, si fermò proprio sotto a quella quercia. Noi avevamo raggiunto, abbastanza distante, un terrapieno alberato da cui, con difficoltà per la fitta vegetazione, li potevamo osservare. – Andiamo via di qui, andiamo via... che ci facciamo... se quelli ci vedono... – Omero era scosso da un un impercettibile tremore e anche la sua voce sussurrata tremolava. 

– Stiamo fermi qui, e immobili... è peggio se ci agitiamo. – si raccomandò invece Marco bisbigliando mentre Gianni da subito non levò gli occhi da quella scena. Stemmo davvero immobili per tutto il tempo, quasi trattenendo il respiro. 

Capimmo subito si trattasse di un rito satanico. Una di quelle figure, toltosi mantello e cappuccio si rivelò essere una giovane donna e completamente nuda, sul cui addome, una volta stesa su una portantina, venne celebrato quel rito come fosse lei stessa l’altare. Alcuni indossavano drappi e paramenti neri somiglianti ad abiti sacerdotali, mentre il celebrante leggeva qualcosa da un grosso libro posto su un leggìo davanti al quale, ben evidente, era stata posta una croce rovesciata. Legata ad un albero vedemmo perfino una capra che ogni tanto si faceva sentire.

Non si potevano vedere certi particolari, né si distinguevano le formule probabilmente in latino, pur dette ad alta voce. Solo alla fine del rito si capirono, essendo state proclamate da tutti in una unica voce, certe parole che inneggiavano a Satana. 

Ben presto la capretta che mansueta, non aveva smesso di belare debolmente, quasi fosse un pianto di bambino, fu sgozzata e il suo sangue fu in parte versato in un nero calice, in parte versato sul ventre della donna. A quel punto Omero che osservava con riluttanza quasi con la coda dell’occhio, iniziò a vomitare facendo un certo involontario rumore, provvidenzialmente coperto in quel momento da uno di quegli inni.

Infine la donna, quasi a significare l’offerta al principe delle tenebre, dopo aver bevuto dallo stesso calice dove aveva bevuto il celebrante, fu penetrata con violenza da alcuni tra i partecipanti.  Dopodichè il macabro corteo, con soltanto una fiaccola accesa, prese in silenzio la strada del ritorno.

Aspettammo ancora immobili per qualche minuto, fino a che quella fiaccola scomparve dalla vista.

A quel punto tirammo un grande sospiro di sollievo e anche il vento era cessato. 

– Mamma mia che roba... avete visto... è una cosa schifosa... non credevo che fossero vere quelle storie... allora le fanno davvero le messe nere... – furono i commenti quando ci sentimmo di poter parlare sia pure a bassa voce. Solo Omero non fece nessun commento. Decidemmo comunque di aspettare l’alba dove ci trovavamo in quel momento. 

L’alba arrivò; la luce che avvolgeva le sommità degli alberi sciogliendone pian piano le caligini residue, scendeva in soffi lievi. Dopo quella notte orribile, la foresta che trasudava leggera la freschezza del mattino da ogni ramo, comunicava un limpido benessere.

E con il primo timido sole, nonostante la notte insonne riacquistammo un po’ di lucidità e con essa ci fu facile ritrovare la radura con le tende e gli zaini. Mentre di buon appetito mangiavamo le nostre riserve di cibo, la stessa assonnolita lucidità consentì a Marco, per primo, di fare un’incredibile scoperta; i capelli corvini di Omero erano diventati completamente bianchi. Pur sbigottito non disse nulla e fece capire a noi, a cenni, di fare altrettanto.

Anche io e Gianni, altrettanto stupiti, capimmo senza parlarci che sarebbe stato opportuno per Omero, ritardare quella scoperta. Lo studente di ingegneria era ancora in stato confusionale, ombroso, di cattivo umore. Riprendemmo allora il cammino fino a ritrovare, dopo un’ora, il bivio sbagliato nel pomeriggio precedente e dopo ancora due ore arrivammo sfiniti, sporchi e sudaticci al santuario Santa Maria delle Grazie.

Nel chiostro illuminato ormai da un bel sole autunnale c’era padre Carlo che, fortemente in pensiero, era lì ad aspettarci: – Ma che cosa vi è successo? dovevate arrivare ieri pomeriggio... che vi è capitato? – 

Poi gli occhi gli si posarono su quello che una volta era il caschetto alla Beatles di Omero. – Omero, che hai fatto ai capelli?, perché sono bianchi cosi? – Oramai era fatta; non era stato possibile avvertirlo. – Perché? cos’hanno i miei capelli?.. bianchi?, che vuol dire? –

Corse subito al bagno e si vide allo specchio; rimase di sasso. Prima se la prese con noi tre che non l’avevamo avvertito poi si rifugiò di nuovo in un prolungato mutismo. Quel giorno era lunedì Primo Novembre, il giorno di “Tutti i Santi”. Nel programma iniziale, stabilito con i ragazzi di “Gioventù Domenicana” dovevamo ritrovarci a Bocca di Rio il pomeriggio della domenica per stare insieme anche il giorno seguente. Gli altri che in quel momento erano alla Messa, erano convenuti con le macchine, solo noi dovevamo arrivare a piedi attraversdo i monti.

Padre Carlo ci convinse però a salire in macchina. Ci avrebbe riportato subito a Prato dicendo che fosse la cosa giusta da fare; lui sarebbe ritornato indietro e più tardi avrebbe salutato gli amici per noi.

Durante la strada gli raccontammo, un po’ confusamente, sia i nostri primi incontri che l’avvenimento della nottata appena trascorsa. Riguardo ai primi due strani incontri si limitò a sorridere, non dando loro molta importanza. Invece lo studioso e teologo domenicano volle sapere qualcosa di più del rito satanico. Dalla nostra descrizione lui dubitò si trattasse della messa nera detta “moderna”, la cui forma più comune sembra chiamata “Congiura della lussuria”. Ma non ne sapeva molto di più; ci consigliò di non pensarci e di pregare lo Spirito Santo per cancellare dalla memoria dell’anima ogni traccia di quella brutta esperienza. 

Ma per Omero non andò così: per lui quel trauma psicologico, i cui effetti tutte le mattine alimentava guardandosi allo specchio,  gli rimase addosso per molto tempo come una brutta ferita che non voleva rimarginare. Anche oggi, dopo cinquant’anni, l’ingegnere nucleare laureato con fatica al Sant’Anna di Pisa l’anno successivo a quei fatti, si porta ancora l’ombra lontana di quel terrore irrazionale, lui che della razionalità e della scienza aveva fatto e fa ancora la sua ragione di vita. 

 

 – Recentemente sulla Nazione è comparsa una notizia sorprendente; la campagna di scavo alla Rocca di Cerbaia, monumento simbolo della Val di Bisenzio, ha rivelato l’esistenza di una necropoli medievale composta da sette sepolture di bambini. Il fatto ha avuto un certo risalto, il che fa supporre che in precedenza nessuno sapesse di quelle piccole tombe. Nessuno, ho pensato, salvo il contadino che, tanti anni fa, ospitò nel fienile i quattro studenti fradici di pioggia, e salvo il suo babbo e il babbo del suo babbo. Chissà se i tre figlioli di Angiolino hanno ancora memoria dei racconti del loro nonno ascoltati intorno a quel camino acceso, e chissà se qualcuno, su quei monti, tuttora sente ogni tanto delle voci: – ... ma voci di bambini, sembra che scherzino tra di loro... sempre che sia vero... – come ci disse quella sera di fine ottobre il vecchio, tra il serio e il faceto.

La storia dei due amanti invisibili che discutono drammaticamente sui prati del Monte Maggiore invece non l’ho mai dimenticata; era come l’avessi riposta in un cassetto sapendo che c’era. 

Tutti conoscono la vicenda ormai storica del valoroso comandante Lanciotto Ballerini e la sua squadra, i Lupi Neri i quali, all’alba del 3 gennaio del ’44 sostennero un duro e sanguinoso conflitto a fuoco contro i fascisti. La battaglia di Valibona, un paese di poche case racchiuso tra i monti della Calvana, fu terribile. Lanciotto e molti dei suoi partigiani persero la vita; quell’eroica resistenza contro avverari molto più numerosi è diventata leggenda fino a assumerne, secondo me, dimensione di narrazione fin troppo retorica.

Allora come in seguito, quando con gli amici ne abbiamo riparlato, è stato facile considerare gli sproloqui del pastore, in quella notte di venerdì 29 ottobre 1971, come un onirico riflesso del fatto realmente accaduto a meno di un chilometro di distanza nel paese di Valibona, condito di spari, urli, uccisioni.

Poi, un giorno, alla proiezione di un film che raccontava la storia di Lanciotto e dei Lupi Neri, conobbi Ida, una signora ottantenne che si era seduta accanto a me. A metà della proiezione si accostò al mio orecchio: – Sa... io sono figliola di partigiano... ma nel film non c’è proprio tutto. – Ah sì?... come mai, perché dice così? – In quella notte morì anche la mia sorella Adele... e anche Adelmo.– 

Ida si ricompose e seguì ancora il film per alcuni minuti, ma ormai si sentiva di raccontare ancora qualcosa:  – Lui non era fascista convinto, in casa sua sì, erano fascisti... quando all’inizio i camerati impauriti dalla forte reazione si sparpagliarono in fuga, Adelmo ne approfittò e corse via sul monte. – Cioè dove corse? –  Eh... aveva fissato con l’Adele di riunirsi in vetta alla croce... volevano scappare insieme e andare a Calenzano attraverso i boschi...  e poi chissà dove... povera Adele. – 

Le persone intorno a noi mormoravano seccati per il parlottare della signora, sicché lei si zittì, ma finito il film, mi spiegò ancora che lui fu seguito fino in vetta al Monte Maggiore forse da qualcuno che sapeva il quale, con una scarica di mitraglia falciò i due innamorati. Il babbo delle due sorelle il giorno dopo, nonostante fosse stato contrario alla loro relazione, andò a raccogliere i due poveri corpi che furono sepolti l’uno accanto all’altro. 

Al termine del racconto la signora aveva gli occhi pieni di lacrime: – Le volevo bene a mia sorella... comunque grazie di avermi ascoltata... ma lei chi è? – Rimanemmo in contatto e ci vedemmo altre volte, ma anche successivamente e chiedendo con molto tatto, non riuscii mai a sapere da lei, casomai fosse davvero esistito, quale fosse tra loro il motivo che li avrebbe fatti disperare. 

– ... a volte lei piange e lui dice che non l’abbandonerà. – Il significato delle vaghe parole del pastore che facevano pensare a chissà quale ostacolo si fosse posto sulla strada dei novelli Giulietta e Romeo, rimarrà per sempre un mistero, come rimane tuttora un mistero come quel vecchio sdentato con il viso tremulo  potesse, se davvero poteva, sentire quei sussurri notturni.

 

 – Ripensando a quel giorno di mezzo secolo fa quando ripetutamente sbagliammo la direzione da prendere, a me sembra che il bosco con i suoi meandri possa considerarsi metafora delle scelte che si fanno quotidianamente. Ci saranno sempre due sentieri, di fronte ai quali ci troveremo a decidere quale sia la direzione giusta. D’altra parte, come accadde anche a noi in quell’esperienza, dagli sbagli si può imparare, tornare indietro e ricominciare daccapo.

Il bosco o foresta che dir si voglia a me è parso e ancora mi appare scuola di vita; il bosco ci guarda dentro, ci fa vedere aspetti che non avevamo considerato, ci porta a conoscere territori inesplorati del proprio carattere. Può metterci in condizione di ricordarci di chi siamo, di cose che abbiamo sepolto, delle paure che avevamo rimosso. Infine può essere luogo di raccoglimento, di silenzio, di contatto con la natura primigenia e rigenerativa, una natura meravigliosa fatta di esseri viventi e di migliaia di piante e di alberi, simboli e largitori della linfa vitale dell'universo, una realtà che rimandi alla Fonte creatrice di tanta meraviglia .

 

– fine –

 

 

 

 

 


 

 



 

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