IL POSTINO ROBERTO – racconto –

IL POSTINO ROBERTO – racconto –

 IL POSTINO

– Roberto, mani in tasca, camminava stanco verso casa. “Gli giravano” e non sapeva il perché, anzi lo sapeva ma avrebbe voluto non saperlo. Soprattutto nei giorni di festa era annoiato della sua vita scialba e anche se il Prato avesse vinto, sarebbe cambiato ben poco. Non sapendo cosa fare, quella domenica pomeriggio era andato alla partita. I bianco azzurri non davano tanta soddisfazione e al “Lungo Bisenzio” gli spalti erano mezzi vuoti, ma almeno lì c’era un po’ di gente che urlava, si eccitava, oppure gemeva e inveiva. Forse, senza rendersene conto, si illudeva di trarre un po’ di vita dalle passioni altrui.

Mescolato allo sciame deluso dei tifosi, era uscito dallo stadio sentendosi ancora più vuoto. Quei pochi raggi di sole che svogliati, filtravano ancora dalle nuvole sfilacciate da un vento leggero, parevano accentuare la sua solitudine e la tristezza di una giornata uggiosa. Il soffio di tramontana di fine novembre, frusciando tra i platani di via Firenze faceva adagiare le larghe foglie color ruggine ai bordi della strada e sulla ciclabile, intorno alle quali cominciavano a prendere posto le prime, esotiche, trans brasiliane.

Camminando prese più volte a pedate un barattolo vuoto, come se quel gesto l’aiutasse ad allontanare la malinconia. Incrociò una di quelle particolari creature che gli rammentavano sempre certi film di Fellini e gli venne un lampo: – Perché la gente va con queste brasiliane... cosa ci troveranno? – Si chiese se per caso non potessero dare un briciolo di vita anche a lui. Ma tirò diritto.

Roberto era un quarantottenne tarchiato e con pochi capelli la cui vita, prima di conoscere Krystyna, era stata piuttosto piatta.

Il suo babbo, facendo un notevole sforzo economico, aveva voluto che studiasse ragioneria all'istituto Dagomari; poi era riuscito attraverso una conoscenza a “metterlo alle Poste”.

A parte la sua passione per la montagna, in special modo per gli aspri sentieri di calcare bianco della Calvana che percorreva quasi sempre in solitaria, nella sua vita non aveva fatto cose molto rilevanti.

Tra le cose più speciali, prima dell'arrivo della badante polacca, poteva annoverare la sua saltuaria ma quasi malinconica frequentazione di una prostituta, una procace rumena – … una di quelle vere... – sussurrò incrociando un altro trans che conosceva, una figura che non passava inosservata.

Marisa, spalle larghe ed ambigui e prorompenti seni, una volta con la sua voce profonda gli aveva chiesto da accendere. Da allora si scambiavano qualche parola e si salutavano.

Gli si affacciò un sorriso amaro pensando che, a parte le spalle più minute, la postura e il profilo pettoruto di Marisa, in penombra, gli ricordavano Krystyna. Al ricordo di lei gli venne un tuffo al cuore, – lei sì che era una vera donna... –

La badante, una trentacinquenne bionda sbiadita ma alta e ben piantata per cui provava qualcosa che somigliava all'affetto, per nove anni gli aveva riscaldato il cuore e riempito la vita. Krystyna era una donna forte e indipendente, che sapeva con un certo grado di bonaria ironia, dissimulare se stessa e la sua vera natura. Comunque aveva fatto rinascere Roberto, regalandogli un po' di leggerezza e una nuova gioia di vivere.

Si vedevano due volte la settimana nel suo appartamento alle “case Fanfani” ereditato dai genitori quasi in fondo al “chilometro lanciato”. Per quattro, cinque volte, negli intervalli tra la morte dell’anziano che accudiva e il nuovo lavoro da badante Krystyna era rimasta in casa di lui per periodi variabili. Fino a che, tornata a casa durante l’ultimo Natale, come faceva sempre almeno una volta l’anno, non aveva più fatto ritorno. Ne sentiva la mancanza in modo molto acuto e lei non aveva mai risposto al numero di telefono usato in altre occasioni. Le aveva anche scritto ad un certo indirizzo di cui non era proprio certo fosse il suo, senza averne risposta.

 

– Roberto era postino; gli passavano tra le mani centinaia di lettere e cartoline postali, recapitava per gli altri speranze, notizie e sogni, ma quella che avrebbe tanto desiderato per sé non arrivava mai.

Lavorando alle poste stava bene e non gli mancava nulla a parte quella recriminazione. Si sarebbe potuto permettere anche di sposare la sua polacca e un giorno glielo aveva fatto capire, ricevendone però in cambio deludenti e vaghe parole.

Perché mi avrà fatto questo? – pensava spesso disilluso e dolente. Dubitando in cuor suo, dopo un paio di mesi di ricerche, che lei potesse essere stata impedita nel farsi viva. Qualche dubbio intessuto di gelosia ce l’aveva sempre avuto; ogni tanto in passato si meravigliava di certe sue lunghe e costose telefonate fatte dalla casa di viale Borgo Valsugana, di cui naturalmente non capiva un’acca. Lei sbottava in una sonora risata e lo rassicurava dicendogli si trattasse di famigliari.

Il suo lavoro che consisteva nel portare la posta a privati e imprese nella zona di Grignano e alle Badie, un po’ di soddisfazione glielo dava ancora. Là in quelle strade lo conoscevano tutti e tutti sapevano che faccia avesse. Anche Roberto d’altronde conosceva quasi ogni abitante, registrava nella sua memoria volti, oggetti, odori, sapeva delle digrazie, intuiva quando nelle famiglie vi entrava invece uno stato improvviso di felicità.

Nei primi anni aveva sempre percorso quella zona con la sua bicicletta nera tenuta sempre in ordine come una reliquia, da qualche tempo sostituita, non senza un po’ di rammarico, con un più comodo scooter. E fino a qualche mese prima, quando, al citofono sentiva domandare: – chi è? – lui dispiegava volentieri la sua voce da baritono, quasi cantando: – Postaaa ! –

Ma l’assenza ormai da mesi di Krystyna lo aveva reso più cupo e più afono, al modo di un gallo intristito che per salutare il sole avesse cessato di fare a distesa il suo usuale richiamo.

 

– Fino a che, in un giorno rigido d’inverno gli capitò tra le mani infreddolite una lettera aperta. Non era la prima volta che trovava una lettera chiusa male e quasi aperta, ma questa era proprio aperta, probabilmente frutto di dimenticanza; e profumava leggermente, gli pareva, di gelsomino, lo stesso profumo preferito da Krystyna. Quel particolare, unito al fatto che la calligrafia dell’indirizzo, senza dubbio femminile e caratterizzata da qualche ghirigoro, fosse particolarmente sensuale, lo colpì.

Allora il postino, meravigliando se stesso, decise di fare una cosa che non aveva mai fatto. Si fermò poco dopo nei pressi di un boschetto di basse querce che costeggiava un’ampia curva, in un punto lontano dalle case; si guardò attorno, estrasse la lettera dalla busta. Disse a se stesso che le avrebbe dato solo un’occhiata.

Caro amore, mio unico bene, non riesco a descrivere il desiderio che ho di abbracciarti e di accarezzarti; è così intenso che mi sento quasi male e il cuore mi batte forte... – erano le prime parole; non si aspettava qualcosa di simile e si emozionò. Guardò in alto un gruppo di storni che saltellavano sopra quegli alberi senza proseguire nella lettura. Pensò in un baleno che avrebbe dovuto finire di leggerla con comodo, così mise quella lettera nella tasca posteriore dei pantaloni.

Durante il resto del suo turno non fece che toccarsi la tasca e pensare a quella lettera che profumava di passione e di gelsomino. A tratti si sentiva in colpa ma allo stesso tempo quei brividi che gli correvano sulla pelle gli ricordavano certe attese desiderate; quelle dei giovedì e delle domeniche, nei pomeriggi liberi di Krystyna che adesso gli mancavano tanto, nonostante tutto.

Finito finalmente il suo turno seppure in ritardo, infreddolito come non mai, arrivò a casa.

Quel mese di gennaio del 1999 era particolarmente gelido e secco; la sua era una casa fredda piena di spifferi così, appena chiusa la porta, non trovò di meglio che infilare a letto così com’era con i pantaloni e la spessa maglia. Ancora con le mani in tasca stette, per un bel po’, a crogiolarsi sotto il pesante coltrone, poi sfilò da dietro ciò che era motivo della sua eccitazione, ma non l’aprì. Aveva le mani rigide che tenne insieme alla lettera sotto il maglione. Mentre gli sembrava di risentire quel delicato profumo il tepore lo fece addormentare.

Un sonno breve di una decina di minuti durante i quali fece un sogno leggero. Gli sembrò di rivedere la sua ragazzona polacca che, meditabonda sopra al foglio ancora intonso, guardava in sù con la penna biro in bocca, e pensava alle parole d’amore che avrebbe scritto al suo Roberto.

Allora, ancora vagamente consolato dal sogno, ma subito dopo deluso dalla realtà, si svegliò, si sollevò sul cuscino e finalmente estrasse di nuovo la lettera: – ... sapessi che pena, amore, lo strazio che provo. Mario muove appena la testa, ma i suoi occhi parlano. A volte pare che mi rimprovino di essere lì al capezzale, altre volte invece pare che mi supplichino... caro, ti amo in un modo che non credevo fosse possibile; vorrei essere tra le tue braccia, ma non riesco a lasciare il mio disgraziato marito nonostante il male che mi ha fatto in passato; non potrei più guardarmi allo specchio... –

La lettera proseguiva descrivendo le condizioni attuali di quell’uomo che peggioravano ogni giorno di più. L’ictus lo aveva ridotto ad una vita quasi vegetale ma, come disperato, capiva tutto senza riuscire ad esprimersi.

Roberto levò gli occhi dal foglio e li volse al soffitto. Cercava di immaginarsi la vicenda. Dopo le prime frasi bellissime lette sotto quegli alberi spogli di quercia, aveva immaginato una storia di passione amorosa, leggera, che lo avrebbe fatto sognare.

Invece si trattava di un amore lontano e tormentato. Sicuramente si erano conosciuti prima dell’ictus subìto da quell’uomo; comunque la donna pareva avere uno spessore umano, una forte personalità. Amava ardentemente Sergio e non amava più suo marito da tempo come si intuiva, ma ne aveva pietà non avendo cuore di abbandonarlo.

È una donna vera... fossi io al posto di Sergio ne sarei orgoglioso... sarà anche bella? – pensava il postino.

 

– Sentì fame; erano già passate le sette, ma invece di accendere il fornello per riscaldare la pasta sui ceci preparata la sera precedente, prese un blocco di carta e la penna biro. Ricopiò la lettera da cima a fondo, perfino facendo alla fine il verso alla firma di Cecilia, così si chiamava. Il giorno seguente rimise la lettera nel suo solito borsone di pelle marrone e la consegnò all’indirizzo indicato.

Non ricordava di aver mai visto alcun abitante che si affacciasse da quella casa che appariva molto trascurata, circondata da un giardino incolto e pieno di erbacce. Sulla buca delle lettere, nello spazio predisposto non vi era stato scritto nessun nome, ma il numero civico era proprio quello. Non era una raccomandata e non avrebbe dovuto suonare; invece suonò e indugiò per qualche istante davanti a quel cancello rugginoso, ma nessuno venne ad aprire.

Il giorno dopo passando davanti alla stessa villetta vide che la lettera non era stata ritirata dalla cassetta di cui si intravedeva l’interno e se ne meravigliò. Vi passò anche nei giorni seguenti e vide sempre la stessa cosa.

Dopo molti giorni arrivò un’altra lettera con lo stesso profumo e la stessa calligrafia, ma questa volta ben chiusa. Sapeva come fare, la curiosità era tanta. La sera a casa, con il vapore di una pentola di acqua bollente aprì la busta e poi asciugò accuratamente il foglio con il ferro da stiro.

La lettera cominciava quasi nello stesso modo dell’altra: – Caro Sergio, ti penso continuamente e non riesco a dire quanto vorrei accarezzarti e riempirti di baci. Tuttavia adesso c’è una novità che può cambiarci la vita; Mario è morto proprio ieri, pace all’anima sua. Io ho la coscienza a posto, l’ho assistito fino alla fine e l’ho perdonato e spero che anche il Padre eterno faccia altrettanto; dopotutto ha sofferto molto.

Mio unico bene, Sergio caro, mi sono chiesto perché non hai risposto alla mia lettera ma non voglio pensar male, so che hai da fare e poi adesso non ha importanza. Mi consigliavi da tanto tempo di lasciarlo, ma ho sempre esitato a fare quel passo per amore dei due bambini, ma ora finalmente potremo realizzare il nostro sogno; potremo stare insieme per sempre... – La lettera proseguiva chiedendogli di raggiungerla presto perché non vedeva l’ora di abbracciarlo, e che avrebbero trovato il modo di dare una svolta alla loro esistenza, essendo lei disposta anche a trasferirsi a Prato con i due figli.

Copiò la lettera come la prima volta e il giorno seguente la infilò nella buca accanto alla prima consegnata, ancora malinconicamente lì dove l’aveva intravista per tanti giorni, dubitando ormai che nessuno, come l’altra, l’avrebbe presa.

Passò quasi un mese e nessuno aveva ritirato quelle lettere. Ma un mattino, durante il suo abituale giro di consegne, notò con stupore che quella buca della posta fosse indubitabilmente vuota. Incuriosito e desideroso di saperne di più, dopo aver terminato il suo turno, decise di fare una visita a quella abitazione. Intuiva che ci fosse qualcosa di strano e voleva vederci più chiaro.

Alle cinque e mezzo del pomeriggio il sole era già tramontato e la casa era isolata dal resto dell’abitato. Prese coraggio e, con il rischio di apparirire un ladro oltrepassò il cancello. Dalle vecchie persiane sbiadite non traspariva nessuna luce neppure fioca. Avvicinatosi al portone di casa vi fece d’istinto una leggera pressione e la porta di mogano scrostato si aprì, cigolando.

Buio completo, la casa era vuota, forse abbandonata da mesi. Accese la pila che aveva messo prudentemente in tasca del giubbotto e vide i vetri delle finestre interne rotti e tanto disordine. Sembrava che nessuno fosse passato di lì da molto tempo, o meglio, a parte qualche vagabondo che vi aveva bivaccato, avendo evidentemente cura uscendo, di chiudere il portone.

Per terra c’era un cartello di vendita, probabilmente tolto dal cancello, così decise di annotare il numero di telefono. Fece le scale ma anche al piano di sopra era tutto disadorno e arruffato. Dovette tapparsi il naso per il tanfo di chiuso e per il puzzo insopportabile di vecchi escrementi proveniente dal bagno.

– Tornato a casa, perplesso ed eccitato di curiosità, il postino prese il telefono e chiamò il numero indicato sul cartello trovato per terra. Dall’altra parte rispose una voce allegra di donna: – Mi dica, sono Paola, Agenzia Immobiliare, come posso esserle utile?

Le disse, mentendo in parte, che aveva visto il cartello di vendita della casa in via del Melograno: – È molto sdotta, ma mi piacerebbe visitarla... la posizione non mi dispiace... –

L’agente immobiliare sembrò subito confusa e, dopo qualche istante presumibilmente utilizzato per controllare, aggiunse che aveva già provato a contattare il proprietario in altre due occasioni, ma che non fosse stato rintracciabile, quindi ritenevano ormai la casa non trattabile.

Ma perché, non si trova il signor Sergio Pini? – Guardi... non risulta che il proprietario si chiami il quel modo – Ma ne è sicura signora? – Certo che ne sono sicura... se avrò qualche notizia in merito la contattterò senz’altro... mi scusi ho un’altra telefonata. – tagliò corto la donna. Il postino rimase per qualche istante con la cornetta in mano. Era ancora più confuso di quell’agente di vendita.

 

– Passarono alcune settimane e Roberto continuava il suo lavoro di postino, consegnando lettere e raccomandate alle famiglie di Grignano e delle Badie. Cecilia non aveva inviato altre lettere e lui non sapeva che cosa pensare. A casa, ogni tanto prendeva le copie delle due lettere e le rileggeva, lasciandosi ancora trasportare da quelle parole di amore e di tormento, convincendosi sempre di più della singolarità di quella donna, sicuramente anche bella come bello doveva essere il suo cuore.

Ancora in un pomeriggio di domenica stava passando per via Firenze, di ritorno dal centro di Prato dove solitario, aveva tristemente consumato una pizza in piazza Mercatale.

Il viale lungo il Bisenzio, nel torpore di un tardo pomeriggio buio e invernale pareva deserto e il tappeto di foglie marce accumulatosi lungo il muro dell’argine emanava umide fragranze. Vide una figura familiare; era Marisa la transessuale che conosceva, si fermò e la salutò: – Come va? – chiese. – Bene, grazie – rispose Marisa con la sua caratteristica inflessione brasiliana. – E tu?Non benissimo – ammise Roberto. – Pensavo a Krystyna – Ah, Krystyna – disse Marisa. – La bella polacca? – Sì – rispose Roberto. – Mi manca molto. – Capisco – disse Marisa. – Anche a me mancano le persone a cui voglio bene... –

Continuarono a parlare per un po'. Marisa raccontò a Roberto di sua madre, che era morta di recente e che non aveva potuto rivedere. Porto Alegre era molto lontano ed un viaggio di quel genere costava. Roberto l’ascoltò con attenzione, spendendo qualche parola di solidarietà. Quando arrivò il momento di salutarsi, si sentiva un po' meglio: – Grazie per avermi ascoltato. Di niente, grazie anche a te; se hai bisogno, sono qui... come vedi sono sempre qui... – concluse con un sorriso ironico e un po’ amaro.

Il postino proseguì il suo cammino verso casa, con un passo più deciso. Si era un po’ aperto e si sentiva meglio. Sapeva che non avrebbe mai dimenticato Krystyna, ma si chiese perché poco prima aveva omesso di parlare alla transessuale di quelle due lettere e di Cecilia. Per una specie di pudore aveva preferito non dirle nulla, preferendo tenere per sé ciò che riteneva essere stata una vicenda come irreale, quasi onirica.

A Cecilia, pur non avendola mai vista in carne ed ossa, in quei giorni pensava molto. Dentro di sé si stava operando una singolare metamorfosi; le immagini delle due donne, una realmente conosciuta e l’altra che viveva soltanto attraverso le due lettere copiate, si stavano fondendo in un’unica persona. Aveva fatto altri brevi sogni durante i quali interloquiva con Cecilia raffigurata con l’aspetto di Krystyna: – Se Sergio non c’è prendi me... prendi me... – Sei molto caro, so come leggi le mie lettere, ma non posso... non posso... aspetto il mio amore... – gli rispondeva lei con evidente accento polacco.

 

– Roberto s’immalinconì ancora di più; come sempre entrava al lavoro alle sette e non terminava prima delle quindici. Alcune volte non riusciva a consegnare tutte le lettere, così quasi con piacere riprendeva lo scooter e faceva alcune ore anche nel pomeriggio. In quel modo evitava di pensare troppo.

Passarono ancora molti giorni, quando un pomeriggio tardi squillò il suo telefono di casa, ordinariamente muto: – È lei il signor Roberto Gori?... si ricorda mi ha telefonato per quella casa in via del Melograno... – Il postino ebbe un sussulto. – Sì, sì... ha trovato il signor Pini? – balbettò.

No ecco, ma c’è una signora di Lecco che ha chiamato per lo stesso motivo suo... – Roberto trasalì; Cecilia scriveva da Lecco, se ne ricordava. L’agente immobiliare riprese: – ... anche lei aveva cercato notizie del proprietario Pini Sergio che in realtà non si chiama in quel modo e che ormai è introvabile... –

Il postino ammutolì. La signora riprese: – Ma è ancorà li?... – Sì sono qui, mi scusi... – ... anzi a dire il vero non è proprio introvabile... pare sia emigrato in Argentina, lo ha detto proprio la signora piangendo. – ... e si chiama Cecilia questa signora? – chiese allora Roberto con un filo di voce. – Sì, Cecilia Mantoni. Noi come è ovvio non abbiamo a che vedere con questa storia ma, quando le ho detto che un’altra persona aveva cercato il proprietario chiamandolo Pini Sergio mi ha supplicato di metterla in contatto con lei. –

Era emozionato, fremeva per quella novità, ma non tanto da perdere la lucidità per capire della assurdità della cosa.

 

– Si incontrarono tre giorni dopo in un caffè del centro cittadino. Aveva affidato i due bambini alla nonna per poter fare nuovamente il viaggio fino a Prato. Nuovamente perché ne aveva fatto un altro analogo e drammatico il mese precedente. Come spiegò subito e scusandosi del tempo che gli avrebbe fatto perdere sperava di sapere qualcosa in più di una vicenda per lei molto dolorosa.

Pur apparendo costernata e sicuramente come indifferente riguardo al proprio aspetto esteriore, apparve a Roberto ancora più bella di quanto se la fosse immaginata. Poteva avere una quarantina d’anni, lunghi capelli corvini raccolti in uno chignon, grandi occhi neri, non troppo alta e ben fatta. La sua bellezza era diretta, senza pretese. Non era truccata a parte un accenno di lucido sulle labbra.

Aveva conosciuto quasi due anni fa nella sua Lecco, proprio sulle sponde del lago questo Sergio che in realtà, come le avevano spiegato in questura si chiamava Ennio Remondino e che risultava essere stato un importante tassello della n’drangheta. – È incredibile... – sussurrò a questo punto, mentre gli occhi le si facevano lucidi, – ... mai avrei pensato a una cosa simile.

Cecilia in quel periodo era prostrata e frustrata per le continue umiliazioni subite, frutto del comportamento odioso di suo marito; un uomo talvolta anche violento, ma che si assentava spesso per affari in Svizzera. A Lecco, dove a quanto pare stava facendo delle losche ed abili operazioni di riciclaggio per conto della stessa cosca mafiosa, il Remondino veniva regolarmente ogni mese e per molti giorni. Appariva gradevole e simpatico e lei ne fece conoscenza tramite un’amica.

Si innamorò presto di quest’uomo appassionato che pareva anche rispettoso ed onesto. – Pensi, si interessava anche dei miei figli a cui portava ogni volta dei regali. –

Cecilia gli scriveva ogni tanto a quell’indirizzo di Prato dove diceva di abitare con sua sorella e qualche volta lui rispondeva. Non aveva risposto invece alle ultime due lettere né, da almeno due mesi, trovava qualcuno che rispondesse al telefono.

Alla morte di suo marito era convinta di vederlo arrivare a Lecco in breve tempo, ma così non fu. Così un mese fa, immaginando una sua grave malattia o una disgrazia, si era decisa a venire nella città laniera ma, scesa dal taxi fu grande la sua costernazione nel vedere le sue lettere ancora non prelevate e accartocciate dalla pioggia e dal sole, nella cassetta della posta. Vide con stupore l’abbandono di quella abitazione, ne varcò la soglia e presto capì. Prese con sé le sue lettere e, piangendo, se ne tornò a casa.

 

– Roberto la guardava e ascoltava stupito non sapendo cosa dire; e lei era davvero bella. Dopo tanto tempo la donna dei suoi rapidi sogni prendeva forma, ma in modo tanto diverso dall’immagine che aveva come presa a prestito, quella della ragazza venuta dalla Polonia.

Ecco, le ho detto tutto... dovevo, altrimenti non avrebbe capito il motivo della mia presenza qui. – La donna fece silenzio per un po’ mentre osservava perplessa il suo taciturno interlocutore.

... mi perdoni signor Roberto, adesso devo proprio chiederglielo.. come mai ha cercato il proprietario chiamandolo Sergio Pini?... lo conosceva?... può dirmi quello che sa?... la prego. –

Il postino avrebbe voluto sprofondare; aspettava quella domanda ma non sapeva da che parte rifarsi; poi sollevò la testa, fece un paio di respiri lunghi e prese coraggio. Inizialmente quasi balbettando le spiegò che lui faceva il postino e che un giorno aveva avuto quella debolezza che non gli faceva affatto onore, ma che gli aveva dato la possibilità di leggere la sua lettera.

A quel punto abbassò di nuovo il viso, arrossendo, ma subito riprese: – E poi ho letto anche la seconda... lo so signora che non dovevo... spero che non mi giudichi ancora peggio se le dico che ne ho fatto anche una copia. –

Cecilia non credeva alle sue orecchie; inarcando le sue belle e nere sopracciglia lo guardò a lungo, attonita, poi chiese: – Scusi signor Roberto ma perché ne ha fatto una copia?... a cosa le serviva? – .. a niente di particolare, serviva a me. – rispose quasi in un sussurro.

Le sue parole mi rendevano speranza, mi hanno fatto capire che ci sono persone autentiche e leali come lei che sanno amare davvero... le ho rilette molte volte. –

Mentre le diceva questo i suoi occhi gli si erano illuminati come se le stesse rivelando qualcosa di molto personale e profondo. Continuò con più disinvoltura spiegandole che, ad un certo punto, quando le vide sparire dalla cassetta delle lettere dove le aveva viste languire per tanto tempo, entrò di sera in quella casa disabitata e si annotò il telefono dell’immobiliare. Anche lui voleva chiarire quel mistero.

 

– Il tempo volava, rimasero a parlare e parlare fino alle tre del pomeriggio sbocconcellando qualche cosa. Entrambi non sentivano troppa fame tanta era l'attenzione dell'uno alle parole dell'altro. Lui le raccontò di Krystyna e di quanto quella donna l’avesse ferito nel suo orgoglio, lei raccontò degli ultimi anni d’inferno della sua vita coniugale e di come avesse vissuto in perfetta incoscienza quel recente inganno subìto. Erano stati entrambi traditi e si capivano.

Quando arrivò l’ora Roberto l’accompagnò al treno e, al momento di salutarsi, lei che era già salita sul predellino ne ridiscese svelta e l’abbracciò non proprio come avrebbe abbracciato un amico, un amico di sventura, ma qualcosa in più. Poi si sfiorarono l’un l’altro le guance e si guardarono ancora negli occhi per un lungo attimo.

 

– Si scrissero molte volte, preferendo la scrittura al telefono. Scoprirono entrambi e si dissero quanto quel rapporto epistolare fosse per entrambi qualcosa di più di un mero lenitivo alla propria solitudine. Così trovarono il modo di incontrarsi di nuovo e di sciogliersi in abbracci d'amore, un amore profondo e quieto, senza le vertigini della passione eccessiva.

A cinquantadue anni, approfittando di un provvidenziale “scivolo” Roberto prese la pensione; smise la sua consumata divisa da postino e, senza ulteriori rimpianti, andò a vivere a Lecco con sua moglie Cecilia. Con Lorenzo e Lucia che con trasporto, considerò subito come figli suoi, amò spesso fare dei lunghi giri tra quei boschi rigogliosi e quei monti. Monti sicuramente meno spogli della Calvana, della cui dolce asprezza però manteneva il ricordo come una delle cose più care della sua vita passata. Intorno a quel ramo del lago di Como tutto a seni e golfi, “che volge a mezzogiorno”.

 

fine –

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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