– 1918 – IL CALZOLAIO

 – 1918 – IL CALZOLAIO

 CALZOLAIO 2

    In un'Italia sfinita e stanca della casta politica, degli inetti moderati e di una democrazia in stato agonico, non meno che della guerra, una persona ancora ignara di tutto ciò, agli inizi di settembre del 1918 percorreva barcollando la strada proveniente da Montemurlo ed era in vista delle mura della città. Un uomo giovane ma scheletrito da far paura, sporco e cencioso, che infine entrò a piedi attraverso l’antica porta Pistoiese.

Attraversò il centro cittadino passando da piazza San Domenico e poi dal castello. Sfiorato da gente indaffarata e pensierosa che a malapena gli gettava un’occhiata di compassione finalmente arrivò sulla porta di casa. Lo riconobbe l’inquilina del pianterreno che, incredula, subito cominciò a chiamare: – Annita, Annita… c’è Adelmo, vieni… c’è Adelmo! –

Si sentì uno sbattere di porte, un non so che di fremito rumoroso che passava oltre i vecchi muri. Annita si sporse fuori dal ballatoio e rimase interdetta; pareva non le venisse il fiato né che la soccorresse la forza per scendere.

Ferma sui primi scalini per qualche istante, scese poi la rampa; era proprio lui, l’aveva creduto morto. Mentre l’inquilina, commossa, si stringeva il viso tra le mani, i due si abbracciarono senza dirsi una parola; il reduce piangeva in silenzio e la donna scoppiò in singhiozzi, chissà se soltanto per felicità oppure per una moltitudine di inquietudini e sentimenti.

Accorse il babbo ormai anziano che tremava e che non seppe spiccicare una parola, poi un bambinetto di quasi tre anni si avvicinò timido a quell’uomo che non conosceva.

– Questo Adelmo, è Tobia, è il tuo figliolo. – gli indicò la donna con voce strozzata. L’uomo al vedere quel bambino si lasciò andare di nuovo ad un muto pianto, non potendo che accarezzargli la testolina mora; era sfinito. Lo portarono su per le scale quasi di peso e lo stesero sul suo letto che non toccava da tre anni.

    Adelmo Ammannati era uno tra i più fortunati a cui la sorte aveva consentito di fare ritorno a casa, dopo lunghi, interminabili mesi di prigionia, dopo la disfatta di Caporetto. Quando il giorno dopo si riprese ritornandogli la forza almeno di parlare, raccontò con amarezza che nel campo di Theresienstadt, lui come gli altri si era sentito abbandonato, nessun aiuto essendo giunto dalla patria: – Sapessi quanti ne sono morti di fame Annita… –

Disse con un fil di voce che le guardie austriache del campo, dopo lo sfondamento di Vittorio Veneto, se ne erano andate buttando via il fucile. Lui era arrivato alla frontiera dopo un incredibile viaggio a piedi attraverso regioni sconvolte dalla guerra, dove tutto era stato distrutto. – Pensa Annita, bussavo alle porte per chiedere un tozzo di pane ma loro avevano più fame di me… –

Nei giorni seguenti ritornò sulle sofferenze patite; disse che per sentire meno la fame i prigionieri avessero bevuto grandi quantità di acqua, ingoiato erba, terra, pezzetti di legno anche  carta. Dissenteria acuta e polmonite provocata dalla ricerca di spazzatura delle cucine, in inverno nei canali di scolo, avevano fatto una strage.

    Di notte si svegliava di colpo gemendo e a volte urlando; gli ci volle del tempo per riacquistare il suo equilibrio. Lo guarivano le giornate che scorrevano come una volta, la  famiglia, il bambino che era una meraviglia, le mura domestiche; tutte quelle cose che, tante volte aveva sognato in prigionia e che lo avevano tenuto in vita, adesso erano realtà.

E non valevano a scalfire la sua crescente serenità alcune voci di terza mano che gli erano pervenute da un cugino che era venuto a trovarlo. Gliele disse così, senza parere: – … Adelmo, non ci badare, si fa tanto per ragionare… sarà qualcuno che alza il gomito, uno svogliato che passa il tempo alla mescita... –

Però per quella sera era riuscito ad insinuargli almeno un’ombra. Secondo una certa voce l’Annita era stata vista con un gendarme, un moro con i baffi a manubrio. Ma quella notte poi i due sposi fecero all’amore e la mattina seguente Adelmo, allor quando quella cosa gli attraversò la mente per un attimo, la scacciò via, come avrebbe fatto con le noiose mosche che ancora ronzavano per la casa.

 

    Dopo qualche settimana Adelmo riprese il suo vecchio lavoro di calzolaio.

Quasi contemporaneamente, anche se il nostro uomo ancora spaesato ne rimarrà indifferente, il 4 novembre a Roma, fu proclamata la Vittoria, una vittoria che sapeva di fango e di morti.

In quei giorni le famiglie non avevano abbastanza soldi per commissionare nuove calzature; i ragazzi facevano i turni per andare a Messa in modo da indossare le scarpe uno dietro l’altro, mentre gli adulti si contentavano di accomodare scarpe vecchie o vecchissime; così il reduce non se la passava male con il lavoro, seppure un lavoro per poveri.

– Questa volta però ti vedrò crescere la pancia. – le sussurrò soddisfatto quella sera di fine novembre quando seppe che Annita era di nuovo in cinta. Annita aveva la stessa età del marito che, pur vitale ed energico era sottile di costituzione e piccolo di statura; latteo di pelle e biondo di capelli, in confronto a lei appariva come sbiadito. Annita, a cui il proprio nonno, un vecchio garibaldino, aveva imposto quel nome in ricordo della donna dell’eroe dei due mondi ma poi pratesizzato, era appena più alta di lui. Era una bella donna mora con forme che non passavano inosservate, sul cui viso paffuto e piacevole lampeggiavano inquieti occhi grigioverdi.

Era già freddino, così presero a coricarsi presto sotto il pesante coltrone dove, per risparmiare sulla brace dello scaldino da mettere sotto il trabiccolo, si scaldavano in altri modi. Lei non si tirava mai indietro; anzi, la sua natura esuberante la portava, quando lui qualche volta le pareva stanco, a stuzzicarlo facendolo girare dalla sua parte.

Era quella stessa natura vogliosa che l’aveva fatta penare spesso nel lungo periodo di assenza del coniuge. La sera, ancorché avesse da accudire e stringere a sé il bambino, emetteva grandi sospiri, agognando il suo ritorno.

Quando, nella primavera di quello stesso anno che stava terminando, il gendarme della milizia comunale Goti Nazareno aveva cominciato a ronzarle intorno, erano già trascorsi due anni e mezzo dall’inizio della guerra. Di Adelmo non aveva notizie da mesi, dall’ottobre del ’17, dalla disastrosa disfatta di Caporetto. Così, complici l’aria primaverile e gli effluvi floreali provenienti dai giardini e dai terrapieni posti tutt’intorno alle mura trecentesche, cedette al gendarme.

Si vedevano una volta alla settimana nei pressi di un canneto, sulla sponda del Bisenzio, dove la brezza fresca del fiume le scompigliava i capelli neri e il cuore. La carne di lei finalmente dissetata fremeva come quelle canne al vento, mentre lui, un quarantenne moro con i baffi all’insù, pur sposato e senza figli le giurava ugualmente eterno amore. Tornata a casa, dove la paziente sorella maggiore intanto le aveva riconsegnato il bambino Annita, con qualche moto di pentimento e insieme di tenerezza, si rammentava allora di Adelmo. Si conoscevano e si frequentavano fin da bambini e l’essersi sposati prima che lui fosse chiamato alle armi, era sembrata a tutti la cosa più naturale di questo mondo. Adesso però Annita era quasi sicura che il suo esile Adelmo fosse ormai morto.

I suo ritorno fu un’inaspettata sorpresa. All’inizio la sua ricomparsa l’aveva messa in ambasce, ma presto cominciò a sentirsene contenta e rassicurata. Dopotutto in quel periodo di follia si era spesso sentita in colpa e  inoltre le sue risorse economiche si stavano esaurendo.

Adesso, tramite quella sua sorella, aveva fatto sapere al gendarme che desiderava non essere mai più ricercata e che si mettesse il cuore in pace. Tutto sommato non aveva mai smesso di voler bene ad Adelmo e poi adesso le sue assidue attenzioni facevano sì che non le mancasse proprio niente. Si seppe però che il Goti non l’aveva presa bene, che anzi l’aveva presa malissimo e che non si era completamente rassegnato.

    Le cose in quel periodo, né a Prato né altrove andavano bene. I segni lasciati dalla guerra erano stati molto profondi; il disastroso conflitto aveva impoverito la maggior parte della società, creando per certi privilegiati che erano rimasti a casa, ghiotte occasioni di arricchimento. I grandi industriali grazie ai grossi ordinativi militari avevano fatto enormi affari. Nel commercio scaltri speculatori avevano accumulato vere fortune, approfittando della scarsità dei beni.

Il caro vita con la repentina diminuzione dei salari reali, la disoccupazione, le delusioni per le varie  promesse non mantenute, in aggiunta alla campagna sulla “vittoria mutilata” di Fiume e Pola, per cui i reduci di guerra avevano l’impressione di aver combattuto e sofferto invano, contribuivano a rendere teso quel periodo. Il tutto insieme all’epidemia dell’influenza spagnola.

 

    Il 15 aprile del ’19 a Milano una colonna di 200 uomini, formata da Arditi, gli ex reparti d’assalto, da futuristi, il movimento letterario fondato da Marinetti e dai fascisti che interpretavano il malcontento dei reduci, manovrata da un noto socialista fuoriuscito anzi espulso dal partito, un certo Mussolini, dispersero con armi da fuoco una manifestazione di protesta degli anarchici. Poi si diressero verso la sede dell’Avanti dove, uccidendo anche guardie e civili, ne distrussero i macchinari. Quel Mussolini era stato l’apprezzato direttore proprio di quel giornale ma poi, da apostolo assoluto della neutralità era diventato convinto apostolo dell’interventismo.

Il 20 giugno avvenne la prima grande manifestazione socialista in occasione dello sciopero generale. Il clima incandescente, nonostante i toni cauti e per molti anche deludenti dello stesso partito, infiammò inutilmente gli animi. Fu una mancata rivoluzione annunciata, che sfiduciò il proletariato e rinvigorì invece il fronte antisocialista.

Il 12 settembre, a Fiume, accolto dalla popolazione italiana, Gabriele D’Annunzio proclamava l'annessione al Regno d’italia  della città  dando vita all’impresa di Fiume.

    Il 16 novembre dello stesso anno in Italia si svolsero le elezioni politiche che estendevano il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i 21 anni. Quell’avvenimento avrebbe segnato la fine del liberalismo, l'affermazione del Partito socialista e del Partito popolare.

Le masse più povere, ma anche quelle affini alla piccola borghesia stavano salendo alla ribalta della vita politica. I contadini e la classe operaia diedero inizio a dure lotte nelle campagne e nelle grandi fabbriche con scioperi, picchetti e scontri suscitando grande timore e preoccupazione nelle classi possidenti. Le masse contadine in particolare, deluse dalle promesse disattese iniziarono un vasto moto di occupazione delle terre, alla testa del quale si posero le Leghe Rosse e le Leghe Bianche.

Quel voto del ’19, pur avendo segnato quelle grosse novità nell’orientamento politico, aveva nondimeno dato vita a un parlamento zoppo che produsse di  conseguenza un alternarsi di governi deboli. Tuttavia a quelle elezioni politiche Adelmo si era dimostrato interessato e non aveva avuto dubbi; il suo votò era andato ai socialisti.

 

    In quel mese il bambino più grande di Adelmo, Tobia, compiva tre anni, mentre Ivo aveva ancora pochi mesi. Il calzolaio si era allargato; il banchino posto nell’angolo del salotto della sua abitazione non bastava più; aveva preso a pigione un piccolo fondo non lontano da casa e le spese erano aumentate.

Aveva già fatto delle scarpe speciali per dei piedi malformati che gli erano riuscite benissimo, avendo una buona manualità ed esperienza. Così un giorno decise di accontentare un giovane suo conoscente anch’egli reduce di guerra, ma più sfortunato di lui.

Egli camminava penosamente con una stampella essendogli stata amputata la gamba destra e si era procurato una protesi di metallo rigida e scomoda; ma essa gli procurava un dolore atroce, tanto da fargli preferire il disagio di barcamenarsi con una gamba sola, con l’aiuto delle stampelle.

Vedendo la sua bravura, avendo sentito dire che da qualche parte le facevano, l’aveva pregato di fargli una protesi di cuoio; anzi l’aveva proprio supplicato: – prova Adelmo, prova per piacere… fai del tuo meglio… – gli aveva detto avviandosi poi verso casa con il suo penoso saltello. – Io sennò mi butto sotto un treno… non ci vivo più. – aveva aggiunto tra sé.

Allora il calzolaio si mise di buzzo buono, studiando, provando e riprovando, e tornando nella bottega anche di notte, quando gli veniva l’idea di come fare una miglioria. Trovò dei cuoi spessi e adatti che conferissero stabilità e insieme morbidezza e alla fine, quando ritenne di aver fatto qualcosa di buono, consegnò la gamba a Morando; tale il nome del conoscente a cui chiese solo il costo del materiale.

Questi ne fu entusiasta. Morando non passava ora e giorno senza che non ne parlasse a qualcuno, mostrando a tutti come riuscisse adesso a camminare decentemente. La voce si sparse e accorsero altri reduci, poveri storpi che avevano sacrificato le loro braccia o le loro gambe alla patria.

Prese un garzone, un ragazzo di diciassette anni, in modo da poter accontentare almeno in parte le richieste, e poi ne prese un altro. Nonostante facesse facilmente credito e che qualche volta facesse finta di dimenticarsi di qualche saldo mancato, stava andando a gonfie vele.

Morando abitava vicino proprio nella stessa via, via de’Tintori, in un buio sottoscala. Non aveva nessun tipo di sostentamento, tant’è vero che non sapeva come saldare il suo debito, così Adelmo, un po’ per compassione, un po’ per  rientrare di quella somma, prese anche lui ad opera nella sua bottega.

Morando, a parte la mutilazione sarebbe stato un bel giovane, moro, spalle larghe, occhi intelligenti e luminosi e imparò presto il mestiere. I due divennero anche amici e spesso il calzolaio lo invitava in casa per mangiare insieme qualcosa, dove Annita lo accoglieva molto volentieri.

 

    Adelmo aveva davvero un buon cuore e anche una passione per la giustizia che gli derivava dagli insegnamenti del suo vecchio babbo che era stato, a quanto pare, di vaghe tendenze anarchiche.

Fin dalla ripresa del suo lavoro il calzolaio si era iscritto alla lega dei Pellettieri e adesso cominciava ad interessarsi di politica. Pur ritenendosi parte della piccola borghesia capiva le aspirazioni degli operai verso giusti cambiamenti nei rapporti sociali, aspirazioni che portavano le masse in direzione del Partito socialista che se ne era fatto portavoce. Adelmo, pur non istruito, era intellettualmente curioso così, seguito dall’amico Morando che aveva preso a seguirlo in tutto, partecipava alle riunioni nella sezione a lui più vicina.

Con qualche incertezza partecipò anche a manifestazioni di piazza insieme al suo amico il quale, pur claudicante, aveva preso passione alla politica attiva ancor più di lui.

Tuttavia il calzolaio, rispetto alla radicalità delle idee del suo babbo si sentiva più moderato. Del partito socialista, benché lo avesse votato nel ’19 se ne scoprì pian piano diffidente. All’interno di quel partito si stava facendo strada non solo l’idea, ma anche la pratica della legittimazione della violenza come strumento di lotta politica, mentre le frange più massimaliste parlavano ormai apertamente di Soviet e di Russia.

Cominciò allora ad interessarsi del Partito Popolare che, insieme ai socialisti, era stato l’altra novità consistente nel panorama politico. Quel partito era stato fondato due anni prima da un prete siciliano, don Luigi Sturzo e si rivolgeva in modo particolare al mondo rurale, tradizionalmente più legato alla fede cattolica. Peraltro le masse contadine dopo aver sopportato il maggior peso della guerra si erano sentite profondamente deluse, sia per i sussidi distribuiti in modo ingiusto che per la mancata redistribuzione dei latifondi; una riforma che era stata in qualche modo promessa o ventilata.

Ma ben presto Adelmo trovò che in generale tutta la politica attiva fosse troppo complicata per lui e, pur seguendo ancora da lontano le varie vicende, prese a tuffarsi di nuovo e con ancora più energia nel suo lavoro, i cui ordinativi aumentavano ogni giorno di più.

Morando no, non se ne allontanò; egli capiva che l’interesse per la politica lo stesse realizzando, essendone anche diventato un responsabile locale. Nondimeno lavorava con assiduità nella bottega del suo amico, seguitando a frequentare la sua casa, dove era accolto come un fratello.

L’uomo faceva un po’ fatica a salire quella rampa di scale ma, alla fine della rampa, veniva ripagato dal sorriso di Annita che, con quei capelli mori a caschetto alla moda del momento, e con quelle belle labbra dipinte di rosso pareva scoppiare di salute e di bellezza. 

 

    Dopo molti mesi quell’accoglienza non mostrava cenni di cedimento o di freddezza. Annita continuava ad accoglierlo in un modo tale che andava ben oltre alla semplice cortesia.

Lei si sentiva molto attratta da Morando non trovando nella sua menomazione qualcosa che la sdegnasse. Le piacevano il suo torace largo, il suo collo tornito, il colorito pieno della sua pelle e, soprattutto quella sua bocca dai denti forti e bianchi che si apriva spesso in risate allegre.

Morando ne era turbato e non sapeva bene come fare. Provava quasi una sorta di venerazione verso il suo amico; a lui doveva la spinta che lo aveva fatto rinascere, ma non riusciva a sottrarsi agli sguardi di Annita. Quasi senza accorgersi di quello che stava accadendo, tra i due sbocciò una forte simpatia.

Adelmo, pareva non vedere quegli sguardi e quelle attenzioni, e si assentava spesso per andare anche in posti lontani per cercare le pelli e i cuoi più belli e pregiati. Lei che era la sua sposa e voleva comunque bene ad Adelmo, da qualche tempo sentiva di esserne trascurata. Il suo magro e sbiadito marito, in tal modo lo riconosceva adesso mentre prima non ci aveva fatto particolarmente caso, anche nel suo atteggiamento era molto cambiato rispetto ai primi tempi dopo la guerra, non pensando altro che al suo lavoro. Sotto le coltri, la sera, lo sentiva spesso freddo e discosto.

Un giorno il calzolaio disse che si sarebbe assentato per due giorni; dovendo recarsi a Santa Croce sull’Arno, dove si produceva una gran quantità di pellame e di cuoio di buona qualità.

Quella sera di Aprile Morando era ancora in bottega dedito al suo lavoro avendo da consegnare presto due gambe ortopediche di cuoio e un paio di scarpe di lusso.

– Buonasera Morando… sempre al lavoro a quest’ora? – Annita si era affacciata alla porta solo con il volto quella sera particolarmente radioso, appoggiandosi alla porta socchiusa.

– Avevo messo ieri a bagno maria il baccalà che piace tanto a Adelmo, senza ricordarmi che oggi non ci sarebbe stato… è tanto, perché non vieni a mangiare con noi quando hai finito, non saprei come finirlo. – Morando la guardò; esitava: – Va bene, grazie. – disse alla fine. Ma era in subbuglio, come gli era già capitato altre volte.

Salì quelle scale con fatica come aveva fatto spesso, ma quella sera in apprensione più del solito. Mentre saliva l’inquilina del pianterreno si affacciò alla sua porta, ma non disse nulla e la rinchiuse subito.

Il piccolo di pochi mesi era già nel suo lettino e il grande, Tobia, frignava svogliato non piacendogli il baccalà, ma poi cominciò a ciondolare e la donna mise a letto anche lui. Da due mesi il vecchio anarchico a cui piaceva parlare con Morando di guerra e di politica era morto, e nel salotto degli Ammannati si sentiva solo il ticchettio dell’orologio a pendolo.

Morando non sapeva che cosa dire, mangiava con appetito e si guardava attorno; era forse la prima volta che si trovava solo con Annita. D’un tratto il verso del cuculo, accompagnato dall’uscita dell’uccellino fece sobbalzare entrambi. Il mutilato in particolare fece uno buffo scossone e Annita scoppiò in una risata. Morando guardò la sua rossa e carnosa bocca che aveva mezza piena del suo boccone. Quella bocca voluttuosa le apparve per un istante volgare, ma evocante ineffabili sensazioni. Finirono quasi in silenzio, poi lei si alzò e, non staccando gli occhi lustri come di febbre da Morando, aprì la porta della sua camera.

L’inquilina del pianterreno non riuscì a sentire i passi che scendevano le scale; almeno fino a mezzanotte, quando fu vinta dal sonno.

 

    Nel primo pomeriggio del giorno seguente Adelmo Ammannati, dopo aver riportato calesse e cavallo dove usualmente teneva quelle sue proprietà, già da lontano vide davanti a casa sua un folto gruppo di persone: – Che succede? Che cosa vogliono questi? – si chiese meravigliandosi.

Avvicinatosi alla casa, mentre le persone, tutte serie in viso, si aprivano per farlo passare, sulla porta vide i gendarmi comunali. Adelmo sbiancò in viso, immaginò una qualche disgrazia.

– I bambini, i bambini, che cosa è successo?... ditemelo. – Poiché era anche stanco le gambe gli vennero meno. Quasi sostenuto da due gendarmi su per le scale entrò in casa, ripetendosi con qualche somiglianza la scena del suo ritorno, ormai di tre anni prima.

Ma Adelmo non si sarebbe mai aspettato di vedere quanto fu costretto a vedere. Si affacciò alla camera matrimoniale e la vide. Annita giaceva riversa sulla schiena, le cosce ancora divaricate. Vide con orrore la sua bella testa profanata da uno squarcio sopra l’occhio destro e intorno vide sangue, sangue dappertutto in parte assorbito dai lenzuoli. La sua quasi nudità era stata coperta dalla pietosa premura dei gendarmi. In terra, sul lato destro del letto una protesi di cuoio anch’essa macchiata di sangue.

L’uomo si mise ad urlare mettendosi le mani nei capelli, ma poi si calmò e chiese dei bambini. Gli dissero che l’aveva presi la sorella subito accorsa una volta avvertita della disgrazia. Era successo che l’inquilina del pianterreno, sentendo piangere senza sosta ancor prima che albeggiasse, era salita su, ed entrata dalla porta di casa appena socchiusa, aveva trovato quella scena orribile.

La mente dell’uomo non riusciva ad accettare quanto stava realizzando. Come smarrito notò a malapena quell’inquilina in salotto, silenziosa, i cui occhi rossi avevano una strana espressione, come di pianto e insieme di paura. C’erano anche due carabinieri ai quali, alzandosi di scatto dalla sedia, si rivolse con veemenza:  – Ditemi chi è stato, ditemi chi l’ha ammazzata! – riprendendo poi a dire con voce forte frasi sconnesse. Gli venne allora un mancamento e fu portato sul letto in camera dei bambini dove gli allentarono la camicia e gli fecero odorare dei sali.

Più tardi, quando si fu ripreso e calmato, gli agenti del’Arma gli dissero che Morando Moradei trovato anch’egli nudo e riverso in terra e privo di conoscenza fosse stato portato al “Misericordia e Dolce” e che aspettavano che fosse in grado di parlare per interrogarlo.

A quella rivelazione reagì inaspettatamente; si mise a piangere. Protestò tra i singhiozzi che non poteva essere, che loro erano come fratelli; poi si chiuse in un tormentato silenzio A quel punto non sapeva se essere più disperato per la morte di Annita, o per la terribile evidenza che gli si presentava alla mente. Non si era mai speso con nessuno come per Morando; si sentiva tradito due volte. E poi c’era quell’atroce interrogativo a cui non sapeva rispondere; chi poteva odiare loro e lui stesso a tal punto? Le indagini dei carabinieri, anche nei giorni successivi, rimasero a un punto morto.

La sua vita cambiava, cominciò a vedere tutto in modo oscuro; tutto gli pareva odioso. Perse anche l’interesse per il lavoro. L’unico faro erano i bambini che amava e che erano rimasti in casa della zia.

   

Incuranti di quella vicenda, il mondo e la storia andavano avanti per la loro strada. Nello stesso mese, nel maggio del 1921, un anno e mezzo dopo la prima consultazione a suffragio universale ma solo per gli uomini, le elezioni politiche si dovettero ripetere.

Il risultato fu apparentemente simile a quello precedente. Ma, insieme alle due nuove aggregazioni popolari, avvenne l’ingresso in parlamento dei Fasci italiani di combattimento. Essi che si erano messi in lista assieme ai magnanimi e insieme piagnucolosi liberali, elessero trentacinque deputati, tra i quali Benito Mussolini che risultò il terzo deputato più votato d'Italia.

Quel movimento nel ’19 si era presentato all’opinione pubblica come un «antipartito», creatore di nuove istanze politiche e si era collocato inizialmente a sinistra chiedendo radicali riforme sociali.

Ben presto però i fascisti si erano distinti per aggressività e per violenza. Il fascismo stava diventando un fenomeno di massa ed era fondato sull’organizzazione squadristica idolatrante il mito della forza come motore della storia. Si formarono dappertutto le squadre d’azione delle “camicie nere”, dedite a spedizioni punitive contro socialisti e organizzazioni contadine.

 

    Ad uno di quei gruppi apparteneva anche il Goti Nazareno, il gendarme comunale che in quei frangenti operava in veste privata. Quasi tre anni prima era stato scornato e offeso da Annita, e non si era mai completamente rassegnato all’idea di non vederla più. Si infuriò poi quando un giorno seppe dei sentimenti della donna per il mutilato di guerra.

L’ uccellino che glielo aveva spifferato era il garzone di Adelmo, quello che era stato preso per primo. Anch’egli aveva simpatie fasciste e un giorno al Goti glielo aveva detto. Sapeva quanto odiasse Morando, e non solo perché fosse socialista.

Quel fatto cruento era successo due settimane prima e l’inchiesta dei carabinieri era stata già opportunamente insabbiata. Quella sera fatale, quando Annita si era affacciata alla porta della bottega, quel garzone era appena uscito per tornarsene a casa sua ma, sentendo la soave voce della sua padrona, senza esserne visto si era fermato dietro l’angolo per ascoltare. Così, ansimando per la corsa e per l’eccitazione, subito aveva riferito dell’invito fatto con il pretesto del baccalà, al Goti, il quale mandò presto a chiamare tre dei suoi più fidati e facinorosi camerati, quelli più duri e puri, volendo dare una lezione alla donna e a quel mutilato.

Ma non la voleva ammazzare. – È stato il Mattei ad eccedere con il manganello, è sempre il solito lui, non ha mezze misure… quella bella testa mora. Ah sì, aveva un bel corpo, che ci vuoi fare… – pensava tra sé un sabato mattina mentre aspettava di partire con i suoi compagni.

Nondimeno era contento per Morando: – Quel comunista sciancato… lui la lezione l’ha avuta davvero, gli devo aver spaccato anche la spalla, il braccio di sicuro…  e non la passerà liscia con quel calzolaio… quel cornuto… –

Ricordava anche con una certa soddisfatta ilarità la paura che avevano messo all’inquilina del pianterreno. Era certo che non avrebbe parlato. Lei si era svegliata dal rumore e, affacciatasi alla porta aveva visto i tre uomini vestiti di nero che, minacciosi, brandivano manganelli.

– Ah ah, se l’è fatta addosso… gliel’ho detto; guai a te!... ci siamo intesi eh?... no, non ha fiatato e non lo farà. –

Gonfi ed ebbri di promesse di violenza, pregustate al pari di una notte annunciata di sesso sfrenato, si erano accosciati sul camion pronti a dare un’altra solenne lezione a qualche altro socialista o a sfasciare qualche sede di leghe, bianche o rosse che fossero. Arditi con le bandiere ornate di teschio, reduci di guerra umiliati dal governo Nitti, insegnanti frustrati, gendarmi arrabbiati; nei cassoni dei camion sobbalzanti erano tutti uguali, apparentati dal vino e dal sangue che avrebbero versato; cantando “giovinezza, giovinezza” si sarebbero lanciati nella mischia come nell’eccitazione di una festa.

 

    Passò del tempo e Adelmo pian piano ritrovò, almeno in parte, se stesso. Si stava confrontando anche con la fede che aveva abbandonato da tempo e ne trasse gran conforto. Quella sua luce positiva che aveva sempre fatto parte del suo carattere e che sembrava ormai spenta ritornava ad accendersi. Aveva mantenuto un minimo di normalità di vita quotidiana anche per i piccoli figlioli e in questo la cognata Vera, nubile, più anziana di Annita e meno bella, era stata essenziale. La convinse a trasferirsi in casa sua.

Le indagini sulla morte di Annita non portarono mai ad una risoluzione soddisfacente, lasciando Adelmo in un’aura di amarezza. Tuttavia l’Ammannati non era proprio un grullo; dalla postura nei suoi confronti totalmente cambiata dell’inquilina del pianterreno, dal comportamento ambiguo delle forze dell’ordine e da tanti altri particolari intuiva quale fosse la verità.

Le notizie che circolavano in merito a quello squadrone della morte capitanato da un certo gendarme, tal Goti Nazareno, rafforzavano la sua idea. Avevano voluto punire Morando attivista socialista e, attraverso Annita anche lui che ne era stato simpatizzante.

Ma gli rimaneva un dubbio che non risolse mai compiutamente: – Perché tanto accanimento con mia moglie… in fondo allora è colpa mia? – Poi, non capendo per quale strana associazione d’idee, si ricordò di quelle lontane confidenze fatte dal cugino a cui allora non volle dare spago, in merito a un certo gendarme comunale; ne ebbe un gran fastidio ma respinse quei ricordi. Era in ritardo e Vera che lo avrebbe sposato tra due mesi, a quell’ora lo stava aspettando a casa.

 

    Morando era stato presto rilasciato, essendo stato anche lui vittima e non carnefice in quella notte.  Egli era rimasto ancor più invalidato e le fratture, soprattutto quelle del suo animo non si erano ancora ricomposte. Una volta dimesso dall’ospedale gli era stato reso quell’arto di cuoio ma il mutilato non osò riaffacciarsi alla bottega del calzolaio.

Un giorno Adelmo, camminando per via de’ Sarti, da lontano vide Morando che, molto più di prima camminava barcollando da far pena e che veniva dalla sua parte. Il calzolaio avrebbe potuto svoltare in un vicolo ma non lo fece; da tempo gli voleva parlare.

Morando sì, lo avrebbe voluto fare, ma non riuscì per la sua lentezza. Era pallido come un morto e, quando si trovò di fronte il suo vecchio amico, le labbra presero a tremargli non potendo emettere il benché minimo suono. Si aspettava il peggio.

Chi, sapendo i trascorsi tra i due uomini fosse passato da quella antica strada di bottegai e di sarti in quel momento, magari con espressione sardonica e rallentando il passo, e a Prato molti conoscevano quella vicenda e molti ne avevano pianto ma anche riso, avrebbe assistito a qualcosa di inaspettato.

Adelmo che si era fermato proprio davanti a Morando, al vederlo da vicino ebbe un moto di sincera compassione; poi lo abbracciò. A Morando gli si fermò il cuore, non si aspettava una cosa simile e prese a piangere sommessamente; poi le lacrime presero a scendergli come da una fontana.

 

    Il cuore buono ma profondamente offeso di Adelmo non sarebbe stato sufficiente; in quei mesi aveva attinto anche altrove ed aveva capito che il perdono sarebbe stato un gesto liberante dal dolore, un dono fatto non solo all’altro ma anche a se stesso.

– f ine –

 

 

 

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