1937 – AMBA ALAGI

1937 – AMBA ALAGI

AMBA ALAGI 2

     Nel ’30 avevo appena 14 anni, ma con quella peluria scura sul viso e specialmente sotto il naso che mi era spuntata, sembravo più grande dei miei coetanei. Il babbo che mi vedeva ormai cresciuto e robusto avrebbe voluto che lavorassi, perché già da tempo avevo finito la sesta.

Lui aveva perso il suo lavoro in fabbrica e non riusciva a trovarne un altro stabile. Diceva che la colpa fosse stata della Grande Depressione e che a Prato avevano chiuso molte aziende, compreso quella del Targetti dove il babbo faceva i turni alle filandre. Si contentava di essere chiamato saltuariamente a lavorare alle fornaci del Cappelli, una vitaccia; a volte a quella di Albiano e ogni tanto a quella di Javello, e tornava sfinito. Era un buon uomo, povero babbo Agostino e aveva da sfamare altri cinque figlioli: – Qui non ce la facciamo Lucia, se non dà un contributo anche Luigi… perché non vai a sentire all’appalto… magari hanno bisogno di un garzone.

Così ogni tanto glielo rammentava alla mamma, lei che era cugina del Belli. Lei stessa, nonostante quella mezza serqua di figlioli da governare faceva delle ore alla trattoria e fiaschetteria del Colzi, vicino a casa nostra. A quel tempo stavamo ad Amba Alagi, un gruppo di case, a sua volta, poco distante dal ponte di Bagnolo dove c’era il forno di quel parente.

 

     Io invece, durante tutto il giorno sparivo tra i bozzi e i canneti del torrente che scorreva sotto casa, i luoghi delle mie avventure e dei miei primi acerbissimi amori; Loretta aveva la mia età e, al fresco dei lavatoi, nelle ore bruciate quando non c’era nessuna donna a sbattere i panni di casa con la liscivia, mi insegnò lei a baciarsi in bocca. Sapeva sempre di mentine.

Ricordo bene anche quanto mi piacesse, risalendo il torrente, addentrarmi da solo nel verde; qui mi godevo la luce calda del pomeriggio che, sfilando tra i rami degli alberi, chiazzava il bosco di macchie luminose.

Infine il Belli mi prese con sé, ma mi faceva sgobbare non poco. Alla mattina dovevo presentarmi prestissimo; il forno, quando arrivavo ancora in preda al sonno era già ardente da un’ora o due. L’appalto alimentare faceva il pane per tutto Bagnolo ma, poiché quei filoni di pane avevano la nomea di non diventare né menci né duri per alcuni giorni, venivano anche dal Mulino o da Maliseti.

Quella che allora mi sembrava una vita sacrificata, più tardi, quando mi sarei ritrovato in mezzo all’orrore della guerra, me la sarei sognata come il paradiso. Chi se l’aspettava, cinque anni dopo,  uno schifo di quel genere?

 

     Eh già… lavoravo al forno da tre mesi e mi sentivo già grande dovendo consegnare con il triciclo il pane a destra e a manca, quando una sera afosa di fine luglio, eravamo tutti a prendere il fresco sotto gli alberi accanto al torrente, ed io di lì a poco sarei andato a letto dovendomi alzare alle cinque invidiando i fratelli minori che andavano ancora a scuola, già sbadigliando chiesi: – Oh mamma ! perché questo paese si chiama Ambalagi? –

Ricordo che mamma Lucia fece una risata: – Amb Alagi, no Ambalagi ! … gli è un posto dell’Abissinia… un posto dove c’è stata una gran battaglia tanti anni fa. – Ah!... e s’è vinta o persa la battaglia? –  Senti, un lo so Luigino... ho sonno come tu dovresti avere anche te…  e vo a letto. Voi piccini venite via, su… voi due state ancora qui?. – rispose la mamma alzandosi dalla sua seggiolina impagliata che portava sempre con sé e prendendo per la mano l’ultima nata.

Me ne ricordo come fossi ora. Il babbo che sedeva anche lui poco più in là con le gambe in aria appoggiate ad un platano mi guardò; sembrava un po’ divertito per quella mia curiosità, ma poi si fece serio. Disse che l’indomani mi avrebbe dato un vecchio giornale illustrato che parlava di quel fatto lontano: – Era di tuo nonno; lui c’era in Abissinia, lo sai?... per fortuna in quella battaglia non c’era… così potè tornare a casa vivo.

Poi fece silenzio e si accese una sigaretta, di quelle che faceva da sé con il sacchettino di tabacco. Il babbo mi voleva bene; ero il maschio più grande della famiglia, ma non era di molte parole, così mi avviai su per le scale anch’io fantasticando di quella battaglia.

Ecco, sarebbe stato meglio se quella sera non avessi avuto null’altro a cui pensare.

Il giorno seguente, al ritorno dal lavoro, sul letto che dividevo con i miei fratelli, gli altri due maschi,  trovai una vecchia Domenica del Corriere. La sfogliai subito avidamente, guardando quelle le illustrazioni colorate. Poi vi lessi l’articolo che rievocava l’eroica battaglia  del 1895 presso il monte Amba Alagi al confine tra Eritrea, già possesso italiano e l’Etiopia; battaglia epocale che, pur persa, metteva in rilievo il valore dei nostri soldati. Quelle figure eroiche, perfino il disegno raffigurante il temibile Ras Mekkonen sopra il suo cavallo che si impennava, mi esaltarono e rimasero impresse per giorni e poi per tanto tempo ancora.

Da allora, come se l’incontro con quelle illustrazioni avesse dato la stura al bisogno di allargare la mia conoscenza sul mondo e sulle cose, mi prese la voglia di leggere, all’inizio ancora riviste e poi anche qualche libro che don Arturo, il pievano della parrocchia di san Giovanni Decollato su alla Rocca, mi prestava volentieri. E il babbo che era quasi analfabeta annuiva contento quando mi vedeva interessato e intento, sia pur faticosamente, alla lettura.

Così, quando nel maggio del ‘35 venni chiamato in arruolamento per l’Africa orientale, risposi con entusiasmo alla chiamata del duce. Terzo Reggimento Bersaglieri, Battaglione Mitraglieri, Divisione Sabaudia. Della vita di fornaio ero anche un po’ pieno, ma non immaginavo certamente a che cosa sarei andato incontro, a quante sarebbero state le notti di trincea umida o di fortilizi pieni di zanzare che il bersagliere Luigi Calamai avrebbe avuto da trascorrere.

Povera mamma, quanto pianse quella mattina della partenza. Eravamo in sette tra Bagnolo e Montemurlo, tutti fieri e radiosi bersaglieri con le piume al vento. Prima che il legno partisse per la stazione, il ritrovo era davanti al vecchio Mulino, il babbo, senza dir nulla e senza lacrime, ma con gli occhi che gli brillavano, mi accarezzò una guancia con la sua mano callosa. Alla partenza era presente anche Loretta; anche lei era commossa. In occasione degli ultimi umidi baci, ai soliti lavatoi o al fruscio del canneto mosso dalla brezza leggera, ci eravamo detti che al mio ritorno, lei sarebbe stata mia per sempre.

 

     E pensare che all’inizio l’offensiva mi parve quasi una passeggiata. Durante i primi giorni non s’incontrò alcuna resistenza, se non qualche sporadico scontro a fuoco e, in appena tre giorni, giungemmo prima al villaggio di Adigrat e poi in quello più grosso di Adua. Quest’ultimo, come mi spiegarono, era stato teatro di una sanguinosa e importante battaglia alla fine dello scorso secolo.

Ero molto incuriosito da quei villaggi e da quei tucul fatti di paglia e fango; le donne etiopi avevano degli occhi molto belli e sorridenti.

Un artigliere fu sorpreso in un tucul mentre si divertiva con una nera. Il marito gli dette un colpo sulla testa e lo uccise, ma poi il nero, preso e trascinato al comando fu presto fucilato. Tuttavia, giorni dopo, pur ricordando con un po’ d’apprensione quell’evento, non potei fare a meno di notare, in mezzo ad altre donne che si recavano al pozzo, una snella giovanetta nera di circa quindici anni, forse anche meno. I suoi grandi occhi singolarmente azzurri chiari, inusuali per quella popolazione, parevano avere il potere di ipnotizzare chi la guardasse; insieme ai suoi capelli corti e crespi su un viso sottile e dolce ne facevano una vera bellezza. Passando con la pattuglia da lì mi soffermai per qualche istante ad ammirarla, e lei mi sorrise. Il giorno dopo il mio reparto dovette riprendere la marcia per Mahila, ma la visione del suo volto mi accompagnò per lungo tempo.

 

     A metà dicembre l’esercito degli etiopi entrò in contatto con alcuni nostri reparti lungo tutto il fiume, forzando i guadi fino a Macallé.

In quei giorni noi contavamo molto sull'ardimento dei nostri aviatori che, con l’uso del gas, facevano strage degli abissini permettendoci di avanzare, ma alla fine di quel mese, mentre a casa ricorrevano le feste natalizie ed io pensavo con tanta nostalgia ai miei, il mio battaglione ebbe il battesimo del primo scontro diretto con i soldati del ras Immirù.

Una sera loro vennero all’assalto, ed io come altri credetti di esserne presto travolto; venivano a piedi con un coraggio da leoni, incutendo paura. Durante la battaglia ormai corpo a corpo, gli ufficiali sparavano con le pistole e gli abissini contraccambiavano a colpi di scimitarra. Ma infine, per fortuna, loro essendo assai inferiori di numero furono sopraffatti. Quanto sangue!

Tornai anch’io con qualche ferita di poco conto al forte, ma più che altro ero stravolto per tutto quello che era successo e che succedeva intorno a me e dentro di me. Che ingenuità essersi fatto cullare per anni da quelle belle immagini; la realtà era tutt’altra. Le marce sfiancanti in assetto da guerra con zaini, cassette e mitraglie, l’inseguimento spesso subìto delle forze del Negus, la fame acuta e la paura, la guerriglia nelle retrovie che sorprendeva le nostre pattuglie isolate, riducendole a pezzi. Circondato da cadaveri ovunque e facendo finta di non sentire il puzzo orribile della carne in disfacimento mi toccò spesso sotterrare non so quanti corpi mutilati.

Un giorno successe che una banda di abissini prese due soldati del mio battaglione; tremai pensando a che razza di supplizio dovessero subire quei due poveri cristi. Dicevano che prima di ucciderli, gli avessero da tagliare i testicoli. Invece dell’eroica guerra che avevo vagheggiato, era una confusa guerra di spari, fatica e piccone. Quando non combattevamo, si dovevano costruire fortini e strade per consentire ai camion e ai carri armati di avanzare. Quando ripiegammo verso le linee fortificate di Axum, fummo impiegati a migliaia per rinforzarne le linee difensive.

In quei giorni di stallo, tra la popolazione civile dei villaggi serpeggiava un pesante clima di terrore. Il sospetto di presenza di spie o di presunti fiancheggiatori provocava l’arresto e l’uccisione di centinaia di persone. Ed era preso di mira in modo particolare il clero copto, ritenuto colpevole di aizzare la popolazione contro noi italiani. I copti erano cristiani e quel fatto mi addolorava.

Intanto i ripetuti bombardamenti aerei continuavano a contenere l’avanzata dei vari ras etiopici. Anche durante lo scontro decisivo a Mai Ceu, centinaia di quintali di bombe all'iprite, furono sganciate sulle colonne in rotta su cui, dai rilievi attorno, sia truppe regolari che “ascari” eritrei avevano sparato sui feriti e su coloro che rimanevano indietro.

Ebbi l’occasione io stesso di vedere l’effetto tremendo che quei gas avevano prodotto, e non solo sui soldati ma anche sui contadini, su donne e sui bambini; dolorosi effetti di piaghe agli occhi, agli intestini e alla pelle.

In patria, durante il periodo di addestramento, quando ancora fremevo impaziente di partire e seguendo la propaganda, anch’io usavo chiamare gli abissini selvaggi e barbari. Adesso, il dubbio che mi covava dentro era quale fosse dei due popoli quello più barbaro e selvaggio

 

     Intanto le truppe del Negus Hailé Selassié si stavano preparando ad isolare Macallé e a spezzare in due il nostro schieramento, ma il 20 gennaio il generale Badoglio attuò una riuscita manovra a tenaglia contro quelle truppe, fermandole.

Una mattina di febbraio ci dissero che le armate del ras Mulughietà, forti di circa 80 000 uomini, si sarebbero concentrate sull' Amba Alagi e che noi, con mezzi nettamente superiori saremmo andati a contrastarle. Ebbi un tuffo al cuore; mai avrei pensato di dover percorrere in assetto di guerra quella montagna, teatro di battaglia dello scontro perduto più di quaranta anni fa, ma ormai diventato leggenda, e che aveva dato il nome, chissà perché, alla mia sperduta borgata adagiata lungo il torrente Bagnolo.

Durante quella battaglia decisiva questa volta vinta, sparai così tanto che a sera la canna della mitragliatrice era più rovente, come mi venne da pensare con amara ironia, del fiammeggiante forno del Belli. Ma non era stata un’impresa facile; il giorno precedente, percorrendo una piccola pianura, avevamo subìto una fucileria così intensa da impedirci perfino di alzare la testa, tante erano le pallottole che ci fischiavano agli orecchi.

Quel giorno mi trovai a tu per tu con la morte. In quegli istanti tante immagini del mio breve passato mi passarono davanti agli occhi della mente; ricordo di essermi raccomandato con tutto il cuore anche alla Santa Croce, la reliquia tanto venerata da mamma Lucia.

Durante il corso della guerra, spesso mi rincuorava il ricordo di Loretta di cui rivivevo i freschi e prolungati baci; a Dio piacendo l’avrei riabbracciata alla fine del servizio militare. Ma insieme alla sua figura, ogni tanto faceva capolino anche l’immagine di quella faccetta nera vista per pochi istanti, quella dagli occhi chiari e grandi.

 

    L’armata del ras Mulughietà fu infine completamente annientata nel mese di marzo sull’Amba Radam ancora grazie al gas iprite rilasciato a bassa quota dall’aviazione, ed essendo la superiorità delle nostre forze ormai schiacciante. Al contrario tra le file etiopiche sembrava regnasse il caos più completo. 

In Aprile arrivò l'ordine ai primi contingenti di iniziare l'avanzata verso Addis Abeba; una sera attraversammo un boschetto dove l’artiglieria aveva sparato per due giorni di fila. Trovammo pile di morti alte un metro e anche un’infinità di feriti che si lamentavano tutta la notte con grida strazianti.

Il dodici aprile era Pasqua ma anche in quel giorno il rancio non arrivò. Quello era il ringraziamento per le nostre fatiche e privazioni. Alcuni dicevano che se il nostro amato duce avesse saputo come eravamo trattati male noi poveri militari in Africa, mentre gli ufficiali avevano sia il mangiare che il vino, avrebbe preso provvedimenti.

Nel mese di maggio la prima colonna motorizzata entrò trionfante nella capitale. Entrammo anche noi, ed io rimasi affascinato per la bellezza di quella città, una bellezza che non mi aspettavo; palazzi, caffè, trattorie, strade asfaltate quasi come in una delle nostre città.

Sapemmo che il cinque maggio Mussolini si fosse affacciato a Palazzo Venezia per annunciare la conquista di Addis Abeba da parte del generale Graziani e avesse proclamato la “fondazione” dell’Impero. Noi, credendo che fosse tutto finito, fummo contenti e fieri di far parte di un impero.

Invece non era finito niente, ancora violenza e tanta, fucilazioni di massa. I partigiani etiopi, gli Arbegnuocc attaccavano continuamente in qualunque occasione. Alla fine di ottobre i nostri apparecchi gettarono sui villaggi intorno alla capitale bombe che facevano venire la pelle d’oca; l’uso reiterato dei gas devastava foreste e villaggi uccidendo migliaia di persone.

Un giorno catturammo dei prigionieri, fra questi c’era un vescovo copto che fu subito passato per le armi.  Il vescovo era uno dei capi della resistenza ed io ne rimasi sconvolto. Un’altra volta prendemmo quattrocento prigionieri; anche questi furono tutti passati per le armi al campo d’aviazione. Nella capitale Graziani ordinò di reprimere e uccidere con ogni mezzo dissidenti e semplici sospetti, perfino i passanti per la strada che avessero un qualche motivo per sembrare persone ostili.

 

    Qualche settimana dopo, finalmente un po’ di divertimento; al campo sportivo si tennero gare di tiro alla fune, tornei di pallavolo e una partita di calcio tra noi Bersaglieri e la Fanteria. Io entrai nel secondo tempo e vincemmo noi 2 a 1, ma la sera stessa al ritorno dal campo la festa era belle e finita; gli abissini avevano ucciso un carabiniere a colpi di scimitarra. A fine novembre ci dissero che i Granatieri ci avrebbero dato il cambio entro Natale, ma io stentavo a crederci.

Dopo qualche giorno ci fecero fare le prove di ginnastica e di saggio ginnico per la sfilata davanti a Graziani dove io avrei dovuto far parte della piramide umana. Pensai che dopo tanti mesi da militare e di guerra  si dovessero fare ancora quelle bischerate.

Il giorno seguente, alla sfilata il viceré Graziani non ci fece neppure un applauso e tantomeno pronunciò un ringraziamento per tutto quello che s’era fatto; non spiccicò neppure una parola. Questo era il ringraziamento dopo venti mesi d’Africa.

Il nove dicembre del ’36 arrivarono davvero i primi scaglioni dei Granatieri. Era finita. Il ventotto, dopo due settimane di camion, arrivammo al Porto di Massaua, dove la sera stessa ci imbarcarono sul Tuscania destinazione Livorno.

 

    Da poche ore ero arrivato a casa, ma non nella stessa casa. Il legno che dalla stazione di Prato mi portava a Bagnolo pareva non arrivare mai; sapevo dall’ultima cartolina postale, ne avevo ricevute pochissime, di quel cambiamento e friggevo dall’impazienza. I miei durante la mia assenza si erano trasferiti alla Fattoria di Parugiano, poco lontano. Cercavano un uomo di fatica che prendesse il posto del vecchio Bessi, vedovo e, dicevano, morto di crepacuore per la perdita dei suoi due figli, l’uno poco più grande dell’altro. Mi ricordavo bene di loro, erano due ragazzi allegri e robusti e avevano fatto il tragitto insieme a me più di un anno e mezzo prima, dal Mulino fino alla stazione di Prato; entrambi erano deceduti già all’inizio della mia stessa guerra.

Babbo Agostino non ne poteva più delle fornaci e il lavoro nei campi come bracciante sarebbe stato più leggero dell’altro e poi l’uso della casa colonica dove avremmo abitato era inteso senza pigione. Era dispiaciuto a tutti lasciare le fresche d’estate sponde di quel torrente, quella borgata che ci aveva visto crescere noi ragazzi, ma tant’è.

Dopo gli abbracci e i baci e le lacrime di gioia, alla mamma quando mi vide comparire sulla porta le venne quasi un infarto, andai quasi subito ad Amba Alagi. Mi fece uno strano effetto pronunciare quelle parole; mi facevano rivivere sensazioni ancora troppo vive e recenti per essere dimenticate, ma in quel momento passavano in secondo piano. Mi batteva il cuore perché l’avrei finalmente rivista.

Durante la traversata non avevo fatto che pensarci:  – Loretta mi vorrà ancora bene?... come sarà diventata?... sicuro, ancora più bella… icchè la mi dirà vedendomi… –

Da lei nessuna cartolina postale, soltanto mamma Lucia che l’aveva vista andando alla fiaschetteria, mi aveva scritto dandomi sue vaghe notizie e portandomi un suo saluto. Tutto qui e mi pareva troppo poco.

La riconobbi da lontano; nonostante la giornata invernale ma assolata, era seduta sotto quel boschetto di platani dove tante volte con la mia famiglia avevo passato delle ore liete, e mi voltava la schiena. Accanto a lei, seduto anch’egli, un uomo in giacca di tweed inglese e cappello; pensai fosse un amico di famiglia. Mentre mi avvicinavo vidi che l’uomo le prendeva la mano portandosela alla bocca. Sentendo lo scricchiolio dei miei passi si voltarono entrambi; lui si alzò in piedi e si levò il cappello. Aveva dei bei baffi e poteva avere circa trent’anni. Loretta al vedermi sbiancò ma rimase a sedere. Non seppi che dire se non: – Buongiorno Loretta. – Lei, alzatosi, guardandomi fissa come fossi un fantasma esalò come un sussurro: – Luigi… – Capii tutto e fu come se il mondo stesse precipitando.

Lui si presentò; era il figlio del Cappelli, il padrone delle fonderie: – … lei è il suo amico d’infanzia credo, Loretta me ne ha parlato. – e fece un cenno come ad invitarmi benevolmente a sedere; intorno c’erano altre sedie disposte a semicerchio. Trovai la scusa che mi aspettavano presto a casa e che stavo andando alla fiaschetteria per del vino da tavola.

Credo da quel giorno di non averla più cercata. Tornato a casa la mamma comprese quello che era successo: – Te lo volevo dire… ma eri troppo contento e non ho avuto il coraggio. –

 

    Dopo due mesi, pur sapendo il dispiacere che avrei arrecato alla mamma ma anche a tutta la famiglia, firmai per tornare di nuovo in Africa. Cercai di dimenticare, insieme al tradimento di Loretta, tutti i morti, le miserie e le ingiustizie che avevo visto in quell’anno e mezzo di guerra; volevo a tutti i costi scappare da casa.

Un mese dopo ero di nuovo ad Addis Abeba, con il grado di sergente agli ordini del generale Petretti.

Prima del mio arrivo era successa una cosa gravissima; due giovani eritrei, durante una cerimonia, avevano lanciato due bombe a mano contro il viceré Graziani il quale, investito da una pioggia di schegge, era sopravvissuto. Era seguita una rappresaglia violentissima contro la popolazione, mai vista così violenta. La capitale era stata messa a ferro a fuoco anche da squadre di civili italiani armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovassero in strada per dare, come si diceva, una lezione ai negri. Graziani aveva ordinato di sterminare in modo particolare cantastorie, indovini e stregoni, sospettati di predicare contro l’occupazione italiana.

Poi, poiché si dubitava che gli attentatori si fossero nascosti nel monastero copto di Debra Libanos, chiunque fosse stato trovato lì dentro, monaci, pellegrini, e seminaristi, anche ragazzini giovanissimi, fu massacrato a colpi di mitragliatrice. I morti furono duemila. Le vittime, portate a gruppi di venti-trenta sull’orlo di un dirupo, venivano incappucciate e fatte inginocchiare l’una accanto all’altra.

– Bambini terrorizzati, tremanti, che piangevano e gridavano, perdendo il controllo di sfinteri e vescica. I monaci e i diaconi più grandi non potevano nemmeno abbracciarli, perché legati.

Da sotto il cappuccio, mormoravano parole di conforto, invitando i più piccoli a pregare, ma i ragazzini singhiozzavano, non ce la facevano... poi la raffica di piombo rovente bruciava la loro carne spengendo pianto e preghiera... le mitragliatrici spararono per cinque ore, quasi senza sosta. –

Chi mi raccontò tutto ciò fu un mio vecchio commilitone ai tempi della battaglia di Amba Alagi, il caporale Airoldi, ritrovato per caso nel mio stesso reparto. Lui era una persona diversa, con una coscienza e che vedeva le cose per quelle che erano e non attraverso la propaganda. Me lo raccontò piangendo senza farsi vedere da altri. Rimasi addolorato e impressionato. Pensai a che c...o avevo combinato tornando in Africa, ma ormai era fatta.

Dio volle che presto fossi assegnato ad un presidio presso il villaggio di Adua al confine con l’Eritrea, molto lontano dalla capitale. Sarebbe stato un viaggio di novecento chilometri, ma lo considerai come una mano tesa della provvidenza.

Quando arrivammo a destinazione, riconobbi il posto; sul momento non avevo associato quel nome a quel villaggio, ma ora lo riconoscevo. Qui avevo visto la ragazza nera con quegli occhi straordinari. Per molto tempo il suo volto, ogni tanto riapparendomi, mi aveva consolato dalle brutture della guerra ed ogni volta mi ero sentito un po’ in colpa nei confronti di Loretta. Fino a che avevo riposto l’immagine di quegli occhi in qualche recesso del cuore, ma non cancellata.

Pochi giorni dopo la rividi davvero! Era trascorso più di un anno e mezzo ed era cambiata; ora era una donna. La sua snellezza si era arricchita di forme nuove, morbide e sinuose.

Non ne fui proprio sicuro, ma ebbi la sensazione che anch’ella mi avesse riconosciuto; eppure i nostri sguardi si erano incrociati solo per pochi istanti. Mi ricordai che all’epoca il mio graduato, con un complice sorriso avesse dovuto darmi un bello spintone per farmi muovere, essendomi fermato lì come incantato.

 

   Non eravamo tranquilli in quel presidio; in giro circolavano bande di rivoltosi. Il capitano era nervoso e non vedeva di buon occhio che né io, né altri utilizzassimo ogni pretesto per girare intorno al villaggio. C’era una chiesa copta e la domenica andai alla loro Messa che è molto diversa dalla nostra. Le persone, pur molto povere parevano partecipare con dignità e convinzione al rito di cui però, io non capivo neppure una parola. E non mi parevano certo dei selvaggi! Erano piuttosto intimoriti dai soldati italiani la cui presenza avrebbe potuto attirare le scorrerie dei rivoltosi con terribili conseguenze anche per loro stessi.

Continuai per settimane, quando potevo, ad andare alla Messa, subendo le risatine e il sarcasmo dei miei commilitoni che sapevano delle mie palpitazioni amorose. Lei c’era sempre, accompagnata dai genitori e dalle sue sorelle più piccole. Ci parlavamo a sguardi e sorrisi.

Infine suo padre, attraverso il capo villaggio che sapeva un po’ d’italiano disse che avrei dovuto parlare con lui. Fui ospitato nel suo tucul, un’unica stanza con il pavimento in terra battuta coperto da tappeti di canapa. Mi dettero da mangiare e da bere, poi con molta gentilezza ma altrettanta franchezza mi chiese se la mia intenzione fosse quella di sposare Mariyam, questo era il nome della ragazza che io già sapevo, la quale a quelle parole mi guardò in modo strano ma anche con grande tenerezza. Io dissi che sì, che l’avrei voluta sposare.

Il mio capitano, saputolo s’infuriò: – Calamai...  ma come ti viene in mente una cosa simile... ho chiuso un occhio fino ad ora  perché credevo ti interessasse solo di fartela quella negra... ma sposarla? Sei pazzo! –

Mi spiegò che un decreto legge del duce riguardante l’Africa, avesse proibito assolutamente commistioni matrimoniali tra bianchi e abissine. Veniva perfino vietata da allora in poi la canzone “Faccetta Nera” che parlava di bellezze abissine, già da due anni molto popolare in Italia.

Feci spiegare al padre di Mariyam che per ora non fosse possibile quel matrimonio ma che quello fosse mio desiderio per il futuro. Da allora potei andare ogni tanto davanti al tucul per intrecciare faticosamente qualche parola con lei, sebbene i suoi occhi parlassero meglio della sua bella bocca piena e ornata di bianchissimi denti. Un giorno, i suoi erano andati ad un lontano mercato, lei mi prese per mano e mi condusse nel buio di quella sua vasta tenda. Lei fu dolcissima; ed era ancora vergine.

 

    Poi un giorno successe l’inferno. Una numerosa banda di cavalieri abissini, gli arbegnuocc, armati fino ai denti e  guidati da un ras locale, all’improvviso sbucò dal sud del villaggio avventandosi con un urto tremendo contro il nostro presidio che era proprio al margine delle capanne. Entrati con il buio nel fortino sparando all’impazzata, non avevano permesso ai nostri mitraglieri, subito sopraffatti, di reagire. Dettero velocemente il forte alle fiamme e con esso presero fuoco i tucul di paglia e fango del villaggio.

Io, che in quell’ora ero nel turno di riposo, svegliato dagli urli e dagli spari afferrai il fucile, uscii dalla camerata e mi trovai subito ad affrontare un furioso corpo a corpo a cui ne seguirono altri terribili e sanguinosi. Ne uscii illeso, ma con sgomento trovai il capitano riverso al suolo in un lago di sangue, mentre molti altri bersaglieri stavano anch’essi soccombendo. Il presidio era ormai perduto. Sfuggito anche alla scimitarra di un furioso cavaliere che riuscii a disarcionare e poi ad uccidere, presi a correre verso il centro del villaggio dove vidi che anche il tucul di Mariyam era in preda alle fiamme.

Lei ne era fuori ed era disperata e mi fece capire piangendo che i suoi fossero ormai tutti morti. Non solo il fuoco stava divorando furiosamente il villaggio, ma anche la reazione piena di odio dei guerrieri abissini nei confronti di quegli abitanti, sospettati di essere conniventi con gli italiani era passata sopra a quel villaggio come una giustiziera falce della morte.

L’afferrai saldamente per la mano e, con tutto il fiato che avevamo corremmo fuori del villaggio senza più voltarci, fino a un boschetto di banani. Da lì, nel buio più completo, illuminati solo ogni tanto dai riverberi delle fiamme dell’incendio sempre più lontane, arrivammo alle prime propaggini della montagna. Dopo aver camminato quasi tutta la notte, salendo per un sentiero impervio, arrivammo ad un villaggio, di nome Awra Amba dove trovammo ospitalità per la notte e poi anche per i giorni seguenti, fino ad oggi.

Da quel giorno io ho vissuto in questo villaggio sperduto tra le montagne di nord est, con mia moglie  Mariyam. Lei ha affrontato con fatica il dolore per la morte dei suoi familiari e il dispiacere di non aver potuto seppellirli, ma adesso Mariyam sta aspettando un bambino e in questo momento, mentre scrivo, mi sta guardando con una curiosa espressione interrogativa.

Sono praticamente disertore, ma non voglio più essere complice di persone che compiono così tante scelleratezze. Provo nostalgia del mio paese e del mio fresco torrente con i suoi verdi boschi intorno, ma fino a quando nella mia patria non cambierà qualcosa, fino a che gli italiani non potranno dire le cose come stanno con libertà, recuperando la ragione e il timor di Dio, non torno indietro.

Per le stesse ragioni sono preoccupato per i miei cari familiari, so che ora mi crederanno morto e che mi piangeranno; cercherò un modo per far sapere loro che sono vivo e che sono sereno.

Faccio il pastore di capre per conto del capo del villaggio che ci ha preso a benvolere; vivo come loro, sto imparando a pensare come loro, e sto lentamente imparando la loro lingua. Non sono dei selvaggi. Anche qui c’è una chiesa dove con un lunghissimo rito, il prete copto ci ha sposati.

Ho scritto con pazienza non essendo abbastanza istruito queste mie vicende perché rimangano come memoria di chi, un giorno le potrà leggere,

 

Sergente Bersagliere Luigi Calamai

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