SLOT MACHINE

racconto breve

SLOT MACHINE

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... sei solo e, sotto la pioggia battente, fai con grinta la tortuosa e stretta salita da Tobbianella al passo degli Acquiputoli. Con sadica indifferenza avverti che i vecchi pneumatici aderiscono ben poco sulla viscida stradaccia, e sui tratti coperti di foglie secche e scivolose pigi al massimo. Vuoi smaltire la rabbia e qualcosa di più, ma non succede niente.

Hai ancora il nodo alla gola, anzi il nodo si stringe ancor di più come un cappio; senti dentro il vuoto completo, avverti che anche dopo la pazzia che ti cova in mente non starai meglio, ma non cambi idea.

Superato il passo, lanci la tua Golf a centotrenta sulla strada della Val di Bure, tagliando curve che, pur ampie, diventano incredibilmente strette; una velocità pazzesca, ma va bene così.

Sfiori due ignari ciclisti che, nonostante il freddo e la pioggia, stanno sbuffando e sudando in quella lunga salita.

L’odore della tua pelle e quello delle Lucky Strike miscelati insieme nell'abitacolo formano insieme un’aria vomitevole; non la sopporti, sei accaldato, il riscaldamento è violento. Fai scivolare il vetro del finestrino ma a metà della discesa s'inceppa; lanci urli blasfemi e versi disumani: – ... porca troia... porca puttana... ma perché?... – ma sai che non ti aiuteranno a scaricarti.

Poi uno schizzo di pioggia sporca uscito dalle ruote di un’altra macchina scansata per un pelo, ti schiaffeggia la barba incolta. Non hai preso il rasoio in mano da parecchi giorni.

– ... Piero... forse è un errore, sono in confusione... non sono più sicura... non chiamare, ci devo pensare... – le sue angosciate parole sussurrate al telefono ti hanno paralizzato, hanno fermato il mondo e non hai avuto neppure il tempo di chiederle alcunché. Non si fa trovare e non risponde da giorni.

Non vedi la curva, non la stai neanche guardando, per un pelo non investi un gruppetto che sbuca dal bosco; uno di loro ti lancia una bestemmia.

– ... fanculo!... ma che ci fanno con questo tempo... –

Adesso stacchi tutte e due le mani dal volante e chiudi gli occhi per qualche secondo. Riapri gli occhi prima dell’altra curva. Hai l'acceleratore a tavoletta. C’è ancora un’altra curva che non seguirai per sprofondare nel vuoto di una scarpata profonda; con un solo rammarico: ti manca la musica adatta.

– The doors – è questo che desiderano con dolorosa intensità tutte le fibre del tuo corpo, ma l’autoradio è fuori uso; e sei dentro la curva, sei la curva, stacchi piedi e mani da tutti i comandi; mandi un forte grido:

– … puttana miseria, ma… icché succede… s’è spento tutto... – non solo le luci, anche il joystik era insensibile nelle mani di Piero che non comandava più nulla; anzi, gli sembrava di non averlo neppure tra le mani. – Mario... Mariooooo… ma perché s’è spento tutto?… –

– non lo so che succede mannaggia… dev’essere un altro di quei black out del cavolo – mugolava Mario dall’altra parte della sala Slot, mentre inciampando in una sedia continuava ad imprecare: – non trovo le candele… eppure l’avevo messe qui…. –

Fuori, da come era scuro sembrava già notte, e all’interno ancor di più. Il pallido sole già al tramonto, era stato completamente sovrastato da enormi nembi neri, gonfiati ed espanti a vista d’occhio.

C’era anche un cinese di mezz’età che stava giocando nella sala, ad una slot machine poco distante. Lui, come altri cinesi di via Pistoiese era uno di quei clienti che facevano gola ai gestori delle sale giochi Slot & Vlt; ci passava molte ore lasciando spesso un bel po’ di quattrini. Il suo brontolio in mandarino durò più delle urla di Piero ma alla fine cessò, evidentemente rassegnato.

– Stavo prendendo delle curve da Dio… cazzo… s’è spento ogni ‘osa – aggiunse con una strana voce bassa e impastata Piero, mentre il gestore, intanto, riusciva ad accendere le due candele, tremolanti per gli spifferi gelidi che soffiavano a raffica dal portone socchiuso.

– Fuori intanto si era scatenata una bufera tremenda di pioggia mista a leggero nevischio, molto forte per essere ancora ai primi di novembre; i tuoni che rintronavano il locale e i lampi, anche prima del black out, avevano zittito i pochi avventori infreddoliti.

Era durato poco; dopo mezz’ora il temporale era cessato, era ritornata la luce e con essa la corrente ai giochi elettronici che si stavano rianimando come per magia.

– ... ma lo sai… – disse Piero con voce strascicata, pensando di rivolgersi a Mario che però, rinvoltato nel suo mantello cerato, era fuori della porta mentre cercava di spazzare via il fogliame secco dal marciapiede, e non sentiva: –… mi pareva proprio d’esserci… guarda… sono ancora sudato –

Vide che il gestore era lontano, allora si rivolse a voce alta al cinese che nel frattempo aveva già fatto ripartire il suo gioco: – questo videogioco novo gliè una bomba… sembra tutto reale... è una bomba! –

Poi, come avesse avvertito all’improvviso una gran pesantezza addosso, aggiunse in un soffio:  – … ma lei non c’era… –

L’asiatico, che non capiva, gli lanciò appena uno sguardo interrogativo. Piero Dabizzi gli si avvicinò barcollando per dare un’occhiata; vide che il cinese premeva convulsamente un tasto e aspettava, premeva il solito tasto e aspettava. La serie di rulli e di auto rally utilizzate come simboli allineati, creavano delle combinazioni. Poi riguardò la sua postazione; non c’era più il joystick, ma un semplice pulsante.

– Piero era frastornato, uscì dal locale e si accese una sigaretta. Ripensò a quelle curve che gli erano sembrate vere. Si fermò all’angolo con via Bonicoli e, incurante del traffico serale e di ciò che girava intorno a lui, si mise a sedere su di un umido muricciolo con il cappuccio del giubbotto in testa.

ll cielo era tornato chiaro con un filo di viola all’orizzonte e cosparso di nubi sfilacciate; il tempo si era sfogato.

Stette lì seduto al freddo come uno scemo per una buona mezz’ora; poi rabbrividì, sentiva che stava bruciando per la febbre. Abitava non lontano; finalmente si alzò e si trascinò faticosamente fino alla porta di casa. All’improvviso rabbuiò davvero; le giornate di novembre, con l’avvento dell’ora solare finivano molto presto.

Viveva solo, aveva trent’anni ma si sentiva già vecchio. La testa gli scoppiava e non aveva fame, anzi aveva voglia di vomitare ma senza gli venisse alcunché: – ... ma icché mi succede? ... – Trascorse tutta la notte tra il letto e il bagno, una notte quasi insonne e quando riusciva a chiudere gli occhi veniva assalito da visioni spaventevoli di incidenti, di lamenti e di morti. Era davvero una grossa sbornia quella che aveva preso a forza di grappini alla pera e di vodka ghiacciata Keglevich.

– Al mattino, era sabato e l’orditoio quel giorno era fermo perché non c’era abbastanza lavoro, rimase a letto; riuscì finalmente ad infilare qualche ora di sonno. Quando si alzò erano le undici passate. Si dette subito un’occhiata allo specchio: – ... son proprio un cencio... fo schifo... –

Poi, seduto di nuovo sul letto trasalì un po’; il ricordo della serata trascorsa via via si faceva sempre meno nebbioso. Realizzò che nel bar di Mario non ci fosse mai stato nessun videogioco; c’erano invece le slot, le macchine mangiasoldi adesso anche in versione Vlt. Si rendeva conto da tempo che anche lui era preda di quella dipendenza: – ... accidenti, mi devo staccare da quelle macchine... ma non ci riesco... –

Era stato il vero motivo che aveva fatto allontanare Cristina. Lei gli voleva bene ma aveva la testa sulle spalle e già da tempo lo aveva avvertito: – ... se non smetti... mi dispiace Piero... non me la sento più... – Poi una sera si era messa a piangere: – che futuro ci può essere... pensavo che tu potessi farcela... – Un altro giorno gli aveva fatto un discorso strano: – ... qualche volta ci rimetto le penne per te... ma che te lo meriti?... eh?... –

Tuttavia la sera precedente gli era sembrato davvero di star scendendo come un pazzo dalla Cascina di Spedaletto – ... quel videogioco... era talmente reale... boh... e invece non c’è nessun videogioco... stavo solo schiacciando un pulsante... –

– Scese, era una bella giornata luminosa. Da Mario prese un cappuccino, la febbre era sparita e, incollati alle macchinette c’erano già i cinesi ipnotizzati dai rulli girevoli con le immagini impazzite. Li guardò, gli fecero pena, come si faceva pena per se stesso. Ognuno di loro si stava auto ingannando; una parte del loro cervello sapeva che alla fine avrebbe sempre perso; ognuno di loro aveva il proprio slot preferito, la propria grafica preferita, quasi una variabile di un misterioso e diabolico antropomorfismo. Anche Piero lo sapeva, non tanto vagamente lo aveva sempre intuito, ma l’attrazione del gioco era potente.

Uscì e corse alla macchina con la sigaretta in bocca; voleva scappare di lì, almeno quella mattina. Ma dopo pochi passi si fermò: – ... ma in dove sto andando... ma quale macchina?... – disse a voce alta con un sorriso amaro, facendo voltare un passante pensando che dicesse a lui. I fumi dell’alcol, a cui Piero non era abbastanza abituato, erano finalmente scomparsi del tutto e con loro la nebbia della ragione. Aveva cercato senza accorgesene, di rimuovere tutto.

La sua Golf si trovava al deposito dei vigili urbani di Pistoia e aveva una fiancata quasi distrutta. Anzi, avrebbe dovuto essere andato dai vigili, già da diversi giorni. Doveva firmare delle carte, ma non sapeva davvero come fare; c’era da pagare il costo del deposito, quello per il carro attrezzi e sicuramente anche una multa; un automobilista aveva visto quella macchina scendere ad una velocità incredibile. – ... e poi?... chi ce l’ha i soldi per accomodarla?... – Non aveva più un quattrino, l’aveva messi tutti in quelle macchinette elettroniche.

– La corsa a rotta di collo giù per la panoramica l’aveva fatta proprio la mattina di Tutti i Santi. La sera precedente, in trance alcolico e obnubilato dallo spasmo del gioco d’azzardo, l’aveva vissuta di nuovo. Si mise a ridere. – ... son proprio un bischero... non mi riesce neanche d’ammazzarmi... –

Oltre quella curva affrontata a mani sollevate dal volante, non c’era né una scarpata né un muro d’alberi; c’era un largo prato sconnesso e in salita e poi una fitta macchia fatta di rovi e d’arbusti. La corsa della Golf, ormai rallentata, era terminata contro i faggi che si ergevano subito dietro quella macchia.

Si era risvegliato stordito per una lieve commozione cerebrale e ammaccato, ma senza gravi conseguenze. La Croce Verde avvertita da qualcuno l’aveva trasportato velocemente all’ospedale San Jacopo, dove l’avevano tenuto due giorni in osservazione.

Quella mattina intanto, come cieco, incurante di sapere neppure dove fosse, aveva continuato a camminare. Come non vedesse null’altro, vedeva davanti a sé solo il suo futuro, un futuro nero e incerto. Fu pervaso da una tristezza infinita; aveva gli occhi umidi e gli venne in mente Cristina. – ... ormai l’ho persa... ormai l’ho persa... –

– Non si era reso conto che intanto erano già passate le tre del pomeriggio, quando sentì prima un brusìo, poi delle voci più forti: – ... guardate... che fumo... laggiù... – La gente indicava una colonna molto alta di fumo nero in direzione della Porta Pistoiese. Nell’aria si sentiva l’odore acre di bruciato e in lontananza il suono delle sirene dei pompieri.

Piero Dabizzi si scosse dai suoi pensieri; si trovava in Via Cesare Guasti davanti alla vetrina di un fornaio. Intorno a lui tanta gente per il consueto spasseggìo in centro del sabato.

Ebbe uno strano presentimento, come se quell’incendio in qualche modo lo riguardasse. Sentì il bisogno di tornare sui suoi passi; si incamminò ma una volta raggiunta piazza San Domenico si mise a correre.

La colonna di fumo e fiamme veniva proprio da Via Pistoiese; attraversò di corsa il semaforo con il rosso e in breve si trovò vicino all’incendio, ma non potè avvicinarsi, i carabinieri lo stavano impedendo a tutti. Capì subito che stava bruciando proprio il bar di Mario e le case appena adiacenti.

– ... ci son dei morti là dentro... almeno quattro... tre son cinesi... – Piero sentì con un tuffo al cuore quei discorsi; poteva trovarsi anche lui lì dentro: – ... ma come è successo?... – chiese angosciato ad uno che sembrava informato.

– ... parlano di una bomba incendiaria a tempo... – ... a tempo? ma icché vuol dire?... – sembra che l’abbiano messa stanotte... – spiegò quello che sapeva tutto. Un altro, da dietro sibilò: –... ve lo dico io... c’è di mezzo la n’drangheta... – Un uomo di mezz’età, anche lui sembrava uno che la sapesse lunga, accennò al fatto che in quel bar, forse protetto davvero da qualche cosca, le slot fossero completamente fuori norma, prive di autorizzazione e non collegate all’agenzia dei Monopoli.

E una donnina in tono acido aggiunse piano, ma non abbastanza: – ... comunque, meno male... son tutti cinesi quelli morti... – ... no... forse c’è anche il barista... come si chiama... Mario, il napoletano... – aggiunse un altro ancora.

Piero rimase sconvolto. Mario era simpatico e faceva di tutto per tenersi i clienti; raccontava perfino le barzellette in dialetto. – ... e poi icché c’entra?... cinesi o no, i morti son tutti uguali... – pensò girandosi accigliato verso quella donnetta.

– Poi volse lo sguardo dall’altra parte del cordone di sicurezza delimitato dai nastri bianco-arancio e la vide; era proprio lei. Cristina, rossa in viso discuteva animatamente con un carabiniere, il quale però la stava trattenendo per un braccio.

– ... Cristina!... Cristina!... – la chiamò forte ma non sentiva; la confusione era enorme e lei era ad una certa distanza. – ... ma icché la ci fa qui... – pensò, chiedendosi anche, meravigliato, di che cosa avesse mai da discutere con quel brigadiere. Allora prese a correre per raggiungerla. Le strade intorno erano state chiuse e c’era un certo tragitto da fare intorno all’isolato.

Non aveva ancora fatto in tempo ad arrivarle vicino, da dietro, quando Cristina, che pure non aveva una gran forza fisica, era riuscita d’un tratto a divincolarsi dalla stretta del brigadiere e, come una furia, aveva iniziato a correre verso la porta del bar vomitante fiamme paurose.

Il carabiniere, preso di sorpresa la rincorse, ma inciampò goffamente in un grosso idrante dei pompieri. Dietro di lui intanto, attraverso il varco lasciato libero, Piero si era lanciato in una folle corsa, come folle d’amore era il tentativo messo in atto di Cristina.

La raggiunse con un balzo facendola cadere per terra, appena prima che l’enorme vampata di calore dell’edificio in fiamme la potesse ustionare e uccidere. Quell’impatto le aveva fatto perdere i sensi; lui subito la sollevò, la prese in braccio e corse via lontano da quell’inferno.

– Piero si accucciò accanto alla lettiga, mentre l’ambulanza della Misericordia a sirena spiegata filava verso il Pronto Soccorso.

Cristina durante il tragitto riprese presto conoscenza; si guardarono, si spiegarono con gli occhi velati, poi piansero e si scambiarono umidi baci.

Il mondo per loro ricominciava a girare; nulla era perduto.

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