LA ZIA MELIA

la zia melia

LA ZIA MELIA – racconto breve – quasi vero

 

“... zia, sei stanca?” chiese Dora mentre scendevano dal mezzo. Da Bagnolo avevano preso un “legno” al mattino presto per arrivare ad un’ora decente a Prato. Il mezzo le aspettava proprio davanti al cancello della fattoria di Parugiano e vi erano salite insieme ad altre tre persone.

Dora, era una bella e florida ragazza di ventun anni che portava i lunghi capelli color castano chiaro su una spalla; sorridente e servizievole non era uscita molto spesso dalla fattoria ed aveva accolto volentieri l’invito della zia di accompagnarla a Prato. Il periodo della guerra era stato duro per tutti, soprattutto per le popolazioni cittadine, ma in campagna, al netto dei lutti di guerra che non erano mancati per nessuno, era stato un po’ diverso.

Alla fattoria di Parugiano si erano difesi bene e la famiglia Guarducci non si poteva lamentare, non era mancato proprio nulla; avevano dei begli orti, tanti alberi da frutto compreso un grande noce, e tenevano bene gli animali da stalla tra i quali spiccava in modo particolare Nello, il toro da monta. Nello, enorme di stazza, era richiestissimo da tante parti per la sua bellezza e la sua efficienza. Si diceva che sprecasse ben poche cartucce.

Dunque Dora, che non aveva un viso bellissimo, ma piacevole e sorridente, era bene in carne ed apprezzata dai giovani della zona, tuttavia Duilio Pacini, vicino di casa e mezzadro della fattoria insieme alla sua famiglia, anch’egli giovane e bellino, aveva già fatto intendere per primo le sue pretese, ma a modo suo. Aveva infatti una certa sua maniera di rapportarsi con la Dora, un modo quasi canzonatorio ed apparentemente irridente che sul momento lasciò perplessa la giovane:

“... no eh!... io quello lì, no e no!... non lo voglio... ”

si sfogava con la Palmerina, sentendosi a volte presa in giro da quel moretto asciutto ed energico.

E invece pian piano si era innamorata dei suoi scherzi sempre più lievi e dei suoi stornelli che era bravo ad improvvisare davanti alla gente nel mese di maggio. Adesso, quando veniva in casa sotto lo sguardo vigile della Ginetta, scherzava meno e la guardava di più negli occhi, chiedendole l’elemosina di qualche fuggevole bacio.

Il legno sobbalzò passando sul ponte del torrente Bagnolo facendola ritornare in sé da quei ricordi appena recenti. Si accostò di più alla zia per non farsi sovrastare dal rumore degli zoccoli e delle ruote che saltavano sulla strada sconnessa: “... zia, come sta la signora Luisa... è ancora malata?”

Poi, dopo una pausa, il tempo impiegato dal legno per arrivare alla cappella di Sant’Isidoro sulla strada per Maliseti: “... senti zia... mi spiegheresti come andò con le perdite dei risparmi... sai... il vecchio fattore... il vecchio signorino... il gioco... eh?... ”

Alla prima domanda Amelia rispose subito che la signora si era ripresa bene dalla leggera bronchite. La signora Luisa era la figlia del marchese Coppedè, un rinomato architetto che nel ’36 aveva rilevato la fattoria dagli eredi della famiglia nobiliare de’ Pazzi, che da secoli avevano abitato l’omonima e bellissima villa cinquecentesca situata all’interno della fattoria stessa.

Dora era affezionata e riconoscente verso l’ancor giovane signora, sua generosa e quasi tutrice della più piccola dei Guarducci; vedendola ambiziosetta la consigliava come vestirsi e le faceva qualche piccolo regalo.

Attigua alla villa c’era la cappella privata decorata di fantasiosi e ricchi affreschi del sedicesimo secolo, intitolata a santa Maria Maddalena de’Pazzi, la mistica che proprio in questa fattoria ebbe la sua prima visione estatica. Dora quindi, fin da bambina era stata la più coccolata di una famiglia contadina relativamente benestante, circondata da cose belle ed aveva scorrazzato felice per prati e giardini arricchiti da alti platani e da una folta quercia.

Da ragazzina, con il suo amico Cirillo saliva su l’elegante “versò” che dava sulla strada, un piccolo terrapieno terrazzato, guarnito di fiori e da piante rampicanti, e da lì, nei giorni di mercato quando la gente vi passava davanti, l’ingenuo divertimento era quello di gettare dei sacchetti vuoti di sotto per vedere chi avrebbe sostato per curiosarne il contenuto.

Tuttavia, nei racconti dei vecchi e dei genitori, risalenti a fatti avvenuti circa dieci anni prima, probabilmente antecedenti all’avvento della nuova proprietà, avvertiva un vissuto sofferto, delle ingiustizie subite senza alcuna possibilità di legittima rivalsa. Le sembrava di aver sentito di certe perdite al gioco di azzardo, perdite immense. I contadini della fattoria che, incoraggiati dalla proprietà, usavano affidare, non senza un certo orgoglio, i loro risparmi al fattore come fosse stata una banca, si erano ritrovati allora defraudati e impoveriti.

Ma i due fratelli Guarducci a quanto pare si erano ripresi abbastanza presto e molto bene; i poderi loro affidati erano rigogliosi e Nello, il maestoso toro che non perdeva un colpo era fonte sicura di guadagno, sia pure a mezzadria.

Era comunque un ricordo doloroso che tutti cercavano di rimuovere e anche la zia Melia non faceva eccezione. Infatti alla domanda della nipote fece finta di nulla, come non avesse neppur sentito. Quando le faceva comodo diceva o fingeva di essere un po’ sorda.

Dora non insistè, dopotutto erano fatti ormai lontani; adesso lei era occupata ad osservare una fila di case nuove, mentre il legno scorreva ballonzolando dalle parti della Chiesanuova.

Finalmente erano arrivati alla posta dei calessi vicino alla porta Pistoiese e, afferrato un manico della grossa borsa per ciascuna si erano incamminate per via San Silvestro. Dora era affezionata alla zia Melia e non le aveva chiesto se fosse stanca soltanto per formale educazione. Avevano vissuto sempre insieme alla fattoria e l’aveva sempre vista come una zia un po’ bisbetica ma, tutto sommato affettuosa.

Mentre procedevano con un po’ di fatica verso il centro le venne di ripensare alla sua mamma, a quanto fosse diversa dalla zia; eppure vivevano fianco a fianco da tanto tempo nella stessa casa, usavano la stessa madia, governavano lo stesso pollaio.

La Ginetta, era di tutt’altra pasta; energica, positiva; anteponeva a tutto l’interesse dei figli: Gioacchino, la Iole, l’Alba e lei, la più piccina. Certo, la ferita di Arturo non si era mai rimarginata.

Il suo bell’Arturo, quando fu l’ora della patria aveva risposto con entusiasmo; era partito, insieme ad un piccolo drappello di montemurlesi alla volta della caserma Settesoldi in via Marco Roncioni, ai primi di giugno del ’41, con il cappello da bersagliere e le penne di fagiano al vento.

“... mamma torno presto, non ti preoccupare... ”

Non erano abituati a tanti sbaciucchiamenti nelle famiglie di contadini, ma quella mattina Arturo si era fatto teneramente baciare dalla Ginetta e lui l’aveva abbracciata con calore. Il babbo Vittorio no, non l’aveva abbracciato, gli uomini non usavano. Era preoccupato, la guerra non era uno scherzo ma era anche fiero del figliolo; gli aveva appoggiato una mano sulla spalla sopra alla mostrina da caporale sfiorandogli con la mano callosa il giovane collo quasi senza parere, mentre gli occhi gli luccicavano.

Ma poi Arturo non era mai tornato. Dopo le due lettere arrivate nei primi mesi dal fronte russo, non si seppe più nulla, ma Ginetta non si era mai arresa; sperava ancora. Spesso alla sera, anche quando l’aria fresca di ottobre o di novembre la faceva rabbrividire, seduta fuori della porta, teneva lo sguardo verso il cancello, mentre la mano scorreva i grani del rosario.

Nella seconda lettera, aveva detto di sentirsi bene e anche che la sua divisione di bersaglieri era stata posizionata nei pressi del fiume Don.

Dopo la grande disfatta e dopo ben tre anni qualche reduce dal fronte russo era riapparso, ma si sapeva che la grande maggioranza dei sopravvissuti fossero stati prima rinchiusi nei lager tedeschi e successivamente nei gulag sovietici.

La Dora, nel ritornare con il ricordo a quella mattina di giugno le si inumidirono gli occhi. Voleva molto bene al fratellone anche se ne era stata spesso vittima a causa dei suoi scherzi. Lui, il più esuberante dei fratelli, non finiva mai di inventarne di nuovi.

Quando Dora, ormai già un po’ grandina, chiese come facessero a nascere i bambini, Arturo le spiegò che i bambini li facevano con il pane e poi li mettevano a cuocere nel forno. La ragazza, tra la nascosta ilarità dei presenti lo stette a sentire per qualche minuto, anche se non era convinta del tutto. Quando le fragorose e irrefrenabili risate dei fratelli le svelarono la burla, si arrabbiò parecchio, ma quell’aneddoto le rimarrà ormai appiccicato per anni come un suo tratto distintivo.

Era anche spregioso, ma per divertimento; metteva un dito nei bicchieri delle schizzinose sorelle oppure bagnava loro il viso con le bucce del cocomero e altre amenità del genere che non conviene raccontare ancora per non macchiare ancor più la memoria dell’eroe deceduto presumibilmente di sofferenze indicibili tra i ghiacci del Don.

“... ah, che birbone... ma com’era bello... ” sospirò Dora rammentando quelle cose, mentre passavano con la pesante borsa davanti alla chiesa monumentale di San Domenico.

Amelia Gori in Guarducci, o zia Melia come la chiamavano tutti, indossava un tailleurino verde scuro senza fronzoli; giacca squadrata stretta in vita e gonna diritta. Dava l’idea di essere pronta a combattere, ma ai capelli tenuti bene ci teneva; quella notte si era messa i bigodini. Tuttavia stava sbuffando; il sole all’undici del mattino di un giorno di fine luglio picchiava già sodo.

Nelle strade del centro cittadino c’era un certo via vai; la città si stava rianimando, qualche fabbrica aveva ripreso a tessere il panno e la flanella e si cominciavano a sentirne gli effetti. Passando svelte da Via De’ Banchi osservarono curiose quanta gente venisse da Via del Pesce o vi svoltasse, verso quelle numerose e fornite rivendite alimentari. Certo che il periodo nero della guerra civile era stato pesante.

Il mese di agosto dell’anno precedente, cioè dell’anno 1944, era stato orribile per Prato. I tedeschi erano stati attaccati ripetutamente dai partigiani ed essi avevano sfogato la loro rabbia distruggendo fabbriche private e strutture civili. Si ricordava che tra il tre e l’otto settembre si fosse venuto a creare un periodo cruentissimo di emergenza, durante il quale Prato era diventata terra di nessuno. I fascisti ancora attivi stavano collaborando con i tedeschi, mentre il Comitato di Liberazione Nazionale dava l’ordine ai partigiani della brigata Buricchi di occupare la città.

Di lì a poco, il cinque settembre, a partire dal monte Iavello, sarebbe iniziata la loro marcia verso Prato con circa duecentocinquanta uomini. Ma, arrivati in località Pacciana, trovarono i tedeschi disposti lì da tempo. Avevano piazzato due obici e scavato postazioni per le mitragliatrici. I tedeschi, evidentemente, sapevano tutto sullo spostamento della Buricchi. Erano in attesa e nessuno seppe mai come la cosa fosse stata possibile. Erano ben armati e pronti a colpire quella brigata che aveva dato loro tanti problemi e che mai avevano osato andare a sfidare fino ai Faggi di Javello.

Quei ragazzi così circondati, solitamente allenati a colpire e a dileguarsi, erano capitati sotto il tiro preciso delle mitragliatrici tedesche. Lo scontro fu durissimo e non restò loro altro che ritirarsi di nuovo ai Faggi; ma lassù furono di nuovo sorpresi dai tedeschi arrivati ancor prima.

La violenta sparatoria durò fino all’alba, seguita dal setacciamento del territorio e la caccia all’uomo. A Figline i partigiani catturati furono raggruppati con le mani alla nuca e condannati a morte tramite impiccagione sotto l’arco di una stretta via; furono impiccati in ventinove. Al priore di Coiano fu impedito di benedire quei ragazzi. Don Milton Nesi li benedì da lontano.

La sera del sette gli americani entrarono in città. Quei ventinove morti e lo stillicidio di rancore che, iniziato da subito sarebbe continuato per molto tempo, crearono un clima di caccia alle streghe. Il fascismo era visto come il principale responsabile dei danni di quei quattro anni di guerra. Tra la liberazione di Roma e l'assestamento del fronte sulla Linea Gotica, nei mesi precedenti in Toscana c'erano stati circa duecentoquaranta eccidi ad opera dei tedeschi con 3.740 morti.

All'insediamento in palazzo comunale, il Comitato di Liberazione Nazionale ordinò che i fascisti o supposti tale di Prato fossero arrestati e tenuti prigionieri dentro il Castello dell’Imperatore, disponendo però che fossero per il momento soltanto interrogati.

Ma tra le mura merlate una parte dei prigionieri venne giustiziata, con mitra, pistole o fucili, perfino lungo le scale laterali sotto al grande portale. Le prime esecuzioni, indiscriminate e senza alcun processo seppur sommario, avvennero di prima mattina e proseguirono fino a sera.

Monsignor Franchi, dell'attigua chiesa di Santa Maria delle Carceri, chiese di poter confessare quelli che sarebbero stati giustiziati, ma non gli fu concesso.

Amelia, probabilmente inconsapevole di tutto ciò, di tutto quell’odio che forse si respirava ancora tra le mura cittadine, quella mattina era presa dal suo prezioso fardello. Alla fattoria di Parugiano, distante da quei fatti, erano arrivati degli echi, ma niente di più.

La donna aveva cinquantadue anni, era ancora in buona salute, ma non era mai troppo contenta. Tra i suoi crucci c’era anche quello di non essere riuscita a mettere al mondo almeno un bambino, il figliolo che lo zio Borchia aveva tanto agognato. In realtà neppure lui si chiamava così; d’altra parte a Bagnolo, a quei tempi era un vezzo: ogni maschio che si rispettasse fin da ragazzo doveva avere un soprannome, poi magari con il tempo spesso nessuno si ricordava più come mai glielo avessero affibbiato.

Comunque a Dante Guarducci quel soprannome gli veniva forse da una qualche attitudine non ben definita riguardo alla manutenzione delle ruote del carro; dicevano fosse quasi una sua fissazione. Di lui dicevano anche che fosse tanto tirchio, di una tirchieria così grande che alla Dora lo zio faceva quasi rabbia: “... oh... ma come farà a essere fratello di mi’ babbo?”

Dal taschino puzzolente della giacca di lana pettinata che indossava imperterrito anche in mezzo ai campi di patate, o quando spandeva il concio portando per le briglie le due giumenta, immancabilmente sporgeva un mozzicone di toscano che accendeva e spengeva parsimoniosamente almeno tre o quattro volte al giorno.

Invece Micia, l’ancor più strano soprannome di Vittorio, il babbo della Dora, era tutto il contrario: alla cooperativa, in Bagnolo, dove alla sera si ritrovavano in tanti per un giro di briscola, lui per primo offriva il bicchiere di vino; eppoi era scherzoso, fin troppo, proprio come il figlio Arturo. Una mattina d’inverno tirava un gran vento e la Dora allora ancora bambina aprì la porta di casa per andare a scuola con i suoi amici del cuore, la Palmirina e Cirillo.

“... Dorina... metti un po’ di sassi in cartella... sennò oggi il vento ti porta via... “

Quella mattina i sassi ce li mise davvero in cartella e la scuola della “Rocca” era lontana almeno tre chilometri e vi si arrivava dopo un lungo tratto di salita. Al ritorno da scuola, sudata e sfinita, i sassi erano ancora nella cartella. Al babbo voleva ancora un gran bene e lo aveva perdonato, ma quello scherzo se lo ricorderanno tutti, fratelli e sorelle per tanto tempo; e adesso che era donna fatta, ripensandoci, Dora si sentiva tuttora impermalita.

Arrivarono in piazza del Comune. Non ce ne sarebbe stato bisogno, ma le due donne, non essendo tanto pratiche del centro cittadino, stavano facendo un giro largo per arrivare in via Magnolfi dove si trovava la filiale della Banca d’Italia.

“... Dora... son sudata macola... ci si ferma un minuto?” sospirò la donna che, accaldata, con la mano libera si stava sventolando con un ventaglino nero; un ricordo della sua famiglia d’origine che teneva sempre in gran conto. Non c’era nulla per sedersi, salvo le sedie del Caffè delle Logge, attiguo alla fontana del Bacchino, riaperto da poco dopo le traversìe della guerra, ma non era certo il momento di mettersi a un tavolino. Ma poi, spendere per un thé; no, non era proprio il caso.

Posarono la borsa per terra e la zia appoggò un po’ la schiena al muro delle logge: “... a me tu mi devi dire... e’ dicano che ci sia la svalutazione...mah... speriamo a bene!”

Nella voluminosa borsa c’erano i risparmi di tanti anni, suoi e dello zio Borchia. Si sussurrava che lui diffidente per natura, a suo tempo non li avesse consegnati tutti al fattore; e poi non avendo figlioli ed essendo così avaro, anche dopo la dolorosa sparizione dei risparmi dei mezzadri, ne aveva messi da parte tanti altri di quei pampani, come li chiamava la zia Melia.

Nessuno sapeva con precisione dove, in quegli anni, le avesse tenute nascoste tutte quelle banconote via via accumulate. Erano banconote enormi; per poter essere infilate nel portafogli, venivano ripiegate in quattro; in prevalenza da mille o da cinquecento lire, marroni o rossicce e con il simbolo del fascio littorio, ma molte anche da dieci e da cinque. Tant’è, quella borsa pesava parecchio. Dora aveva sentito dire dalla mamma che con quei soldi, di cui tutti in famiglia conoscevano l’esistenza, i cognati avrebbero potuto comprarsi una casa nuova.

Quella mattina presto, prima dell’alba, Dante Guarducci aveva preparato con cura l’ampia borsa di cuoio nero chiudendone la sommità con il lucchetto. Gliel’aveva consegnato prima della partenza: “... la chiave, Amelia, tieni... mettila nel reggipetto e apri solo quando l’è l’ora... capito?”

Dopo aver ripreso fiato, le due donne percorsero leste via de’ Sarti e sbucarono in piazza del Duomo.

La zia adesso era inquieta, Dante non era voluto venire, aveva dei brutti presentimenti; alla cooperativa l’aveva sentito dire della svalutazione. Loro il pane se lo facevano da sé, il forno della fattoria bastava per tutti, ma all’appalto di Bagnolo, prima dell’entrata in guerra, il pane costava una lira e mezzo; e ora ce ne volevano novantacinque o cento, di lire.

“Amelia... i conti tu li fa’ meglio te di me... ma sta’ attenta... ”

 

La zia Melia era attaccata alle cose del mondo come il marito, ma era anche una donna di fede. Così volle entrare in Duomo a salutare la Madonna del “Sacro Cingolo”. Si sedettero in silenzio per qualche minuto davanti a quella artistica inferriata di ferro battuto. Lì dentro, nella penombra della prima campata c’era un sentore di pace e l’aria era fresca.

I pensieri e le preghiere della Dora rivolti alla serena Madonna con Bambino del Pisano, oscillavano tra il patire della sua mamma Ginetta che non smetteva di sperare, e della quale ogni tanto ne carpiva lo sguardo triste e il brillìo degli occhi celesti del suo Duilio, la cui immagine la faceva palpitare di contentezza.

Uscendo dal Duomo, la ragazza volse lo sguardo all’insù, verso il pulpito di Donatello. La signora Luisa le aveva detto: “... se vai a Prato dai un’occhiata al pèrgamo di Michelozzo e Donatello... è come appeso alla facciata... sembra un nido...”

Dora che fin da piccola, curiosa, i nidi era abituata a osservarli davvero sugli alberi della fattoria, lo guardò per qualche istante e pensò che davvero fosse molto bello, mentre la zia ferma ad aspettare, ormai in ansia, guardava lei con aria interrogativa.

La filiale della Banca d’Italia era quasi alla fine di via Magnolfi, non distante dalla stazione del “Serraglio”. La strada, fiancheggiata da palazzi in stile neo cinquecento appariva magnificente. Era stata costruita alla fine del secolo precedente sui terreni del soppresso convento di San Giorgio, per collegare l’unica stazione della città a Piazza del Duomo. Superata una singolare e alta torre che campeggiava sulla sinistra raggiunsero in breve l’austero e grande portone ad arco della banca.

Il colloquio con il direttore, chiamato apposta dall’impiegato vista l’imponente borsa piena di soldi, fu penoso per la povera donna che non si capacitava. Tuttavia, di fronte all’evidenza, non era persona che non capisse le cose, alla fine si convinse. Le furono cambiate le vecchie banconote con “titoli provvisori“ da cinque e diecimila lire, grossi tagli diventati necessari a causa della fortissima svalutazione.

“... signora Guarducci... mi dispiace... ” Sembrava dispiaciuto davvero il giovane direttore che indossava un abito scuro a doppio petto senza gilet che in quel periodo era considerato cosa superflua; mentre la stoffa, a righine sottili di misto rayon, era di materiale povero e lucidicchio. La guerra finita da poco, aveva costretto anche i dirigenti delle banche a qualche ristrettezza.

Tuttavia il direttore, che ad un certo punto dovette rispondere ad un nero e pesante telefono posto sulla monumentale scrivania, assomigliava in maniera impressionante all’attore Vittorio de Sica e il fatto attirò l’attenzione della ragazza. Non era il momento più opportuno per simili divagazioni, ma non ne potè fare a meno.

Si ricordò, ma solo per qualche istante, di un film, uno dei pochissimi che aveva visto in vita sua. Era stata una domenica memorabile, ormai trascorsa da più di cinque anni. In quei giorni nell’aria si respirava una grande eccitazione. Proprio Arturo che era un entusiasta del regime volle festeggiare perché il duce, pochi giorni addietro, proprio la domenica precedente, una domenica di inizio giugno, aveva annunciato l’entrata in guerra durante lo straordinario discorso di palazzo Venezia. Così aveva convinto Gioacchino, che era il fratello più anziano a portare la Dora e l’Alba al cinematografo a Pistoia. Partirono tutti e quattro con il legno della fattoria, subito dopo il desinare domenicale, sotto lo sguardo attonito dello zio Borchia che non concepiva assolutamente quelle dissolutezze.

“Le due Madri” era un film veramente commovente e Dora pianse tanto. La scena del telefono, evocata adesso da quel giovane direttore che stava telefonando, le era sembrata indimenticabile, come lei raccontò la sera stessa alla mamma. Quell’episodio, di carattere ingenuo e popolare era in effetti di una certa efficacia e di vivo sapore lirico; lei era bellissima e lui era così bravo e bello. Il film, che i quattro fratelli rividero per due volte consecutive ebbe davvero in Italia un grande successo di cassetta.

Ma quei ricordi le si interruppero bruscamente; il direttore, smessa la telefonata, stava spiegando ad una incredula zia che al momento si calcolasse che la lira, rispetto all’anteguerra, fosse diminuita di valore del novantotto per cento. Per la zia Melia fu un colpo durissimo; non se lo aspettava così pesante. Pur essendo contadina, la sua dignità e l’innato senso dell’onore, sull’istante le impedirono di scoppiare in lacrime e la fecero somigliare piuttosto a una vera signora.

Uscirono con la borsa di cuoio nero sgonfia e leggera. Dora, che la portava ormai da sola prese a braccetto la donna affranta, sbirciandone il viso basso e rigato di lacrime silenziose. Aveva tanta pena per lei ma era troppo giovane e non avrebbe saputo come consolarla. Camminarono senza dirsi una parola fino alla piazza del Comune.

Arrivate davanti alla Fontana del Bacchino, Amelia Gori in Guarducci ebbe come un fremito. Sollevò la testa, poi guardò la nipote negli occhi. I suoi erano ancora umidi ma non più così affranti. Dora, sorpresa, ricambiò lo sguardo e, dopo un attimo di esitazione l’abbracciò forte.

“... senti Dora... siamo sopravvissuti alla guerra e non ci manca nulla... la vita va avanti...” mormorò la zia con un misterioso sorrisino; poi con gli occhi le indicò il tavolino ancora libero, proprio quello posto vicino al dio Bacco bambino, zampillante di vino e come ammiccante a non prendersi troppo sul serio; stante l’umana precarietà sempre pronta a farci compagnia in ogni istante, e ad ogni angolo di strada.  

F i n e

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