IL DITO DELLA RITA

IL DITO DELLA RITA – racconto breve – quasi vero

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- Paolino si era affacciato alla porta di casa. Lo faceva sempre a quell’ora pomeridiana, per cercare con lo sguardo se i suoi amici fossero già in giro. Vide solo due cani uscire sulla strada dal cortile del Benelli; uno era grosso e nero, l’altro piccolo e marrone rossiccio con l’aria da cucciolo, che presero a zampettare intorno al barroccio che stava passando in quel momento, carico di pezze a disegno scozzese e a colori vivaci. Il mulo che lo portava lento aveva appena lasciato sulla strada larga e sterrata il segno fumante e giallognolo dei suoi bisogni e, dondolando la coda, forse soddisfatto scoteva il capo all’ingiù.

- Il figliolo di Adelmo Cecchi e della Rita era un ragazzino tranquillo, faceva i compiti abbastanza in fretta ma senza trascuratezze e piaccicotti e poi sentiva il richiamo dell’aria aperta.

A lui la scuola piaceva, parecchio; era curioso e ci trovava soddisfazione. Era passato all’esame d’ammissione dalla quinta, come usava allora. La maestra Maseani gliel’aveva sconsigliato: – ... Rita... il bambino gli è difficile che ce la possa fare... poi faccia lei... – Si ritenne per un momento, ma poi seguitò nel ragionamento: – ...si sa, per il bambino della signora Laura per esempio l’è un’altra cosa... – ma vide che c’era rimasta male così cercò di rimediare: –... oh!... un si sa mai, vero... se vu volete provare... –

Il ragazzino, incoraggiato dalla Piera, la sorella più grande di lui di dieci anni, volle provare e ce la mise tutta. Studiò con orgogliosa caparbietà l’intera estate e ce la fece. Invece Leo, il bambino della signora Laura bocciò. Paolino non aveva malizia e gli dispiacque per l’amico mentre a riguardo, i sentimenti che passarono per la testa della Rita apparivano, a chi la conosceva bene, più contrastanti.

I due bambini, entrambi biondini e magri, erano cresciuti scorrazzando su e giù lungo quel marciapiede che collegava il sanguinolento macello pubblico del Faggi all’aja del contadino. Mentre il macello pubblico dava spettacolo con l’ammazzamento un po’ truce di mucche e maiali, l’aja del Benelli faceva da invitante incipit al mondo dei campi e dei fossi che a loro pareva fatto apposta per le più svariate avventure. Spesso, con gli altri due monelli, Gabri e Vasco, facevano merenda a base di pane, vino e zucchero proprio a casa della signora Laura mentre, incollati davanti all’unica televisione di tutta la strada, oggetto mastodontico e ambito, guardavano le avventure di Rintintin.

- La prima media aprì a Paolino un mondo nuovo; l’andar la mattina a scuola nel centro cittadino con l’autobus gli era sembrato l’inizio interessante di una vita che prometteva bene.

La prof di italiano era una donnina piccola e materna che spiegava con passione. Quella mattina poi si era dilungata su un certo dottore, il dottor Shweitzer che si era recato in Africa per dedicare la sua vita ai malati di lebbra. Quella cosa lo aveva colpito e dopo desinare ne aveva fatto il riassunto in poco tempo perché in classe era stato attento.

La sua aula alle scuole Convenevoli da Prato, l’unica scuola media della città allora, era al secondo piano a cui si accedeva da un’ampia scala da fare tutta di corsa. D’altra parte la “Cap” arrivava proprio in via del Seminario a pochi passi dalla scuola e nelle gambe di un ragazzino come lui c’era parecchia energia da smaltire; ma era un po’ indietro come sviluppo e ancora piccolo di statura, e se ne lamentava la Rita:

–... bah... gli è un po’ piccino... però mangia... certe fette di pane e olio... si starà a vedere... –

La mattina quando lo accompagnava con lo sguardo verso la fermata dell’autobus, poco distante, se lo mangiava con gli occhi: – ... però gli è bellino... e bono... – non potendo tuttavia fare a meno di notare come il suo amico Gabri che gli camminava di fianco, di appena un anno di più grande, pareva il suo babbo.

Poi, ancora con un sorrisino di intima soddisfazione e ad occhi semichiusi per rattenersi meglio l’immagine di Paolino, la donna chiudeva la porta, faceva qualche breve faccenda e usciva svelta per dare il cambio ai telai, mentre la Piera stava in casa al posto suo.

La figliola lavava, stirava, faceva da mangiare, e guardava il fratello piccolo come una seconda mamma; ed era veramente bella, di coscia lunga e bionda anche lei. Quando andava e tornava dalla Messa insieme alla Raimonda la figliola del macellaio, oppure si faceva accompagnare dalle due biscugine, non c’era proprio confronto; sembrava la regina accompagnata dalle ancelle e gli occhi dei giovanotti si appuntavano solo su di lei.

La mamma Rita che le somigliava, alla sua età non era stata bella in quel modo, pur anch’ella piacente; ma fin da giovane prometteva di essere donna solida e lavoratrice. Quando Adelmo la vide per la prima volta nei campi dalle parti di Grignano, gli sembrò subito la ragazza giusta per lui, ben piantata, bionda e perbene, come ancora usava definirla. Alla prima e alla seconda proposta di fidanzamento tentennò, allora era buona consuetudine, come segno di serietà, di non accettare; ma in cuor suo la Rita sperava di ricevere di nuovo l’offerta che infine accettò volentieri, perché anche a lei Adelmo piaceva.

- Lo stanzone dei telai si trovava in fondo al cortile del Nieri, subito dopo l’Appalto alimentare dall’altra parte della strada, un’ampia bottega che vendeva di tutto un po’, ma non la carne.

Quella era merce cara che, poco distante vendeva Umberto, il corpulento macellaio sempre con le maniche arrotolate, fossero giorni diacci e ventosi o umidi e arroventati. Paolino, quando la Rita voleva il lesso rinvoltato nella carta gialla e spessa ci andava volentieri. Osservava curioso la sua destrezza; quei colpi secchi per dividere l’osso, come sapientemente tagliasse le fettine di manzo fini e tutte uguali e poi da ultimo, come infilasse svelto e con fare indifferente i soldi nel grembiule insanguinato. A volte pensava che quello fosse proprio un bel mestiere.

Roberto, il figliolo grande, aveva più del doppio degli anni di Paolino, ed aveva fatto un grande sforzo comprando due Nebiolo nuovi da aggiungere ai due telai che già aveva; così la mamma e il babbo, lui garzatore dallo Sbraci, gli davano una mano per pagare le cambiali.

La Rita faceva qualche ora la mattina e qualche ora nel primo pomeriggio e in più, siccome era brava a rannodare e rincorsare, in quello stanzone buio e rumoroso alla fine ci stava parecchio.

Adelmo, il babbo, finito il turno ai garzi e ancora con tracce di peluia addosso, tirava fuori dallo stretto andito di casa il lungo barroccio smontato e addossato alla parete e gli rimetteva le ingombranti ruote di legno cerchiate di metallo, delle quale la sera avanti, con eccessiva e rituale meticolosità ne aveva ingrassato i mozzi. Poi si metteva alle stanghe come un cavallo e con quel pesante barrocccio dipinto di un surreale celeste madonna, portava e riportava il lavoro: il “subbio” pieno dell’ordito e le casse del “ripieno”.

Roberto era un tipo elegante con un bel ciuffo e con un portamento un po’ costruito da uomo fatto che pareva conferirgli una certa personalità. Uno smilzo biondiccio ancora alle prese con qualche residuo d’acne giovanile che, quando si voleva mettere in ghingheri infilava i suoi pantaloni alla zuava esponendo l’ampio e bianco colletto di camicia sopra la maglia a vu. Aveva da farsi la sua posizione, così tutte le mattine si alzava presto lasciando con una puntina d’invidia Paolino ancora dormiente, e dava il via alle macchine. Non nascondeva però la sua voglia di vivere; alla domenica gli piaceva andare a ballare al “Milleluci” e aveva i suoi giri. E ogni tanto, anche nei giorni di lavoro tirava il fiato e spariva con la sua fiammante lambretta.

Il babbo brontolava: – ... lo sai Rita? ho trovato tutti e quattro e’telai fermi e co’ motori accesi... – ... o Adelmo... e gli è giovane ancora... icchè tu vo’ fare?... ci vo’ pazienza... –

- Gli amici Vasco e Gabriele intanto non apparivano e Leo era malato, così Paolo si era messo a ciondolare saltellando intorno alla pompa dell’acqua. Quella pompa di ghisa scura che aveva la leva a forma di esse e certe pretese ornamentali di gusto liberty, faceva un inconfondibile e lamentoso verso metallico mentre riempiva le mezzine di rame, ed era il punto di ritrovo dei ragazzi.

Non vedeva l’ora. A volte preferiva la sua carabina a gommini rosa per tirare alle lucertole, ma quel pomeriggio aveva tirato fuori la fionda. Di solito, passavano da quel cortile del Benelli e si inoltravano per i campi confinanti il retro della fila delle case a schiera o, come venivano chiamate, le “casenove”.

Il contadino lasciava fare, conosceva le famiglie e poi i quattro ragazzini non avevano mai fatto danni.

Quei campi ben coltivati ad orzo o granturco da cui d’estate si levavano concerti, quello delle cicale durante il brucello e quello notturno dei grilli, certi viottoli ombreggiati di querce, i fossi punteggiati di salici e gracidanti di ranocchi durante la primavera, erano il loro mondo, vasto ai loro occhi imaginifici e che percorrevano in lungo e in largo, chiacchierando tranquilli oppure ogni tanto, in seguito a qualche spintone di troppo facendo e disfacendo alleanze.

Vasco era il più grosso e il più forte dei quattro e si comportava a volte da prepotente, ma un giorno Paolino, durante una baruffa nata per chissà che, gli tenne testa con orgoglio. Tornò a casa un po’ sgualcito e con un gran pestone ma eccitato: – mamma... ho preso delle botte, ma ne ho anche rese tante... –

La Rita lo brontolò ma tra sé, senza darlo a vedere, ne rimase contenta.

- C’erano anche i vecchi lavatoi dall’altra parte della strada, alla fine della fabbrica del Franchi, uno spazio verde occupato quasi interamente da erbaccia alta e ortiche. Il giovane studente di prima media vi lanciò un’occhiata ma pensò subito che gli altri non fossero andati lì; da qualche tempo non ci andavano più.

Paolino cominciava ad essere un po’ impaziente e, appoggiato mollemente all’antropomorfa e fredda bocca della pompa, guardava all’insù verso certe nuvole a forma di ciambelle.

Ad un tratto, girando lo sguardo vide arrivare la sua mamma in bicicletta. Proveniente dallo stanzone dei telai, pareva non dar segno di voler rallentare o di fermarsi. In corrispondenza della pompa di ghisa scura e guardando a diritto, fece solo un cenno accompagnato da una strana smorfia, come a dire a chi l’avesse vista di non far caso al suo passaggio.

– ... mamma.. ma dove vai?... mamma... – ora torno Paolino... – la sentì dire senza neppure voltarsi, mentre si allontanava lesta sulla sua Atala da donna. Pedalava reggendo il manubrio con una mano sola, mentre l’altra mano, che puntava in su, pareva rinvoltata da una stoffa.

La Rita non era stata abbastanza svelta quel giorno e si era mozzata due falangi di dito al telaio: – ... come tu se’ bischera Rita... – diceva tra sé pedalando – ... che bravurie... ora ci voleva anche questa... –.

Aveva preso troppa confidenza e, volendo imitare il figliolo che, bellamente, lo faceva senza problemi, aveva preso a cambiare le spole mentre la macchina era in movimento.

Quel pomeriggio era arrivata già stanca; come sempre, mentre la peluia fine svolazzava per l’aria, le spole parevano sparire, colpite dall’incessante martello di legno, e un alterno sollevarsi e ricadere dei fili dell’ordito accompagnava la tela che avanzava sul davanti.

Poi l’aria pesante dell’ora meridiana dominata dall’afrore denso degli ingranaggi oliati, in quel tumultuare di telai, le aveva calato sugli occhi una cortina fragorosa e densa quasi da non vederci.

Bastò un attimo di distratta scoordinazione; la cassetta metallica semovente da cui partiva la spola le tagliò di netto il dito anulare che cadde per terra. Nessun altro tessitore in quel momento era nello stanzone; ma la Rita aveva un carattere forte, ne aveva passati di peggiori di momenti, nella sua vita.

- Tenendo una cocca di chissà quale cencio con i denti, si fasciò strettamente alla bell’e meglio il dito mozzato ed ebbe il sangue freddo di raccogliere il povero mozzicone caduto che, rinvoltato in un fazzoletto mise in una tasca della vestaglia. Poi, non essendoci nessuno nello stanzone per chiedere un qualche aiuto, senza pensarci troppo era partita inforcando la sua vecchia Atala.

Passando davanti all’Appalto dette un’occhiata lesta, casomai le apparisse Roberto, ma non ebbe animo di scendere a cercarlo. Si immaginava che non ci fosse non scorgendone la lambretta. E poi aveva le sue idee in fatto di dignità: – ... guarda in che condizione sono... no, passo male.... – All’Appalto c’era il telefono pubblico e in un attimo dovette decidere: – ... mah... la chiamo o no l’ambulanza?... no, un la chiamo... siie... no, un la chiamo... –

Adelmo l’avrebbe potuta portare sulla canna della bicicletta, ma quella sera era di turno dallo Sbraci; così passò davanti a Paolino senza dirgli nulla: – ... un c’è tempo... e poi poerino... si preoccupa... per far icché?... ––

L’ospedale Misericordia e Dolce non era vicino; anzi. Presto arrivò a Ponzano e nel passare scorse il cancello che dava sull’aja dei Cecchi. Da quella grande casa colonica rivolta “a toma” dove ancora viveva qualche loro cugino erano sortiti Adelmo e suo fratello Vittorio.

Forse per distrarsi dal male che stava salendo, a caldo gli pareva di aver sentito meno dolore, per qualche istante le venne in mente Adelmo quand’era giovane. Era un bel giovane e lui sapeva d’esserlo.

Dopo il fidanzamento partì per il servizio militare, in artiglieria alpina a Venaria Reale, proprio vicino alla reggia dei Savoia. Qui, in divisa da artigliere, imbrillantinato e con il frustino in mano, come Rita potè ammirare dalle foto riportate, fece la sua figura. E a quanto pare, tra le servette di quel paese, come ogni tanto faceva ancora maliziosamente intuire sogghignando sotto i baffi, aveva fatto strage di cuori.

Ma nelle lettere che mandava alla fidanzata le assicurava: – ... tu sei la donna indimenticabile del mio amabile amore che mi fa vivere allegro e contento... –

– ... ma che scemo gli’era... ma che bugiardo... – sospirò Rita tuttavia indulgente, mentre seguitava a pedalare. Poi, nonostante il dolore alla mano che le pulsava riuscì a sorridere come faceva lei, a bocca chiusa, le guance sollevate e riducendo quegli occhi chiari ad una ridente fessura. Ricordò quello che gli aveva risposto: – ... caro amore, nella tua lettera vi ho letto molta esagerazione... con una parola delle mia, ci hai fatto un romanzo tutto di bugie... bisogna che compatisca e che regga lo scherzo... –

La donna superò la “Croce di Bramo” e riprese via Ferrucci ritenendola la via più breve. Il male stava aumentando e quello straccio, pur avendolo stretto più che avesse potuto si era ancor più intriso di sangue.

– ... oh Gesù mio... che morirò?... no va... ho tre figlioli belli... la Piera l’è belle grande, ma uno gli è piccino ancora... –

Ma lo diceva senza crederci, come per scaramanzia. Aveva passato ben’altro.

- I pensieri le si affollavano fitti e veloci e in quel momento stava passando sotto al passaggio sopraelevato della fabbrica dello Sbraci. – ... qui c’è Adelmo... ma un mi fermo... – Proprio dentro a quelle mura era successa la disgrazia. Quel cinghione del garzo che, durante il turno di notte, staccatosi dalla sua sede aveva colpito violentemente la testa di Adelmo, cambiò tutto.

Alla Rita dissero che, se non fosse morto per complicazioni, sarebbe rimasto menomato da tutti i punti di vista e che forse sarebbe stata preferibile la morte. Per mesi e mesi lei, con Robertino piccolo in collo e in cinta della Piera andò a Careggi quasi tutti i giorni, portandosi dietro il pancione insieme a tanta angoscia e sorretta da tanta fede.

Invece dopo quasi un mese di coma, tre mesi di degenza molto complicata e altri sei dal Palagi per le cure di riabilitazione alla gamba paralizzata, quell’uomo si riprese e, pur con pezzettino di cranio mancante e dichiarato invalido permanente, riprese a lavorare in fabbrica.

Adelmo, raccontando in seguito con parole sue e con una sorta di compiacimento, ricordava che il professore, nel congedarlo per fare le cure dal Palagi gli aveva detto: – sicché tu va’ via... tu la poi raccontare... tu c’hai avuta la Grazia... co icché t’hai avuto... di mille, novecentonovantanove moiano... e quello che non more riman pazzo o imperfetto... però Adelmo... tu c’ha’ ancora parecchio da fare... –

Alla Rita in quel momento le vennero le lacrime in pelle in pelle, non sapendo più distinguerle da quelle che le venivano per il dolore alla mano: – ... povero Adelmo... gli ha sempre lavorato come un ciuco... anche co i’capo rotto... – sussurrò; ma le conseguenze comportamentali di quel terribile trauma, sotto forma di certi scatti d’ira e di qualche fissazione, Rita le avrebbe sopportate e le stava sopportando tuttora con infinita pazienza e amore.

- Al pronto soccorso, dopo averla osservata con curiosità avendola vista, in quel caldo pomeriggio di fine maggio, arrivare da sola in bicicletta con quella mano mutilata, fecero tutto quanto dovevano fare. Sorrisero meravigliati quando Rita mostrò loro il mozzicone di dito ormai inservibile, spiegandole che fosse troppo tardi per tentare qualcosa e, dopo averle chiuso la falange con numerosi punti le dissero che avrebbe dovuto stare in osservazione per almeno tre ore.

Distesa sulla lettiga, sfinita di stanchezza e anestetizzata sia pur localmente, si addormentò.

Allora sognò la sua mamma. La mamma Quintilia era morta quando lei aveva meno di sei anni. Eppure ricordava tutto; ancora a distanza di quarantadue anni ogni tanto, commossa, amava raccontare il suo infantile e lontano patimento ai figlioli e quando lo raccontava gli occhi le luccicavano.

Nel sonno poi, le stava sembrando proprio vero; il fischio del treno, il rumore delle ruote sui binari, tutto. Lei, così piccina, avendo la mamma all’ospedale, in quei giorni stava dalla zia alla Macine e il treno passava di lì. Le avevano detto che la mamma, quando fosse guarita, sarebbe tornata con il treno; così tutti i giorni il suo cuoricino triste e speranzoso aspettava l’arrivo del treno; e quando questi, sbuffante e rumoroso passava fischiando, sobbalzava.

Rita sobbalzò davvero; si svegliò dal quel sonno leggero e si ricordò del dito fasciato, questa volta a dovere. Lo guardò, costernata; naturalmente ne mancava un pezzetto: – ... ma che scema sono... –

Poi si guardò intorno. – ... ma che ore sono?... – Doveva pazientare ancora un’oretta, così riannodò il filo di quel ricordo.

- Dopo il funerale della mamma officiato nella chiesa di Gonfienti, ricordava bene che i componenti della famiglia avessero preso per le scalette di pietra e, dolenti, fossero scesi nel Bisenzio in secca. L’avrebbero facilmente attraversato per tornare alla casa di Grignano passando da Mezzana.

La bambina, presa per mano da due delle tre sorelle più grandi camminava silenziosa e triste. Nonostante quello stato d’animo, guardava i grossi ciottoli bianchi e arrotondati, sparsi nel letto asciutto; il fiume, da tempo immemorabile li aveva fatti rotolare l’uno sull’altro, e in quel modo, levigandone le asperità sembravano esser diventati lisci e come sereni.

Faustino, il babbo, in quel momento forse stava pensando proprio a qualcosa di simile, che cioè solo il tempo avvenire potesse essere in grado un giorno, di levigare, lenendolo, quel suo gran dolore. Ma adesso doveva essere forte; si fermò in mezzo al greto del fiume e si rivolse ai cinque figlioli che, a corona intorno lo stavano guardando attoniti: – ... avete visto quanta gente c’era al funerale della mamma?... – ... siiiì... – risposero tutti, dal grande alla più piccina. – ... e ora?... 

La breve domanda rimase come sospesa per qualche attimo. – ... ora siamo soli, babbo... – rispose piano per tutti, Aldo, il maschio già quasi giovanotto. – ... eh sì, ora siamo rimasti solo noi, figlioli... – annuì Fausto, guardando lontano.

Una lieve brezza cominciò a soffiare, forse il tempo stava cambiando; sul greto arido lunghi cardi violacei oscillavano, un dondolio leggero che a un certo punto si concludeva con un inchino.

Faustino, in silenzio, per pochi istanti guardò ancora i figlioli, sforzandosi di far loro un sorriso che gli venne per la verità un po’ amaro, poi prese in collo la piccola Rita e riprese a camminare: – ... forza... andiamo allora... – ­

Durante la strada di ritorno, intanto dal castello aveva imboccato viale Piave dovendo passare dalla Porta Fiorentina, la Rita considerò con tenerezza che il babbo non si era mai voluto risposare.

Il sole a quell’ora aveva tuttora un tatto morbido, pareva che le carezzasse la pelle. Pedalava decisa perché ormai era tardi e temeva che a casa fossero in pensiero; e poi, tutto sommato, non si sentiva proprio male: – ... quel sonnellino m’ha rimesso a i’mondo... – sospirò. Ma poi le riaffiorò quel discorso; il babbo aveva fatto lui da babbo e da mamma, era stato forte e coraggioso: – ... non come me ... – soggiunse sottovoce, ripensando chissà perché ad un certo episodio, che dir drammatico era troppo poco, vissuto in tempo di guerra.

- Nel 1943 Mezzana, essendo vicina e in direzione della stazione ferroviaria, importante obiettivo strategico, poteva essere oggetto di bombardamenti da parte degli aerei alleati. Da tempo, ma spesso per fortuna erano falsi allarme, al suono acuto della sirena tutti si precipitavano verso il rifugio antiaereo costruito nei campi vicino all’aja del Benelli.

Quel giorno, l’allarme era seriamente giustificato. Pur scavalcando con la scala a pioli il muretto in fondo l’orto, che era la via più breve, Adelmo, la Rita, Robertino e la Piera di appena sei anni erano in drammatico ritardo. Non mancava ancora molto al tramonto e, mentre correvano in direzione del rifugio, alla Rita le gambe, come di marmo, le si bloccarono dalla paura. Proprio non riusciva a fare un passo.

– ... forza.. buttatevi tutti nel fosso... svelti... – urlò allora Adelmo. Acquattati e tremanti in quel fosso umido guardavano in alto mentre sentivano il rumore cupo e minaccioso dei bombardieri. Appena il tempo di scorgere, atterriti, quegli oggetti terribili e luccicanti del riflesso dell’ultimo sole che scendevano giù dal cielo, dopo pochi istanti sentirono il boato tremendo. Una bomba era esplosa proprio vicino al rifugio e tutti gli occupanti, una quarantina, morirono schiacciati dal violento spostamento d’aria.

Era successo che la porta del rifugio fosse stata chiusa, forse, malamente, o che non fosse stata abbastanza robusta. Fu un’immane tragedia per tutto il vicinato e per il paese di Mezzana. La famiglia Cecchi si salvò grazie alla provvidenziale paura della Rita.

– ... mamma mia... a ripensarci... – sospirò la donna che ormai si trovava a metà strada per “Mezzana di sopra”, e che continuava a rimuginare: – noi in quel fosso e là tutti sfracellati... –

Rammentando quel fosso, – ... oggi i pensieri mi vanno e vengono... – le venne curiosamente di mormorare, ricordò che Paolino era così contento quando poteva razzolare per quei fossi e per quei viottoli: – ... l’avrà fatti i compiti?... sì lui li fa... li fa volentieri... –

Voleva bene a tutti e tre i figlioli, ma Paolino era Paolino, era il più piccino; e le era venuto quand’era già vecchia, come aveva l’abitudine di dire. Ma in realtà quel figliolo non era nato per sbaglio: – ... già... Gesù e la Madonna m’accontentarono... davvero... –

Da appena un anno era finita la guerra che aveva messo in ginocchio tutte le famiglie. Il lavoro nelle fabbriche era ripartito da poco e il costo della vita era aumentato in modo vertiginoso. Ma alla famiglia Cecchi che già era in affanno, in quei giorni arrivò un’altra dolorosa mazzata.

- Una notte Piera, che a quell’epoca aveva nove anni fu ricoverata d’urgenza per un’appendicite perforante e il rischio che non ce la potesse fare era alto. La Rita era costantemente al capezzale della bambina che, ormai gialla in viso per il pus infetto che la stava contaminando, alternava un flebile pianto all’incoscienza febbrile. Un giorno, uno dei più convulsi, per caso, sentì il commento di un dottore che, ritenendo di non essere ascoltato, affermava dispiaciuto che per la bambina non ci fossero molte speranze di sopravvivere. – ... Signore... che sofferenza... me lo ricordo bene... un so com’ho fatto... – gemette la donna a quel ricordo, mentre, pur senza poggiare la mano offesa sul manubrio, continuava a pedalare di buon lena.

Intanto, mentre le ombre che si stavano già allungando preparavano l’imminente crepuscolo che avrebbe reso la serata più fresca, era quasi arrivata di nuovo a Ponzano; ma quei veloci ricordi, pur compressi in pochi istanti, continuavano a scorrere e a farle battere il cuore.

Ricordò allora la sua determinazione di quando, dopo aver carpito senza volere quelle parole pesanti come un macigno, senza esitazioni fece la sua promessa al Signore. Se Piera si fosse salvata, come ringraziamento, anche se non esisteva un prezzo adeguato a ciò che stava mercanteggiando, avrebbe sicuramente cercato di mettere al mondo un altro figliolo. Una prospettiva, quella, già considerata da tempo come assolutamente da evitare, vista la precaria situazione di salute di Adelmo, quella economica della famiglia e, non ultima cosa per importanza la sua età che non era più così verde.

- Piera, contrariamente alle funeste previsioni guarì; così l’anno successivo, nella notte di san Lorenzo quando al cadere delle stelle bisognava esprimere un desiderio, alle­ “casenove” nacque Paolino, un neonato vispo che, come disse Adelmo, aveva la bocca larga fino agli orecchi e le gambe lunghe da ciclista. – ... Rita... ho fatto bene a datti retta... – Poi, a voce più bassa mentre osservava, fuori dalla finestra, il cielo che si stava appena schiarendo: – ... io fo sempre bene a datti retta... – aveva aggiunto, accarezzandole la testa matida di sudore, il sudore del parto andato a buon fine.

Purtroppo non finì lì. Il bambino, dopo non molto tempo cominciò a piangere. Pianse per giorni e giorni e poi per mesi. Nessuno sapeva che cosa avesse; forse un’ulcera, ma le cure mediche non funzionavano, fino a che Adelmo e la Rita, disperata e insonne, dietro compassionevole suggerimento lo portarono un giorno in casa di una anziano personaggio in piazza Duomo, proprio di fronte al pulpito di Donatello. Non capirono mai quale fu il rimedio adottato a più riprese da quell’uomo mentre, devotamente, recitava certe preghiere.

Dopo alcuni giorni Paolino non pianse più. Rita, donna di fede, amò pensare che dal quel pulpito appeso come un nido all’angolo della facciata, da cui da secoli veniva mostrato il “Sacro Cingolo” al popolo, la Madonna lo avesse guardato con tenerezza, sanando la sua piccola ferita.

 

- Rispetto all’epoca in cui i due sposi dovettero affrontare quei travagliati avvenimenti che la Rita stava in quel momento ricordando, nel 1958 in Italia le cose andavano decisamente meglio; il paese era in pieno boom economico. Frigoriferi e televisori cominciavano ad occupare il loro spazio nelle case delle famiglie; la seicento Fiat, il sogno degli italiani, circolava per le strade già da tre anni e da poco era comparsa anche la cinquecento. Negli stessi mesi Fiat aveva inaugurato il sistema di vendita rateale, per consentire a tutti gli italiani di poter accedere a quei sogni con comode rate.

Al festival di Sanremo aveva vinto Modugno con “Nel blu dipinto di blu”, e gli sportivi, frustrati per l’esclusione dai mondiali di calcio dopo la disfatta di Belfast, enfatizzata come una vera battaglia dalla radiocronaca di Niccolò Carosio, si stavano consolando con Ercole Baldini che si stava apprestando a vincere il popolarissimo Giro d’Italia.

Anche le entrate della famiglia Cecchi erano aumentate. Adelmo faceva gli straordinari dallo Sbraci e i telai di Roberto, al netto delle cambiali da pagare, portavano il loro contributo. Finalmente si erano dotati del bagno in casa che prendeva il posto della scomoda latrina posta in fondo all’orto, e anche il frigo aveva fatto trionfalmente il suo ingresso nel tinello.

- Quando la Rita entrò in casa, stavano già mangiando. Gli occhi dei famigliari, interrogativi e meravigliati, si posarono su quella mano. – ... mamma mia... oh icchè t’ha fatto mamma... –

La Piera si alzò e corse subito a vedere quel dito fasciato e monco. – ... oddio!... oh come l’è andata... – Adelmo la guardava con un’aria che sapeva di sollievo e insieme un po’ di rimprovero. Erano stati tutti sicuramente in pensiero. Roberto nell’ora dell’incidente era al circolo di via del Cittadino a veder passare il giro d’Italia alla televisione, ma poi si era impaurito nel trovare delle macchie di sangue sul telaio, mentre Paolino aveva riferito di quello strano passaggio in bicicletta.

Rita allora raccontò tutto ma cercando di minimizzare : – ... eh... badalì... che voi che sia... gli è solo un pezzetto di dito... badalì... Paolino, guarda, un po’ c’è rimasto... badalì... – concluse riducchiando.

Al mattino dopo Rita all’ora prevista era regolarmente al telaio dove cercò, con qualche difficoltà, di arrangiarsi. Ma quella notte non aveva dormito molto; il dito, svanito l’effetto anestetico, nonostante la

“Cibalgina” le aveva procurato un continuo e fastidioso dolore.

Adelmo per un po’ le aveva tenuto compagnia, prima brontolandola perché era stata troppo azzardosa, ma poi parlando a lungo della bella famiglia che avevano, dei telai, delle difficoltà non da poco che la vita aveva riservato loro, ma anche, – ... ringraziando Iddio... – di qualche consolazione.

– ... però Rita... lo sai icché? – aveva concluso il Cecchi alla fine, prima di girarsi dall’altra parte ormai vinto dal sonno: – ... un ce n’è punte come te... no... – e dopo un po’, mormorando piano: – ... un ce n’è punte come la mi’ bionda... bella e bona... –

 

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