LA GIACCHETTINA DI LEO

LA GIACCHETTINA DI LEO – racconto breve –

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- A Guido piaceva il suo lavoro, era faticoso e polveroso ma gli consentiva di trarre abbastanza guadagno per la sua famiglia. E poi ogni tanto nelle tasche o, come quella mattina all’interno della fodera, trovava qualcosa di strano, a volte anche di valore. Lì per lì era rimasto deluso; per un attimo aveva pensato a delle banconote, e non sarebbe stata la prima volta. Invece quei fogli ingialliti scoperti dentro una sottile tasca interna cucita tra la stoffa ruvida e la fodera, non promettevano di ricavarci un granché: – ... è strano però... ma guarda come l’hanno nascosti bene... –

Chi li aveva ripiegati in quattro parti e poi ben riposti e cuciti con molta cura aveva fatto un bel lavoro. Lui aveva sentito subito la presenza di qualcosa sulla sinistra di quella giacchetta da ragazzino:

– ... proprio davanti al cuore... – pensò.

Era uno dei più bravi cenciaioli della ditta, esperto e attento. Sfoderando il capo usato con gesti abili e decisi, al tocco dei suoi allenati polpastrelli e guidato anche dal rumore dello strappo, sentiva e decideva in un baleno se la lana era “ordinaria” o più fine. Nello stesso tempo, mentalmente, sceglieva il “monte” di colore dove farlo volare; lo faceva sottecchi quasi senza guardare avendo memorizzato dove si trovava il monte del nocetta, quello dei blu, quello dei verdi e quello del “rossino”.

Si fermò un attimo per aprire quei fogli che sembravano essere alcune brevi lettere messe insieme. Terminavano infatti alla fine con una firma, quasi tutte con la stessa firma. La calligrafia ormai sbiadita era elegante e sicura; lui invece, che aveva fatto solo le scuole elementari dalle suore di San Martino scriveva come una gallina, come gli disse una volta la sua figliola unica, quella per cui si stava svenando per farla studiare.

Tuttavia in quelle pagine non ci capiva niente perché erano scritte in una lingua straniera. Così le ripiegò velocemente come le aveva trovate e se le mise nella tasca posteriore dei pantaloni. Quella misteriosa giacchettina invece, anche se già in parte sfoderata, chissà perché, la mise da una parte.

- Guido lavorava ormai da anni al “Carbonizzo e Stracciatura Naldini”, a Coiano.

Arturo, il padrone, uno degli eredi delle due antiche gualchiere Naldini, da ragazzo come studio aveva fatto le “Commerciali”. Per indole era persona riservata, ma non si formalizzava più di tanto; era uno del mestiere e i cenci erano stati il suo primo pane. Trascorreva anche lui, come i suoi cenciaioli, ore e ore “a guanciale”, cioè seduto a terra su una specie di rudimentale guanciale e, di tanto in tanto, dava una controllatina al lavoro fatto; levava grosse manciate di cenci dai cumuli già lavorati e li sparpagliava sul pavimento passandoli con le dita come se li carezzasse.

Molto più giovane di Guido e ancora “giovanotto” nutriva un certo timido interesse per quell’Enrica, la figliola istruita di Guido. La ragazza, della quale sotto alla pezzola sbrindellata che le riparava i capelli dalla polvere sgusciavano occhi luminosi e un volto fresco e piacente, nelle poche ore libere dallo studio sedeva anch’essa a guanciale per dare una mano al bilancio familiare. Ma di quella discreta e sottesa simpatia Arturo ne riceveva in cambio soltanto qualche sguardo inespressivo.

Quella mattina invece Enrica ogni tanto levava gli occhi dal collo delle maglie americane aperto e disfatto a cui stava lavorando e si guardava attorno. Guardava i suoi compagni di lavoro e non riusciva a non pensare, con un leggero e ironico sorriso, che essi e quindi anche lei, fossero in qualche modo tra i protagonisti del libro che stava leggendo da alcune sere prima di addormentarsi.

“Maledetti Toscani” era uscito l’anno precedente e l’editore Vallecchi ne aveva già ristampate quattro edizioni. La sera prima aveva sorriso leggendo ciò che Malaparte aveva scritto a proposito di cenci e cenciaioli pratesi:– ...a Prato, dove tutto viene a finire: la gloria, l'onore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo... –

– ... gli è tutto vero ... – pensò la ragazza mentre, seguendolo distrattamente con lo sguardo, lanciava un bel maglione turchese sul monte dei verdi – ... eppure mi sarebbe garbato parlare un po’ con lui... e non solo degli stracci... ma anche d’altro... –

Lo scrittore e giornalista famoso era morto l’anno precedente dopo lunga malattia e, come sembrava, dopo una estrema e controversa conversione, mentre lei, proprio nei giorni della sua agonia seguita giorno per giorno sui giornali, stava divorando un altro suo celebre libro.

In “La Pelle”, il suo libro di maggior successo, era stata colpita profondamente dagli orrori della guerra e della peste scoppiata a Napoli, da lui descritti con tanto realismo; una peste, come le veniva di riflettere, capace di corrompere non solo e non tanto il corpo bensì l’anima, spingendo le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il rispetto di sé.

– ... ma guarda che diavola l’è la mi’ figliola... la sa fare ogni cosa... – pensava invece il babbo poco distante quando la osservava decisa e concentrata. C’erano anche altre donne a fare quel lavoro ai colli della maglieria, il genere di cernita che richiedeva meno forza fisica, ma nessuna svelta come lei.

- Guido aveva fame e, finito il suo lungo turno si avviò velocemente verso casa, passando dall’unica e antica gualchiera ancora in attività e attigua alla “gora”, delle due nate dal “gorone” quella “ex parte orientis”, come gli aveva spiegato la saputella dell’Enrica. La sua figliola a ventitre anni non si era ancora decisa a prender marito; d’altra parte per ora, come lei rispondeva sbottando in una sonora risata a chi le faceva osservare la cosa, aveva preferito sposare i suoi libri.

Guido Targetti aveva fatto uno sforzo non da poco per farla studiare ad Economia e Commercio, ma ora non le mancava molto a finire. Forse a Prato in quegli anni si contavano sulle dita di una mano le ragazze che, avendo già fatto il “Cicognini”, avessero in aggiunta la fortuna o la caparbietà di un babbo come il suo, di proseguire con l’università. Però, pensava Guido quel giorno con un misto di sentimenti tra l’orgoglio e il disappunto perché proprio la sera avanti gli aveva risposto male, quella ragazza per la quale comunque stravedeva, gli stava dando delle soddisfazioni.

Entrato in casa chiese subito: “... in do’ll’è quella figliolaccia, Polissena?”

Enrica non era ancora tornata; in quei mesi stava preparando la sua tesi dal titolo: “Archeologia Industriale, l’antico sistema delle gore in Prato”.

- Era una giovane donna piuttosto belloccia, alta e sinuosa, ma non si teneva più di tanto; quei capelli così corti e castani sembravano fatti apposta per non dare troppo nell’occhio. Invece non passava inosservata; alla gente appariva graziosa ma fatta un po’ a modo suo, diversa da tutte anche negli interessi. In sovrappiù si diceva fosse anche intelligente, qualità rara, secondo una certa gretta mentalità, in una bella ragazza.

In realtà era persona semplice che spendeva il suo non molto tempo libero con le amiche delle elementari ormai tutte fidanzate o sposate, che adoravano stare ad ascoltarla quando raccontava loro nel suo modo scoppiettante del più e del meno. In primavera, per l’Ascensione, o nel giorno della Liberazione o per la festa del primo Maggio, si aggregava al gruppone dei giovani di Coiano durante le festose scorrazzate in Calvana.

Il giorno precedente alla strana scoperta di Guido era il lunedì di Pasqua, la ricorrenza, da che mondo è mondo, la più indicata per le prime gite primaverili. E infatti quei soliti amici erano partiti di buon mattino e, dopo esser passati da Filettole, si erano ritrovati per una prima sosta al Chiesino di Cavagliano.

Con loro per la prima volta c’era anche Arturo, il trentenne padrone della Stracciatura che Enrica, appena incrociato alla partenza aveva salutato con un cenno della testa, più di cortesia che d’altro. Lui era un tipo che non si metteva in evidenza e conosceva soltanto qualcuno di loro, ma non era proprio un pesce fuor d’acqua; durante il cammino parlava e scherzava e, ogni tanto lanciava un’occhiata alla sua singolare cenciaiola nonchè studentessa di Economia e Commercio.

Il sentiero che, inerpicandosi da Filettole era salito subito con decisione tra verdi e fitte macchie d’alloro e di oleandro punteggiate da carpini e cerri profumando di piacevoli aromi primaverili, dopo il Chiesino spianava in radure e prati già così fitti di fiori colorati che sembravano messi lì apposta per il buonumore dei gitanti.

Nei dintorni si udiva lo schiamazzare qua e là di altri gruppi che salivano, tra risate fresche di donne ed esclamazioni maschili. Durante quella mattina anche Enrica non fece che ridere facendosi beffe dei giovanotti più estrosi che cercavano di corteggiarla e sfidando tutti, maschi e femmine a chi saliva più svelto su per la Retaia.

Sulla via del ritorno volle fare uno scherzo e, dopo aver preso del vantaggio, si acquattò in un felciaio ancora non ben rinverdito. Le felci le sfioravano il volto, ne percepiva con delizia e fastidio il fresco contatto. La primavera era appena agli inizi, eppure avvertiva quell’aria diversa, che la natura provvedeva a profumare per il risveglio non solo delle piante, già verdi ancor prima che mettessero, ma anche per il risveglio degli esseri viventi.

Alzava ogni tanto la testa a spiare lanciando un segnale: “ ... cucù... cucù...” ma nessuno rispondeva. Ad un tratto sentì l’esitare di un passo e un leggero scricchiolio dello sterpame; allora sortì fuori dalla macchia come a fare la sorpresa agli amici abituali, preparandosi a fare una risata per lo scherzo riuscito.

- Era invece Arturo che, fermatosi, si faceva solecchio per la luce abbagliante, cercando intorno. Era tutto il giorno che quel pover’uomo, ma non povero di averi che di quelli ne aveva, cercava un contatto con quella ragazzaccia, almeno per scambiarvi qualche parola. Ed Enrica, a dire il vero, si era già accorta fin dalla partenza che lui la cercava con gli occhi.

Lei non sapeva esattamente perché lo stava scansando; se per il suo gusto innato dello spregio che tutti le accreditavano o perché lo vedeva come padrone, sebbene fosse solo un padrone-operaio, anche lui accosciato per ore a guanciale. Adesso se lo era ritrovato davanti all’improvviso e il sorriso le si era spento per l’imbarazzo.

“ ... mi stavi seguendo? – ... sì Enrica... t’ho visto andare avanti e ho detto, o indo’ la va?...... ti spiace?... aspettavi qualcun’altro?... – Lei rimase in silenzio ed uscì dalla macchia. Si sentì ridicola: – no, non mi dispiace Arturo e non aspettavo nessun’altro in particolare... –

Era la prima volta che si parlavano fuori dal lavoro e con delle frasi compiute. Di solito comunicavano con monosillabi e frasi smozzicate. Ripresero il sentiero. – ... t’è piaciuta la gita? ... – gli chiese lei dopo qualche altro istante di silenzio. Lui era un timido ma capì subito che doveva sfruttare il momento e prese coraggio: – ... moltissimo, è stata una bella giornata... lo sai Enrica... sono stato contento anche perché tu c’eri anche te ... – Così dicendo, per un istante aveva abbassato lo sguardo ma poi si fermò, si girò e le piantò gli occhi addosso: –...un lo so perché te lo dico proprio ora... eppure ti vedo anche spesso... ma un so come dirtelo... –

In quel momento furono interrotti dal vociare degli amici che, da dietro li stavano raggiungendo:

- ... oooh... indo’ vu eri voi due eh? ... – Lo scoppio delle risate ebbe la meglio e per quel giorno che ormai era declinato a tardo pomeriggio non poterono che scambiarsi delle occhiate a cui Enrica, meravigliando se stessa, non si sottrasse.

Visto in quel contesto di allegria, all’aria, mentre camminava e chiacchierava con quello o con quell’altro gli apparve diverso; lo sentiva ragionare in modo non banale ed era anche un bel ragazzo, sia pur più maturo di lei. Inoltre quel suo discorso rimasto in sospeso le era rimasto impresso più che se lo avesse finito.

Arrivarono a Coiano tardi; la dolcezza del crepuscolo imminente metteva addosso una leggera malinconia. Si salutarono con un cenno, ma quando lei, incamminatasi con le amiche si girò appena all’indietro, vide che anche lui, camminando dall’altra parte, aveva fatto lo stesso.

- Dunque la sera del ritrovamento il cenciaiolo di fiducia Guido avrebbe avuto voglia di aspettare la figliola che invece tardava a tornare. Enrica era energica, e con la bicicletta normalmente non ci metteva molto dal “Serraglio” ad arrivare a casa. Ma forse si era attardata in certe ricerche alla Biblioteca Nazionale di Firenze e probabilmente avrebbe preso l’ultimo treno da Santa Maria Novella.

Il Targetti desiderava però andare alla svelta al circolo di Coiano dove lo aspettava la solita disputa a scopa, briscola e ventuno; così dopo aver ingollato avidamente la minestra di pane con la cotenna di maiale, preparata come sapeva farla lei, la Polissena, fece per uscire: – ... oh Polissena, li vedi questi fogli?... daglieli a quella sciagurata quando l’arriva a casa... vediamo icchè la ci capisce... –

Lui non era comunista, alle ultime elezioni aveva votato P.S.I. mentre la moglie che lo teneva ben a bada nelle frequenti discussioni politiche intorno al desco familiare, aveva votato D.C. In quei mesi alla guida di un governo ormai esausto c’era Antonio Segni che non entusiasmava neppure la Polissena.

Alla Casa del Popolo di Coiano però Guido cercava di evitare le discussioni politiche; tutti sapevano che lui era per Nenni che, proprio in quel periodo, stava mettendo fine al patto d’azione con il P.C.I., mentre gli stessi comunisti avevano ricevuto due terribili colpi dai fatti internazionali ed erano assai nervosi e disorientati. Da un anno circa avevano appreso da Kruscev che Stalin non era il Padre eroico e infallibile del popolo lavoratore di tutto il mondo ma qualcosa di molto simile ad un sanguinario dittatore, e da ancor meno tempo la rivoluzione ungherese, creando evidente costernazione nei militanti, era stata domata dalle truppe sovietiche.

D’altra parte, anche e soprattutto a Prato, si viveva il miracolo economico e i contrasti politici, salvo per i più fanatici, a volte parevano sopiti dalla gran voglia di lavorare e di guadagnare. I telai tessevano sette giorni su sette per ventiquattro ore al giorno. mentre le luci nelle fabbriche rimanevano accese anche di notte. Le famiglie cominciavano a sentirsi economicamente sicure e anche in casa Targetti era entrato da poco il frigorifero.

Nel novembre c’era stato un fatto che aveva diviso l’opinione pubblica pratese e appassionato quella italiana. I coniugi Bellandi, una coppia di cittadini pratesi che si erano sposati col solo rito civile, erano stati definiti pubblicamente dal vescovo Fiordelli, che finì in tribunale per diffamazione, come pubblici peccatori e concubini.

La discussione si era rinfocolata in quel mese di aprile del 1957, avendo il tribunale di Firenze cominciato a dibattere quel processo a carico del vescovo di Prato. La questione era riassunta e annunciata sulla cronaca di Prato della “Nazione” ed era approdata quella sera anche in casa Targetti, durante la cena. La Polissena era dalla parte del vescovo, mentre il capo famiglia era schierato moderatamente dalla parte dei comunisti di Coiano. L’Enrica taceva; sembrava pensare a qualcos’altro.

Erano quasi a fine cena, e la mamma che era in piedi per portare in tavola una “mantovana” che aveva fatto nel pomeriggio, le posò una mano sulla spalla chiedendole:“ ... e te icchè tu ne pensi?... ”

La ragazza rispose con una leggera smorfia e facendo spallucce come a dire che l’argomento le interessava poco, anche se aveva le sue idee abbastanza precise in fatto di matrimonio e di amore.

E all’amore, riguardo al quale pensava di esserne più impermeabile, avendone pragmaticamente rimandata la questione per non distrarsi troppo dallo studio, si era accorta di pensarci un po’ anche lei. Da quella gita in Calvana erano passati due giorni e ogni tanto si rammentava della frase incompiuta di Arturo che la stuzzicava e la faceva appena palpitare, ma al Carbonizzo non c’era ancora ritornata.

Tuttavia quella sera aveva più in mente le lettere trovate dal babbo piuttosto che altro e si accingeva a riprenderle a mano di nuovo per guardarle per bene.

- Il giorno avanti, quando la Polissena, a sera tardi, gliele aveva indicate sul ripiano del ”mettitutto” non le aveva degnate di troppa attenzione. Era stanca, aveva frugato tutto il giorno in certi scaffali della Biblioteca Nazionale e voleva andare a letto.

Quella mattina si era alzata presto e, al sobbollire del bricco sui fornelli si era accomodata a tavola. Mentre si gustava con calma le due fette di pane fresco inzuppate nel caffèlatte, si ricordò delle lettere e vi posò incuriosita lo sguardo. Le prese con sé e, accomodata a sedere sul letto, dette loro subito un’occhiata che presto smise di esser soltanto tale per diventare lettura, sebbene incomprensibile.

Le sette lettere erano scritte in tedesco; lei parlava e scriveva benino il francese, ma del tedesco non conosceva neanche una parola. Però notò che recassero quasi tutte come data l’anno ’42 o ‘43, tutte meno una; quella scritta con un’altra calligrafia, forse femminile, aveva come data il ‘45. Inoltre scorrendole, trovò più di una volta la parola Stalingrad. Intuiva che le prime sei fossero di un soldato tedesco dal fronte di guerra, ma niente di più.

Pensò allora che il giorno seguente sarebbe andata da una sua cugina che lavorava come impiegata di commercio al Fabbricone; lei sapeva molto bene quella lingua. Alice, più che una cugina era una sorella; avevano trascorso insieme l’infanzia e le scuole fino alle medie. Poi lei aveva preferito fare il Datini, ma il loro rimaneva un bel legame. Così, due giorni dopo, non si meravigliò più di tanto del lavoro accurato di traduzione e battuto a macchina che le aveva fatto. – ... ma dove le hai trovate Enrica?... ed io credevo che ti servissero per la tesi... vedrai, sono commoventi... –

Decise che quella mattina, non sarebbe andata né a Firenze, né al magazzino degli stracci ad annusare quell’odore secco e polveroso dei cenci o a respirare certe zaffatine leggere di acido cloridico che fuoriuscivano ogni tanto dall’attiguo salone del carbonizzo. Disponeva di una certa libertà di andarci oppure di non andarci che il giovane padrone, intenerito e non corrisposto, anche prima di quella mezza dichiarazione a metà Retaia, le aveva consentito.

Aveva con sé l’irridente libro di Malaparte, lo aprì e vi infilò le lettere con le traduzioni; poi si incamminò verso “Le Sacca”.

“ ... io son di Prato, m'accontento d'esser di Prato, e se non fossi nato pratese vorrei non esser venuto al mondo, tanto compiango coloro che, aprendo gli occhi alla luce, non si vedono... di là dai tetti, la curva affettuosa della Retaia, il ginocchio nudo dello Spazzavento, le tre gobbe verdi del Monte Ferrato, gli olivi di Filettole, di Santa Lucia, della Sacca, e i cipressi del Poggio del Fossino, sopra Coiano... ”

La sera prima, pur stanca aveva letto un po’ e, scorrendo con interesse quella pagina aveva fatto una risatina di intima soddifazione. Alla sua facoltà sul lungarno Vespucci conosceva ormai molti studenti della città gigliata. Aveva sempre avuta l’impressione che se la tirassero un po’ troppo. E inoltre quel parlare a bocca larga dei concittadini di Dante, alla lunga, le pareva fosse un po’ stucchevole per i suoi orecchi. Preferiva il parlar schietto e forse un po’ aspro e spregioso dei pratesi.

– ... per non parlar poi della parlata dei pistoiesi... il zale... il zole... dei quali non merita neanche di pensarci più di tanto... sì, penso che il maledetto toscano avesse proprio ragione... – mormorò infine tra sé.

E l’idea di salire quella mattina proprio al Poggio del Fossino, le era venuta da quella stessa lettura.

Il sentiero entrava in un forteto di quercioli che si apriva in una radura erbosa ancora frizzante dell’umidità notturna. La giornata si presentava già assolata e luminosa, ma era ancora aprile e le venne in mente quel che aveva scritto Curzio: “ ... è aprile, e tutta la Toscana è primavera, ma al modo toscano, che è un modo acidulo, asprigno, sa d'uva acerba, e lega gli occhi e i denti... ”

Intorno infatti la natura, pur aperta ai primi timidi sbocci non indulgeva ad eccessive tiepidezze. Tuttavia trovò un posticino adatto, “ a toma” e riparato da una pendice brulla tra un fitto di ginestre ancora da fiorire e, sedutasi su una porzione di grosso tronco segato in più parti ancora odoroso di segatura, cominciò a leggere.

- Kirovskij, 7 novembre ‘42

“Cara Martha... il nostro battaglione è ancora in retrovia, ma a Stalingrado l’offensiva è in piena azione… noi mangiamo patate e le altre cose che prendiamo ai russi, ma non troviamo più galline nei pollai… i russi nascondono tutto sotto la neve già abbondante e gelida... oggi abbiamo trovato nella neve tanta carne salata e del lardo. C’era anche del miele, insieme a dei vestiti pesanti...”

- 15 dicembre ‘42

“... il giorno in cui sono nato tedesco e ariano non è stato un bel giorno. Sono dispiaciuto per quello che siamo obbligati a fare quaggiù. Stiamo perdendo la testa; ruberie anche alle famiglie più miserevoli, violenza, omicidi a non finire: vecchi, donne, perfino bambini... si uccide per il gusto di uccidere... inoltre non credevamoo che i russi fossero così orgogliosi e coraggiosi... ”

- Stalingrad, 24 dicembre ‘42

“... siamo ormai da un mese e mezzo in questa parte nord della città... Andreas Kunze, te lo ricordi? Lo dovresti conoscere dai tempi della scuola, forse nel ’36... qualche giorno fa entrammo in un palazzo abbandonato vicino alla Piazza Rossa... dappertutto sparavano... ma su un pianoforte a coda ancora in buono stato lui ha suonato la “Patetica” di Beethoven... il pianoforte era in un appartamento, l’unico nel palazzo ancora quasi integro ed era pieno di libri e di spartiti, sicuramente di un un pianista.

La musica corrispondeva al mio stato d’animo, preso com’ero da disperazione... patetica, nel modo di come la intendeva Shiller, l’anima bella che tu amavi Martha... uno sconforto carico di pathos... e domani per i cristiani è Natale... 

- 11 gennaio ‘43

“…se c’è un Dio, come dici nella tua ultima cara lettera, mi riporterà presto e sano e salvo... aggiungi che... un uomo che ama sua moglie e onora i suoi bambini, Dio lo salva...

Ho sempre avuto fede, e tu ancor di più... ma ora c’è qualcosa che non mi torna... non credo più né che Dio possa essere buono, né che possa esistere, altrimenti impedirebbe tutto quello che vedo...

Mi dispiace davvero ammetterlo, ma io non credo più... porsi il problema dell’esistenza di Dio a Stalingrado, vuol dire negarlo… ho cercato e cerco Dio dietro ogni muro distrutto, accanto ad ogni corpo senza vita, in ogni angolo... ma non lo trovo. Lo imploravo di farsi vedere... ma dal cielo cadevano soltanto bombe e fuoco... e intorno fame e disperazione. E Dio non c’era. No, Martha, non c’è nessun Dio...”

- 23 gennaio ‘43

“…sai Martha, comincio a pensare che non tornerò .…. non capisco molto di quello che succede, ma i fischi delle bombe, gli urli dei feriti, il silenzio dei morti non mi fanno sperare in niente... non posso credere che i camerati muoiano con sulle labbra la parola: “Deutschland” o “Heil Hitler”. Qui si muore... ma l’ultima parola è solo un grido d’aiuto... ”

- 17 febbraio ‘43

“... tu eri la cosa migliore che avessi nella mia vita, Martha... ci vorranno almeno due settimane prima che questa lettera ti arrivi, se arriva. Nel frattempo, saprai dai giornali come è andata a finire qui, ma non ti rattristare... cos’è la nostra vita in confronto ai milioni di anni di cieli stellati?... ti ricordi quante volte ne abbiamo parlato?...

Dobbiamo essere forti... in marzo avrai ventisei anni, sei ancora tanto giovane e bella, ed io mi ritengo già fortunato di aver vissuto alcuni anni con una donna come te. C’è chi vive molti anni, ma non così belli come li ho vissuti io.

Mi piangerai... anzi ci conto amore mio.... poi lascia che trascorra qualche mese, ma non molti, spero. Leo e Adeline hanno bisogno di un padre. Forse non mi dimenticherai, ma dovrai vivere per loro, dovrai vivere come se io fossi stato una parentesi nella tua vita.

I bambini si scorderanno in fretta, è normale; piuttosto scegli bene l’uomo che farà loro da padre, guardalo bene negli occhi e leggi bene nel suo cuore, come tu hai fatto con me ed io con te. Sarai felice.

Non ti scrivo queste cose a cuor leggero, ma è necessario. Ai piccoli, quando saranno più grandi, di’ che loro padre, non solo ha voluto loro bene, ma anche che non è mai stato un vigliacco e che anche loro non dovranno mai esserlo...

Ci ho ripensato Martha; forse un Dio c’è... se ho potuto amare così tanto... tuo per sempre, Lukas”

- Ad Enrica le lacrime le venivano giù a dirotto, tanto non la vedeva nessuno. Mancava ancora da leggere l’ultima lettera dove, accanto alla data era indicata la città di provenienza: Dresda. Da qualche parte, lontano, un uccello gettò un richiamo.

- “ ... Mio carissimo fratello Amos... se stai leggendo questa mia lettera insieme a quelle di Lukas, come spero, vuol dire che Leo è sano e salvo presso la tua famiglia, che Dio la benedica e la protegga. Sai già il motivo per cui, con grande trepidazione, per il viaggio in nave ho affidato il ragazzo ad una famiglia fidata, la famiglia Regensburger. Essi sono dei “goy” ma non ho trovato gente più onesta e di buon cuore di loro fra i giudei.

Io sono vecchia e malata e preferisco morire qui, in mezzo a queste infinite rovine, piuttosto che venire in America, e del resto il Signore Dio non tarderà molto a chiamarmi. Il mio cuore ha sofferto troppo durante questa guerra e questi inauditi bombardamenti.

Dopo l’indicibile dolore per la morte di polmonite della nostra piccola Adeline nello scorso inverno, troppa gente ho visto ancora morire intorno a me a cominciare dalla mia cara Martha; e in che modo! Ormai non ho più lacrime; ho sempre negli occhi il ricordo di quando l’hanno presa e poi giustiziata sotto casa perché ebrea, solo pochi giorni prima della disfatta; fino a quel giorno era stata ignorata perché moglie di un soldato ariano, come hanno continuato, chissà perché, ad ignorare me. Invece il nostro Reich, il crudele mostro già ferito a morte e perciò ancor più spietato ha voluto anche il suo sangue; era troppo bella per essere un’ebrea?

Adesso, senza Lukas caduto sul fronte russo, una donna sola e alla fine del suo percorso, come potrebbe accudire il caro Leo? Allontanarlo da me sarà come strappare le mie stesse viscere, ma tutto questo, come ti ho già spiegato, è per il suo bene.

Ho cucito questa mia e le lettere di Lukas dentro la fodera della sua giacca, affinché non le perda. È l’unico bene di cui dispongo che gli posso lasciare. Desidero tanto che un giorno sappia che persone belle fossero suo padre e sua madre, le radici da cui è nato... Mio caro Amos, ringrazio davvero e benedico ancora te e la tua famiglia. Ti abbraccio con tutto il cuore, tua Ester.”

 

- Enrica provò un immensa pena e tenerezza dopo aver finito di leggere. Levò lo sguardo nel vuoto ancora con gli occhi lucidi e se ne stette in quel modo per qualche minuto continuando a raffigurarsi quei fatti lontani. Alcuni uccelli, con il sole che era diventato intanto più caldo facevano baccano e sforbiciavano intorno voli agitati. La giovane, ancora vagando con il pensiero, scese svelta dal Poggino passando sulla destra di “Villa Fiorita”, villa ottocentesca che, proprio in quei mesi veniva ristrutturata per essere trasformata in Casa di Cura.

Arrivò a casa che il babbo e la mamma erano già a desinare intorno alla tavola odorosa di sapori caldi e fumanti. Guido con un cenno del capo le indicò, buttata in un angolo, quella piccola giacca verde scura che aveva messo da parte. Gliela aveva riportata a casa. Aveva intuito, da come quella sera si era messa ad osservare le lettere ingiallite, che le sarebbe piaciuto darle un’occhiata. Era un operaio ignorante, ma non gli difettava l’occhio e la sensibilità ed Enrica aveva preso da lui.

Dopo aver desinato, con quella giacchetta ormai sbrindellata in mano, si mise a sedere sulla sua seggiolina preferita dell’orto, per godersi ancora un po’ di quel sole d’aprile. La toccò, la ritoccò e la guardò a lungo. Aveva individuato facilmente il punto strappato della fodera dove quei fogli erano stati nascosti.

Poteva solo immaginare come quella povera giacchettina fosse capitata, dopo molti anni, a Prato.

Si poteva desumere dalla taglia del capo che il piccolo Leo, al tempo del viaggio, avesse circa sei, sette anni. Una volta arrivato felicemente a New York e accolto a braccia aperte dallo zio materno, forse confuso e insieme eccitato dalle tante novità, presumibilmente si era dimenticato del tesoro nascosto nella fodera della sua giacchetta. Infine, passati pochi anni, quel povero capo ormai troppo stretto per il giovane corpo in crescita del bambino, passò senza tanti riguardi dal baule della zia alla raccolta degli indumenti usati, venendo a finire anche questa storia d’amore e di morte,“ ...a Prato, dove tutto viene a finire: la gloria, l'onore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo... ” avverandosi quel che scriveva Malaparte.

 

- Nel pomeriggio Enrica sentiva di non avere la testa adatta per studiare, così andò al magazzino. A volte si sentiva più a casa lì che alla Facoltà del Lungarno Vespucci. Si accucciò volentieri sul suo guanciale e cominciò a lavorare ad un collo già disfatto di maglie.

Lo stanzone era enorme; addossati alle pareti cumuli immensi di stracci già divisi per colore, altrove le alte cataste di balle e colli raggiungevano le travi, mentre il soffitto qua e là era come festonato da lunghe ragnatele.

Gli operai erano seduti a terra per lavorare; a gambe incrociate alcuni di loro erano infagottati in modo grottesco con ciò che di più particolare fosse loro capitato di raccogliere tra i cenci. In testa tenevano dei berretti strani, o dei fez levantini o dei cappelli da prete, mentre al collo ostentavano sciarpe variopinte; altri indossavano singolari tuniche e pantaloni e giacche di chissà quali divise militari.

Ogni tanto qualcuno si alzava con il corbello colmo di cenci già scelti sulle spalle e s’avviava per vuotarlo sulle varie masse. Da certe commettiture del soffitto penetravano lame di luce brulicanti di polvere; la stessa che tutt’altrove avvolgeva lo stanzone di un vapore opaco.

- Dalla gita di Pasquetta Enrica non aveva ancora rivisto il suo timido padrone; sentiva che quell’oggi non l’avrebbe scansato.

Tuttavia non gli sortivano dalla testa, mentre continuava a fare la cernita, sia le drammatiche lettere che quella giacchettina. A casa aveva ben osservato il meticoloso lavoro di cucitura in gran parte ancora integro, fatto da nonna Ester. Leggendo la sua accorata pagina di accompagnamento ne aveva ben intuito il cuore, ma non ne conosceva l’aspetto.

Ma ad Enrica quelle mani sapienti che avevano scelto il colore e lo spessore del filo pareva proprio di vederle in quel momento. Le pareva di vedere anche quell’ago che, infilato con cura, sbucava e spariva sotto la leggera spinta delle dita callose ma ferme e decise. Vedeva ancora quelle mani grinzose che facevano il nodo finale, vedeva anche i denti non più splendenti che avevano tagliato il filo rimasto.

Poi immaginò anche il suo bacio dato alla stoffa a lavoro ultimato, quasi a benedirla e accompagnarla.

Si immaginò infine che, – ... chissà con che lacrime in pelle in pelle... – chiosò a voce bassa, nonna Ester avesse carezzato e steso bene quella tasca interna in cui aveva inserito le adorate lettere.

– Sarà il suo ricordo per il futuro, la garanzia delle sue radici... saprà di avere avuto una famiglia felice... tutti sapranno che aveva una famiglia alle spalle... ne potrà andar fiero! – Enrica, che si era messa nei panni di quella donna, mormorò ancora piano quelle parole, come immaginandole dette da lei.

Il giorno dell’addio, continuava a pensare la studentessa di Economia e Commercio, quelle stesse mani avrebbero sicuramente accarezzato i capelli biondi e ricci del bambino; ne avrebbero benedetto la partenza e il lungo viaggio affidato alle cure di quella buona famiglia di “goy”. E sicuramente trepidando, alla finestra, Ester lo avrà visto allontanarsi.

– ... quante volte, in passato, lo avrà addormentato, lavato, curato... – Mentre Enrica pronunciava piano e senza quasi avvedersene quelle parole, passò di lì il suo babbo: – ...oh Enrica... oh che ti metti anche a parlar da sola ora? – la apostrofò ilare, continuando a camminare svelto.

- Era stata profondamente colpita da tutta quella storia, a cominciare dalle lettere del soldato Lukas.

Lei era nata nel ’34 e, durante la ritirata dei tedeschi era ancora una bambina, ma si ricordava bene la fame patita e le bruttezze della guerra. Il babbo Guido si era buttato anche lui partigiano, ma solo negli ultimi mesi, nella brigata Buricchi, quella che si era asserragliata nei boschi di Javello.

Grazie a Dio non era tra coloro che furono catturati e poi impiccati sotto l’arco di Figline, ma lo spavento e l’apprensione per la mamma erano stati enormi. – ... lo vedi questo ciuffo bianco Enrica? M’è venuto in quei giorni per la paura! – ogni tanto le ricordava tuttora la Polissena.

Ma niente, le sembrava di aver capito, a confronto delle sofferenze che dovevano aver sofferto i soldati sul fronte russo, soldati di ogni uniforme senza distinzione, i russi come i tedeschi e quanto gli italiani. Enrica era sicura che gli uomini, da quella sanguinosa guerra costata milioni di morti, avrebbero imparato a non ripetere gli stessi tragici errori. Ne era proprio sicura.

Tuttavia, in quella vicenda, la cosa che più di tutto l’aveva fatta palpitare era stata la storia d’amore che s’intuiva essere stata vissuta tra l’ariano Lukas e la bella ebrea Martha. Allora, senza affatto smettere di passare la maglieria anzi, pensando alla bellezza di quei sentimenti che la facevano ancora vibrare, quasi accellerando per la contentezza, dimenticò le tante sofferenze insieme descritte.

Al ricordo delle ultime parole di lui: –...forse un Dio c’è... se ho potuto amare così tanto... tuo per sempre... –

il viso le si illuminò e la sua bocca carnosa, pochi istanti prima ancor triste, si volse in un sorriso quasi radioso, mentre gli occhi pur lustri di commozione anch’essi sorrisero; godeva in se stessa di quell’amore grande e lontano nel tempo ma così ancor vivo e della cui memoria, forse lei stessa era l’unica depositaria e testimone.

Pensò che un giorno avrebbe pubblicato e commentato quelle lettere; anzi, meglio ancora ne avrebbe ricavato un racconto o un romanzo che contenesse quella storia vera. Pensò che fosse giusto che tutti potessero conoscerla; che tutti sapessero a quali vette di amore può arrivare l’animo umano, tanto alte da poter incontrare, in quell’amore, Dio.

Per contro era altrettanto giusto che tutti ricordassero, qualora qualcuno lo avesse già dimenticato, quali vette di orrore e di odio lo stesso animo umano possa raggiungere con la guerra, ritenendo tuttavia che il ripetersi di quest’ultima, in futuro, fosse cosa impossibile: – ... no, l’uomo non potrà mai più esser così imbecille e disumano... non succederà... –

In quel momento passava di lì anche Arturo, l’innamorato padrone cenciaiolo, il quale non potè fare a meno, di fronte a quello spettacolo insolito, l’Enrica accosciata a guanciale che, pur sorridente, pareva guardare nel vuoto, di fermarsi lì davanti, per osservarla senza pudore.

D’un tratto lei si scosse dal quel torpore e dai pensieri che l’avevano come rapita e tornò in sé: – ... ciao Arturo... – gli sussurrò levando la faccia e gli occhi, continuando a sorridere.

 

  fine

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