MUSCIATTINO E I GLIFI

MUSCIATTINO E I GLIFI – racconto breve –

 PORTALE LATERALE PRATO

 – nooo ... guarda Maurino... alzati un po’ su’ pedali... così... morbido... sposta i’ baricentro all’indietro... così tu sei più stabile in discesa... vai... –

il Cecchino non si stancava di dargli i primi rudimenti da discesista. Scendevano dagli Acquiputoli e la strada era stretta, molto ripida e sconnessa: – ... ora facciamo raffreddare il cerchione e i tasselli... guarda... scendi a volo... guarda me, non ti fermare... –

Il Cecchino staccò il piede destro dall’attacco e passando sopra al sellino con la gamba, lo mise a terra insieme all’altro, continuando a correre a piedi mentre teneva la bici con la mano. L’altro, dopo un po’ d’incertezza lo imitò goffamente.

Scesero fianco a fianco corrucchiando e conducendo le bici a mano per qualche centinaio di metri.

Una strana coppia. L’apprendista ciclista era un disegnatore tessile, abituato a stare parecchio tempo alla scrivania o al massimo in piedi, e che non aveva mai fatto un’attività sportiva, tantomeno faticosa come quella; l’altro era un tessitore dallo sguardo strano e dalla voce stentorea, tarchiato e tutto muscoli che, una volta fermato il telaio a campioni, non faceva altro che correre.

Con quelle cosce spropositate, simili a due grossi prosciutti, le aveva provate tutte: la bici da strada, da montagna, corse lunghissime a piedi come la Firenze- Faenza, lo sci di fondo come la Marcialonga in Val di Fiemme.

Mauro Settesoldi in quel periodo andava spesso nel suo stanzone buio dove, nell’aria carica di afrori oleosi ondeggiava felicemente leggero il pulviscolo della peluia. I telai del Cecchino era antidiluviani, quasi da museo del tessuto, però per fare i provini dei cardati a fantasia andavano benissimo; le “licciate” era facili da montare e smontare e la macchina svelta a partire.

La Marisa era fatta su misura, pareva il Cecchino in gonnella; piccola, scattante, dal viso nonostante la mascella un po’ quadrata, espressivo e di un’empatica dolcezza, sempre disponibile. Non avendo figli e ormai di mezz’età avevano un canino che tenevano come un figliolo.

In quello stanzone avevano piazzato anche un grosso pallone da pugile ancorato al soffitto e al pavimento con una fune elestica. Così tra una prova e l’altra, mentre i due coniugi preparavano i cannelli dei colori richiesti e l’armatura, di quelle ancora con le rotelline di metallo, Mauro si infilava i guantoni e faceva un furioso corpo a corpo con quel pallone gonfiato.

Era nervoso, così in quel modo si spolmonava un po’ e si sfogava. II suo lavoro era complicato e in famiglia le cose non andavano bene.

- Con l’Ornella erano continui battibecchi; su tutto, proprio su tutto. Anche quella mattina lei aveva da ridire sul fatto che si interessava poco del figliolo: – ... eh... ma te un tu lo guardi mai... da’ professori ci vo sempre io... anche a i’ dopocresima mi tocca ad accompagnarcelo io... un tu ci tenevi tanto all’educazione da’ preti eh? ... lo vedi? un ti considera neanche... –

Si chetò un istante ma solo per riprendere fiato: – ... ma che c’hai l’amante in fabbrica?... o l’amante gli è quel bruttacchiolo di tessitore... tu se’ sempre in bicicletta con lui... eh!... ma un tu sarai miha anche finocchio eh?... – concluse la volgaretta con una risatina amara.

Se Mauro fosse stato gay, quel Cecchino con tre peli sul capo, di viso e occhi piccoli e quasi deformato da iper allenamento non sarebbe stato motivo di tentazione. Semmai il disegnatore era molto distratto dalla sua aiutante di sedici anni più giovane. Lei, ventenne appena uscita dal Buzzi era già fidanzata con un pistoiese, ma dava la sensazione, da qualche mezza parola, di non esserne proprio entusiasta. Certi suoi sguardi che si posavano velocissimi, la dolcezza di quegli occhi chiari e grandi, quella quotidiana presenza davanti alla sua scrivania non lo aiutavano certo a sopportare facilmente gli isterismi serali della moglie. Mauro tornava tutte le sere all’otto, ma praticamente con la testa continuava a lavorare anche a casa. Quel tipo di lavoro gli mangiava anche l’anima.

– ... oggi, lo sai? s’è fermata anche l’autoclave... e te un tu sei neanche tornato a desinare... l’ho dovuto chiamare da me il fontaniere... –

– ... Ornella, te l’ho detto... avevo i giapponesi di Takisada in fabbrica... ma come facevo a tornare, me lo dici? ... – ... e domani chi lo porta Mirko a Follonica alla gara di basket? eh? a me mi tocca...sempre a me... –

Arrivava la domenica e Mauro, esasperato, sentiva ineludibile la voglia di evadere; così andava volentieri con il Cecchino e altri due che lo portavano su e giù per i monti ad ammazzarsi di fatica in bicicletta. Ma la situazione in casa diventava sempre più pesante.

- L’Ornella, a parte il viaggio di nozze in crocera, era sempre stata una piaga fin dal primo anno di convivenza matrimoniale, mai contenta, ambiziosa; ma il disegnatore aveva sperato che migliorasse con il tempo. D’altra parte era una bellissima donna; alta, statuaria, con dei seni che erano una meraviglia. Scoprì presto che fosse una donna abbastanza vuota nonostante asserisse, poiché dipingeva ad acquarello dei motivi floreali, di avere interessi culturali.

Il suo babbo era un “impannatore” affermato, dettaglio che agli occhi del tecnico era apparso interessante, essendo la pittrice figlia unica.

Al Copernico tutti le avevano fatto la corte e quando era arrivato lui a conoscerla in senso biblico, non era più vergine, ma la cosa non lo aveva sorpreso più di tanto. Alla fine, circondato da un alone d’invidia da parte dei suoi coetanei l’Ornella toccò proprio a lui. L’aveva sposata dopo averla messa in cinta e il matrimonio officiato nella chiesa di Santa Cristina con il pranzo a seguire nell’omonima e vicina villa era stato all’altezza della nuova e ricca borghesia tessile pratese.

Adesso tuttavia le sue continue lamentele gli sembravano eccessive e sproporzionate; non capiva dove volesse arrivare. Poi un giorno seppe finalmente del fontaniere, quello che molto spesso veniva a ripararle l’autoclave difettosa.

Il fontaniere, o “trombaio” come si dice a Prato con voluta e maliziosa allusione, a dispetto dell’idea proletaria che la gente ha di questa categoria, aveva una grossa ditta con undici dipendenti che alimentava con chiacchierata abilità di milionarie commesse pubbliche. Possedeva una potente Audi, una bellissima casa in via della Torretta non lontano dalla villa del Palco e un’altra piccola villa in stile liberty a Forte dei Marmi. Mirko aveva undici anni quando, dopo qualche mese, i due coniugi arrivarono alla separazione consensuale, seguita a distanza di un anno dal divorzio.

- Nel mese di luglio del 1986, in una caldissima domenica di sole Mauro, non avendo più nessuno che avesse da borbottare alcunché per la sua insana passione partì con la sua Colnago in fibra di carbonio. Aveva intenzione di arrivare all’Abetone e ritorno: centoquarantaquattro chilometri.

Voleva misurarsi con una prova molto dura, ma da solo: “... tanto Mauro... – pensò tra sé crogiolandosi in una sorta di appagante autocommiserazione – ... se schianti nessuno ti rimpiange... neanche Mirko... e forse neanche Limberto –.

Era amareggiato; il ragazzo, ormai tredicenne, da quando si era accasato con la mamma nella bella casa alla Castellina, lo cercava poco.

Quel Limberto era il suo titolare; e in quei giorni con lui era in aperto dissidio. Gli stava contestando i primi sviluppi dell’imminente collezione invernale 1987-88. Dicevano, lui ma soprattutto i suoi due figli, che il pre-campionario si stesse rivelando un dejà-vu, privo di colore e, per giunta, senza abbastanza di quelle novità merceologiche di cui si parlava in giro. A Prato in quell’anno, i lanifici stavano provando infatti a metabolizzare la crisi causata dal forte calo di richiesta del cardato di lana, cimentandosi nell’utilizzo delle fibre aliene come il lino, la seta, il cotone.

- Cecchino e il suo gruppetto invece erano partiti due giorni prima per Arabba. Quella stessa mattina avrebbero partecipato alla “Maratona delle Dolomiti” una lunga classica che percorreva i luoghi più belli del mondo, in scenari mozzafiato intorno al massiccio del Sella e non solo. Avevano invitato a partecipare anche lui, ma inutilmente: – ... dai... vieni... ce la fai benissimo... non hai problemi... –

Lui aveva addotto problemi di lavoro che erano anche veri; era sotto collezione e in posizione psicologicamente difensiva a fronte dei continui e critici mugugni. Oltretutto, in mezzo a tanti ciclisti allenati di tutta Italia temeva di fare una figura mediocre. Del suo gruppo di amici era il più scarso; più volte in salita con loro si era sentito “al gancio”.

Però la grinta e la determinazione non gli facevano difetto, le stesse che aveva sempre messo nel lavoro. Già, il suo amato lavoro; gli aveva dato tante soddisfazioni in passato che adesso non valevano abbastanza per rassicurarlo nel momento presente.

Ogni sei mesi, da una vita, era come si ripetesse un vero e proprio esame, i cui esaminatori erano gli uomini stile e prodotto delle più importanti firme. Il tempo di respirare, sempre che fosse andato tutto bene, altrimenti si accumulavano tensioni e ripensamenti, e si ricominciava daccapo con le informazioni, le fiere, la progettazione, lo sviluppo delle nuove idee per la sfida successiva.

– ... ma guarda quei due cretinetti... l’ho visti ragazzini e ora si sentono dei gran stlisti... e invece un ci capiscan nulla... – rimuginava mentre, le mani ben afferrate alle leve, pedalava deciso per quella bella strada di montagna, fresca e ombrosa e circondata di alti e profumati boschi di conifere. Quando arrivò alle “Regine”, a tre chilometri dal traguardo, si sentì sollevato; era felice di avercela fatta senza eccessivi affanni.

Dopo un ricco spuntino al fresco nei pressi della “Piramide”, prese la strada del ritorno. La strada inversa, con tutta quella salita già nelle gambe non sarebbe stata una passeggiata; il caldo si faceva sentire anche a quelle quote e c’era da salire il “Mammiano” e poi l’”Oppio” dalla parte di San Marcello.

- Arrivato ormai in fondo alle “Piastre” era stremato, ma contento. Dopotutto era un ciclista della domenica che aveva iniziato con le due ruote soltanto da tre anni. Si rilassò pensando alla doccia che lo aspettava a casa.

Sì, era quasi vuota ma era ancora la sua casa di Via Pasquetti, a Mezzana; non essendo stati in comunione dei beni era ritornata a lui dopo una parentesi di pochi mesi trascorsi da mamma Elvira. Ornella, risposata con il “trombaio” aveva fatto finalmente il suo trionfale ingresso in quella villa immersa tra olivi e cipressi digradanti da Filettole.

Per qualche istante gli venne in mente Marzia e si sentì intenerito. Da un mese lei si era lasciata dal pistoiese: - ... ha fatto bene... dimmi te icché ci po’ esser di bono in un pistoiese... – chiosò tra sé sorridendo.

Era vero che ci fossero sedici anni di differenza, ma lui si sentiva fisicamente in forma, era capace di intrattenersi con brillantezza con qualsiasi interlocutore e, la cosa più importante, gli pareva di essere in grado di far davvero felice una donna. Si erano parlati e anche qualcosa in più. Una sera di pochi giorni prima l’aveva portata a Legri alla Festa dell’Unità. Avevano parlato e parlato, non di lavoro, e al ritorno si erano sfiorati con un bacio sulle labbra prima che scendesse dalla macchina; nulla di che, ma quel gesto gli era sembrato somigliasse in qualche modo a una promessa.

Così, in quello stato d’animo, parendogli di sentire ancora il profumo di quelle labbra giovani e così ben disegnate, fin troppo intenerito e rilassato affrontò uno degli ultimi curvoni in modo troppo disinvolto, appena dopo il bivio per Campiglio.

Una grossa macchia d’olio lasciata lì, chissà da un vecchio camion, gli fu fatale. Non fece a tempo a scansarla. La botta fu tremenda, come una forte martellata sull’anca sinistra. Andò anche troppo bene: la macchina che veniva subito dietro si bloccò senza investirlo e lo soccorse chiamando subito l’ambulanza della Croce Verde.

Trascorse così, tra radiografie e ingessatura una settimana all’ospedale di Pistoia. Era stato ingessato in maniera molto invasiva, dal torace fino alla caviglia. L’acetabolo, cioè l’osso che contiene la palla del femore, rotto in varie parti ma composto, avrebbe avuto bisogno di un mese di immobilità assoluta che Mauro trascorse a letto nella sua casa vuota, quasi sempre da solo.

A parte una donna a ore e salvo la rapida visita giornaliera dell’aiuto tecnico, non la “tennichina” come avrebbe sperato, ma quello più anziano che veniva a sottoporgli i campioni usciti dal telaio e gli studi ancora da completare.

E salvo per fortuna anche lo sporadico pellegrinaggio di alcuni amici, compreso il Cecchino che, entrando in camera, sorridevano scuotendo il capo, in segno di compatimento e di ironica commiserazione.

Altre settimane, fin quasi alla fine di agosto gli occorsero per le cure fisiche, cosicché quando in fabbrica riprese in pieno il lavoro e alla fiera di fine settembre non sarebbe mancato molto, Mauro era ancora frustrato e arrabbiato con se stesso.

- In agosto e anche dall’ospedale, aveva cercato più volte Marzia per telefono, ma non si era fatta mai trovare. La trovò soltanto la volta che sarebbe stata l’ultima quando, con un fil di voce lo fece rimanere di sasso: – ... Mauro, mi dispiace... l’ho già comunicato al titolare... ho trovato un altro lavoro... non ci rivedremo... non è il caso... – ... Marzia... come mai... ti ho fatto qualcosa?... – ... non mi hai fatto nulla Mauro... sei molto caro... ma non è il caso... non mi cercare... ciao... –

Riattaccò e in seguito nessuno seppe dirgli dove avesse trovato da lavorare. L’aspettò senza successo più volte sotto casa sua dove l’aveva accompagnata quell’indimenticata sera di Legri, fino a che prese coraggio e salì al piano dove sapeva fosse l’appartamento. Rimase sconvolto quando l’uomo che venne ad aprire gli disse che la famiglia Luccianti si era trasferita da pochi giorni, ma non sapeva dove, e che lui era il nuovo affittuario. Non la cercò più.

La collezione a ”Premiere Vision” andò molto male e l’acetabolo continuava a dolergli. Mirko non voleva venire quasi mai a passare il fine settimana con il babbo e lui non volle forzarlo. In tre mesi era ingrassato di dieci chili e la bicicletta non l’attirava più come una volta.

- Una mattina il signor Limberto lo chiamò: – ... vedi Mauro, il lavoro ora c’è... va tanto la flanella, ma certamente non grazie alla collezione... lo vedi, le pezze campioni non arrivano... –

Gli fece capire che il suo stipendio fosse troppo alto ormai per quella ditta. Poi esitò un istante, per lui non era facile arrivare alla conclusione. Mauro era lì da dodici anni, insieme avevano vissuto momenti anche esaltanti, ma i suoi figli lo avevano convinto: – ... Mauro... non hai certo nessun problema a trovare un lanificio valido che sia alla tua altezza... –

Rimase scioccato; gli ci volle un giorno intero per realizzare di essere stato liquidato; non se l’aspettava. Fu l’ennesima goccia traboccante il vaso già pieno. Gli dettero alcune settimane di tempo per sistemarsi ma il morale gli era scivolato fin sotto i tacchi anzi, diceva a se stesso di sentirsi proprio uno schifo.

Quelle settimane passarono presto senza aver trovato nulla di buono. Si sentiva sempre più come avvolto di un sottile mantello intessuto d’ansia e di delusione, e pervaso da profonda stanchezza fisica e mentale. Non erano davvero i problemi economici che lo preoccupavano, era il suo ego ferito e sanguinante che lo faceva star male. Aveva fallito in tutto.

Ben presto si trovò all’imboccatura dell’oscuro tunnel dell’esaurimento nervoso. A niente valevano le telefonate e le visite del Cecchino; anzi gli davano fastidio e alla bicicletta non ci pensava più. Un passo ancora e quel tunnel lo avrebbe fagocitato.

- Verso le dieci di una giornata ancora tiepida di ottobre, con le mani in tasca e con l’aria di uno che non avesse niente da fare, vagava per il centro di Prato.

La buonuscita da dirigente era stata buona, tuttavia era ancora un disoccupato e come tale si sentiva, pur avendo rigettato alcune opportunità che non gli erano sembrate consone all’idea che aveva della propria professionalità.

La notte era diventata complicata; preso dai suoi fantasmi non riusciva a prender sonno e si svegliava spesso, così quella sera aveva preso una dose più forte di sonnifero.

Era ancora un po’ annebbiato, e non ricordava bene perché si trovasse lì in piedi sugli scalini sotto al pulpito di Donatello; ma quando le sinapsi cominciarono a funzionare il viso gli si illuminò: – ... ah sì... già... che bischero... i simboli... la macchia sul marmo... –

Qualche notte precedente, per riprendere sonno si era messo a sfogliare senza entusiasmo un sottile libro ma riccamente rilegato in doppia copertina, un omaggio della banca. “I simboli, i misteri, la storia e le leggende del Duomo di Prato” ne era il titolo. Ma poi, cominciando a leggere qualche descrizione si era un po’ incuriosito, soprattutto della storia di Musciattino.

Quella mattina, al risveglio, palpebre tuttora mezze chiuse, lo sguardo si era posato incidentalmente di nuovo su quel libro, lasciato sul comodino. Dopo una mezz’oretta, ancora con la tazza di caffélatte in mano sbottò: – ... fanculo il lavoro... fanculo Limberto... fanculo tutti... –

Gli era scattata, chissà per quale meccanismo mentale, la voglia di andare in piazza Duomo.

- Adesso era lì davanti al portale. In vita sua ci era passato davanti mille volte, eppure non ci aveva mai fatto caso veramente. Quel libro ne spiegava molte cose che ora faceva fatica a ricordare:

– ... accidenti... ma perché un l’ho portato con me?... –

Gli era rimasto in mente soltanto il fatto che il secondo portale del fianco sud del Duomo avesse dato origine da tempo a molte suggestioni, leggende e misteri. In effetti quei chiari intarsi sulle due colonne di marmo verde di Figline erano singolari e suscitarono anche in lui, sul momento, stupore e curiosità. Pensò che sarebbe valsa la pena di fare un salto a casa per prenderlo, tanto era in bicicletta, quella da passeggio. L’altra, quella da corsa in carbonio, era appesa tristemente ad un gancio nel suo garage.

Ma prima appuntò lo sguardo in alto per trovare quella macchia rossa, e questo se lo ricordava, che avrebbe dovuto trovarsi nell’angolo sinistro, sotto l’architrave. E la vide; quell’arrossamento sul marmo bianco c’era davvero.

- Dopo mezz’ora era già di ritorno con il libro dentro uno zainetto ma, mentre si accingeva a consultarlo avvertì con piacere quanto quella sfuriata sui pedali gli avesse fatto bene.

Dopo mesi di apatico intorpidimento aveva avvertito, come gli succedeva una volta, lo scorrere veloce del sangue, aveva sentito di nuovo aprirsi in pieno i polmoni, e perfino riconosciuto l’effetto sia pur minimo dell’endorfina, l’”ormone della felicità” come lo chiamava il Cecchino, prodotto nello sforzo aerobico.

Aprì il libro e vi lesse innanzitutto di Musciattino, secondo la cui leggenda quella macchia rossa non era altro che il sangue rappreso della sua mano mozzata. Era lui il ladro sacrilego che tentò di rubare, per conto dei pistoiesi, la preziosa reliquia della Sacra Cintola custodita gelosamente dai pratesi nel loro Duomo.

“Aprite, aprite pistolesi, che ho la Cintola de’ pratesi!”: queste erano state le sue ultime parole. Scoperto e riconosciuto, venne subito catturato dalle guardie pratesi, processato all’istante e condannato a un orribile supplizio. Poi una delle mani del ladro sarebbe stata gettata contro il muro del Duomo, e avrebbe lasciato quel segno rosso.

– ... i pistoiesi... sempre i pistoiesi nel mezzo... ladri di cintole e di cuori... – Con un po’ d’amaro in bocca Mauro sorrise della propria battuta, pensando a Marzia.

Poi vi lesse che gli intarsi in verticale lungo le due colonne, fossero segni di altissimo valore esoterico, rappresentando i “glifi” remoti da cui, si supponeva, ogni credenza avesse avuto origine. Volse allora il capo all’insù per confrontare quell’introduzione con gli intarsi, poi riaprì la pagina: “ ... il principe eterno luni-solare è chiaramente espresso dalle due stelle a otto punte rappresentanti i due astri alla maniera tradizionale: la luna più piccola a sinistra e il sole a destra... ”

A questo punto Mauro si grattò il capo: – il principe eterno luni-solare?... che vuol dire?... –

Quell’espressione gli parve oscura ma non così criptica come le parole successive: “ ... le otto punte sono legate all’influenza alchemica di Mercurio, essendo l’otto il suo numero sacro, determinato dalla fusione dei due elementi maschi e femmina nell’androgino mercuriale. Sotto la luna quindici simboli di natura palesemente fallica... ”

Il testo continuava menzionando Saturno, Venere, Giove e Urano e spiegava il valore dei numeri contenuti nei simboli e delle somme tra loro degli stessi numeri. Gli pareva tutto abbastanza affascinante ma molto, molto complicato.

A quel punto Mauro, stanco, entrò nella cattedrale e si mise a sedere davanti alla cancellata della “Sacra Cintola”. Era confuso, non capiva come mai avesse provato e provasse tuttora quella strana attrazione verso il portale e le sue lapidarie figure che il testo chiamava “glifi”.

Alzò il capo verso la “Madonna con Bambino” del Pisano. Una lama di luce intensa ne metteva in risalto il sorriso mite e la singolare postura. Da ragazzino, mamma Elvira lo portava spesso a dire un “Ave Maria” davanti alla Cintola; si sentì contento di trovarsi lì, non gli succedeva da molti anni.

- D’un tratto si accomodò proprio accanto a lui, pur essendo libera un’altra panca, un signore anziano.

– ... mi perdoni signore... mi rendo conto di apparire importuno... – ... prego... mi dica... –

Mauro, scostandosi appena per poterlo guardare in viso, non nascose la sorpresa per quell’approccio. Era un bel vecchio con ancora tanti capelli completamente bianchi e insolitamente ricciuti. Gli occhi chiari che nonostante le spesse lenti gli luccicavano con particolare intensità, distoglievano l’attenzione dalle numerose e profonde rughe del viso.

– ... passo spesso da questa piazza... ho visto che guardava il portale... lo ha osservato a lungo... e che consultava un libro... mi dica... contiene delle spiegazioni sul portale?... – sì, certo... parla di quello... – ... mi perdoni di nuovo... vero che le persone anziane bisogna sopportarle?... – sorrise bonariamente guardandosi attorno: c’erano dei fedeli in piedi dietro di loro.

– ... mi consentirebbe di dargli un’occhiata?... – ... ma certo, si figuri... tenga... –

Lo sfogliò in poco tempo, leggendone a tratti alcune spiegazioni, mentre Mauro, perplesso, lo sbirciava sottecchi.

- Il vecchio chiuse il libro, poi si rivolse piano al disegnatore: – ... lo sa che lì dentro c’è scritto un sacco di balle, vero?... se vuole ne parliamo... – poi aggiunse ancora più sottovoce: – ... ma fuori... qui ho già chiacchierato abbastanza... – ... va bene... andiamo pure... – annuì Mauro.

Si presentò: – Sono un vecchio rompiscatole di professore di liceo... ho insegnato per tanti anni Storia e Filosofia al Cicognini... mi scuso ancora, ma non sono molti quelli che guardano con interesse quel portale, lo sa?... –

Mauro replicò dicendo che non aveva nulla di cui scusarsi: – ... io invece ho fatto il “Buzzi”. Non me ne pento, ma ho sempre avuto qualche interesse per l’arte e per la storia... s’intende ... da ignorante. Mi fa piacere sa?... parlare di queste cose. –

Propose al professore di andare dal “Betti” per un aperitivo. Passando scorse la sua bicicletta appoggiata alla cancellata del Palazzo Vescovile. – ... per fortuna non l’hanno ancora rubata... – pensò mentre l’allucchettava velocemente.

- Parlarono molto a lungo, per quasi due ore. Mauro si sentì riavere. Parlare di quelle cose lo rigenerava. Tuttavia, anche in quel contesto, una punta d’amaro sarcasmo ad un certo punto gli fece ugualmente capolino: – ... ma icché avrò io... che le mi spariscon tutte dalla circolazione... –

Infatti, durante gli ultimi due anni del Buzzi e in parte anche dopo, andava spesso a Firenze per musei e chiese antiche in compagnia di Valeria, una ragazza che gli piaceva molto. Anche lei però, con dispiacere, era scomparsa dal suo giro per vari motivi.

In tutti i casi gli era rimasta la consuetudine di osservare con un certo approccio contempativo le cose belle, specialmente quelle antiche, ovunque si fosse trovato, anche per lavoro: a Parigi, a Colonia, piuttosto che a Londra, appena ne avesse avuto il tempo e la possibilità.

Il professor Marchi, originario di Firenze ma pratese di adozione non si era mai sposato. Disse sorridendo che aveva sposato la scuola e la cultura. Gli spiegò che tutti quei discorsi che aveva letto tutto d’un fiato nella pubblicazione bancaria, fossero in gran parte delle superstiziose fandonie.

– ... quei glifi hanno un grande valore culturale e storico; sono come “una scrittura viva” ma sono semplicemente testi di teologia, alta teologia, magari riservata a una ristretta cerchia. I simboli rappresentati ai due lati del portale indicano la via, il percorso, per arrivare a Dio.
Vede Mauro... a sinistra, partendo dal basso verso l'alto, il percorso è guidato dalla Razionalità.

A destra, partendo sempre dal basso verso l'alto, il percorso è guidato  dallo Spirito Santo.... –

Il tecnico stava a sentire a bocca aperta; l’eloquio del vecchio professore era affascinante

- Aiutandosi con le foto pubblicate sul libretto di Mauro, gli fece osservare quanto, ogni simbolo, per la cui interpretazione fosse fondamentale anche l’analisi dei numeri, avesse un proprio significato in ordine al messaggio finale. – ... vede Mauro... gli elementi di tonalità scura rappresentano la Terra e quelli chiari il Cielo... –

I glifi sul lato sinistro del portale erano dominati dal numero cinque, numero considerato come simbolo della ricerca, l'essere umano consapevole di sé che continua a cercare; mentre il lato destro era dominato dal numero otto, numero che indica il percorso, il passaggio, la trasformazione.

Gli mostrò, tra le altre cose, che il primo disegno in basso a sinistra poteva essere la sezione  verticale  di una struttura immaginaria che si innalzasse verso l'alto, rappresentando in tal modo, mediante la razionalità, l'inizio del percorso dell’uomo dalla Terra verso il Cielo.

Poi gli indicò il primo disegno in basso a destra: – ... guardi... il cerchio tagliato dalla croce, invece, rappresenta l’equilibrio e l’ordine... –

Nel disegno soprastante, il cerchio interno indicava invece l’inizio della conversione spirituale. Dopo averli passati tutti in rassegna il Marchi si fermò qualche istante per sorseggiare il suo Campari Soda.

– ... Il messaggio allora direbbe che la razionalità possa e debba andare a braccetto con la fede, mi sembra di capire... – interloquì il tecnico disoccupato.

Gli occhi del vecchio professore si illuminarono: – ... certo, certo... è proprio così Mauro... la Chiesa d'altronde ha sempre affermato che attraverso la ragione si arriva anche alla dimostrazione  dell'esistenza di Dio.... è l’incontro tra l’intelligenza umana che è dono di Dio e il divino che dona la fede... –

Si era creata una certa empatia tra l’anziano studioso e Mauro Settesoldi, ma era abbastanza tardi, così si salutarono stringendosi la mano, ripromettendosi di incontrarsi di nuovo.

Il tecnico volava ritornando a casa, accumulando ancora una piccola dose di “endorfina”. Almeno per quella mattina aveva quasi dimenticato le sue frustrazioni.

- Circa un mese dopo era in trattativa con un noto lanificio ma non ne provava alcuna apprensione:

– ... loro son di braccino corto, si sa... anzi... lo sai icché... se un mi pigliano gli è quasi meglio... mi metto per conto mio e fo le consulenze esterne... –

Era un pezzo che ci pensava a prendere la partita IVA. Voleva avere più tempo libero per coltivare altri interessi che non fossero solo il lavoro, la collezione dei tessuti.

La prima chiacchierata con il professor Marchi gli aveva risvegliato un mondo che gli era un po’ appartenuto ma poi sopito da lungo tempo.

Lo aveva ancora frequentato; passava a prenderlo per portarlo a pranzo o a colazione, benché non mangiasse quasi nulla. Sentiva che quel vecchio potesse aiutarlo a considerare l’esistenza umana con sguardo diverso, mettendone i valori nel giusto ordine e a scoprirne il senso autentico.

A Mirko intanto aveva comprato una bici da corsa della sua misura, casco, montura e scarpette. Nonostante l’accanita contrarietà dell’Ornella era stata una mossa indovinata. Il ragazzo si appassionò, e al sabato veniva volentieri a Mezzana per pedalare con il babbo.

– ... va bene “tennico”... va bene... – Il Cecchino con un largo sorriso si volse all’indietro: “ ... credevo di ritrovarti più bolso dopo l’ingessatura e tutti questi mesi da vagabondo... vuol dire che t’hai i’ fisico bono ... –

In realtà Mauro, in solitaria, aveva ripreso la bicicletta da tre settimane e, piano piano, si era rifatto un po’ di fiato e di tono muscolare. Adesso aveva più tempo con le consulenze.

Si trovavano, dopo aver affrontato la dura salita di Sammommè, sulle prime rampe verso Pian di Giuliano e la mattinata era splendida. Il sole di fine novembre faceva risaltare i magnifici colori autunnali e tutt’intorno era una festa di gialli, ocra, rossi e aranci, verdi e sontuosi marroni.

– ... la vedi Cecchino tutta questa bellezza, questi colori... la senti quest’aria? ... – ... in do’ tu voi arrivare tennico con codesti discorsi?... – ... semplice... secondo te come l’ha fatto a venire? ... –

– ... boh... come sarebbe a dire? ... – ... questa bellezza l’ha creata Dio!... –

Poi lo affiancò mettendogli una mano sulla spalla: – ... oh la Marisa, che tu dici che tu se’ sempre innamorato come un ciuho in calore, chi l’ha creata?... eh?... l’ha creata Dio!... –

Il tessitore prima lo guardò perplesso ma poi sorrise sotto i baffi: – ... oh tennico... secondo me... quella botta la t’ha proprio rintronato... –

     fine

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