IL MEDIATORE

IL MEDIATORE – racconto breve –

Premessa dell’autore:

È un racconto nel quale, in primo luogo, sono importanti i profumi di un passato ancora riposto nei cassetti della memoria e del rimpianto di molti pratesi come il sottoscritto.

La vicenda ambientata negli anni 70, disegnata nelle intenzioni come un bassorilievo grazie a certi tocchi di colore anche ironici, non vuole dimostrare nulla riguardo al tema dell’omosessualità, che è solo una delle caratteristiche dei due protagonisti i quali, oltre a subire sofferenza per certi gesti di discriminazione presentano, come tutti, una miscela di umani sentimenti. Sentimenti buoni come la fedeltà e il rispetto, e tratti più negativi come la propensione all’inganno.

Il tema dell’omosessualità oggigiorno è argomento sensibile nell’ambito dei diritti civili e può suscitare prese di posizione contrastanti, alcune di maggior buon senso, altre più intolleranti da ambo i lati del tavolo del dibattito. Ben venga, se sentito come utile, un confronto anche nella comunità parrocchiale.

 

 – ... noi mediatori siamo come e’ topi... la nave che affonda siamo gli ultimi a abbandonarla... sicchè sono andato a vedere a che punto gli è il naufragio... io m’ero basato anche su di loro... voglio di’ la verità... e mi fidavo... –

Il Bonacchi era dispiaciuto; si riferiva alla ditta Bellandi, il vecchio magazzino di cernita e sfilacciatura di stracci dove lui stesso si era fatto le ossa da ragazzo.

– ha’ visto?... eppure loro son nati cenciaioli... bisogna esser nati cenciaioli, bisogna essere stati operai a guanciale, avere agognato un magazzino per tanti anni per capire icché po’ l’essere i’ dispiacere... finiti ne’ fango, peggio che morire... –

Poi si rivolse, un po’ a sproposito a Duccio che non era fornitore, ma il suo maggior cliente quasi esclusivo: – ... ma con te... unn’ho di queste paure... tu se’ forte.... –

Sapeva esser untuoso ma con misura. Duccio era il maggiore di Brunetto Baroncelli, fondatore dell’omonimo lanificio, tra i più lanciati e fiorenti di Prato e del quale aveva ormai preso le redini. Quando Sergio Bonacchi ne aveva voglia, faceva leva sulla sua vanità facendolo gongolare: – senza uno che abbia l’idee chiare come te, una ditta la un pole andare avanti ... –

Il mediatore camminava eretto con le braccia lungo i fianchi, facendo ondeggiare la testa da una parte e dall’altra. Aveva una bella testa rotonda, il busto lungo e massiccio su un paio di gambe altrettanto lunghe. Ogni tanto si passava la mano a scompigliare i capelli a caschetto alla Beatles che non gli si addicevano ma di cui andava fiero, e pareva che schizzasse spilli dagli occhi, piccoli e luccicanti.

– ... eh sì... – sospirò Duccio - ... però unn’è facile... e ci vole gente fidata ... – ... se ora la vendita della flanella l’è un po’ ferma, alla prima mossa, tu lo sai te come fare a levare i’vin da’ fiaschi... – replicò il lungagnone.

– ... intanto da’ retta a me... lo stame gli è oro... fai un po’ di scorta... ma no tanti colori... i’ nocetta, il rosso, il blu... i’ nero no, quello si tinge da i’ rossino... – almanaccò ancora.

Erano in magazzino delle materie prime e, a parte le grosse balle di lana nuova australiana, per la quale ci pensava il tecnico Franceschini a fare gli acquisti, tutto il resto cioè il novanta per cento del fabbisogno, passava attraverso il Bonacchi in tandem con Pio, il magazziniere feltrinista. Schierati lungo il muro, tantissimi erano i colli pronti di lana “meccanica” e quelli dei “rinforzi”, cioè i fiocchi di nylon e di poliestere.

Si soffermò a gambe aperte dinanzi a un collo aperto di stame scavandovi a forza di braccia; quel che toglieva lo spargeva al suolo scotendo con delicatezza qualcuno di que’ ciuffi, e mostrandoglieli:

– ... guarda che roba, tutta fibra lunga... sfilacciata come si deve...– diceva; poi passava gli altri ciuffi di lana di color ruggine aranciato fra le dita come se li carezzasse: – ... Il mestiere lo conosco... di mediatori che ci stanno dietro passo passo un ce n’è tanti... –

Lui era stato garzone di cenciaiolo. L’attitudine al mestiere effettivamente gli risaliva ai tempi di quei gesti ripetuti mille volte. Ma, insofferente di lavorare tutto il giorno seduto a terra o a gambe incrociate su una specie di rudimentale guanciale, s’era presto messo nel mondo della “mezzeria” con sicurezza e competenza, aiutato da un certo intuito. Andava davvero sempre in cerca del lotto migliore e del miglior prezzo.

La sua era una faccia adatta a tutte le stagioni che asssorbiva delusioni senza rifarsene. In quel mestiere sfoggiava una duttilità, una parlantina non banale che gli consentiva di essere ben sopportato dai fornitori e dai clienti.

Duccio lo lasciava dire volentieri, toccando e guardando anche lui quei lunghi ciuffi filosi.

Superata in quel giro, Sergio gli stava facendo passare come in rassegna il suo operato, la catasta delle balle e dei colli, passarono dalla cardina che era in funzione.

Pio stava ultimando il feltrino del “ferroviere melange” in preparazione di una mista di dieci quintali, e in quel momento stava arrotolando a mano il morbido materasso dalla botte. Lo piegò in due e con dei piccoli tocchi lo fece assomigliare ad un grosso fungo per confrontarlo al feltrino originale: – ... icchè ti pare Bonacchi... gli è bello, però gli darei un altro un per cento di quella lana nova bianca... –

– ... te per fare e’ feltrini t’hai l’occhio bono... – rispose il mediatore che aggiunse, rivolgendosi con lo sguardo al titolare: – ... vero Duccio... lui gli è bravo... preciso... – Pio ebbe un lieve rossore.

- ...però... sta’ attento a icché ti dico Pio... i’ tennico gli ha voluto prendere la lana argentina per melangiare gli scuri... dice che l’è bona... a me mi pare che la un s’apra tanto bene... l’è nervosa... gli agnellini australiani son meglio... –

C’era un sordo contenzioso tra il tecnico responsabile dell’avanzamento di produzione e il mediatore che avrebbe ambito a prendere lui in mano anche l’acquisto della lana nuova. Così non perdeva occasione per mettere in dubbio la sua competenza in materia di lane.

Duccio non voleva entrare nel merito e non gli dette peso; a lui bastava che alla fine l’articolo 42.600, come in quel caso, venisse bene.

Mentre i due si allontanavano il feltrinista fece un gesto interrogativo al mediatore come a dire:

– allora... icché fo?... – Pio, un’andar via... ora torno... – gli accennò allora prima di sparire dalla porta.

– ... certo che tra te e Pio Nenciarini c’è una bell’intesa... eh, Bonacchi... – che voi, gli è il marito della mi’ sorella... – Non gli era garbato il tono di quelle parole, c’era un che di maliziosamente non detto. Non l’aveva visto in faccia, però aveva avuto la sensazione che un mezzo, ma neanche, un quarto di sorrisino, l’avessero accompagnate.

Duccio era un uomo di mondo. Che era l’espressione edulcorata che usava lui stesso per definirsi instancabile cacciatore di donne, possibilmente belle ma soprattutto disponibili. Ovunque andasse, alla fiera di Francoforte piuttosto che a quella di Parigi, appena dopo il lavoro che era lo scopo prioritario delle trasferte, il suo tempo era rivolto a quella ricerca.

Alla sera, in albergo o in qualche locale notturno, quando non bastavano i rozzi tentativi di un pratese vestito molto bene e sicuro di sé ma completamente analfabeta con le lingue straniere, si avvaleva del suo scudiero, il suo commerciale tedesco: – vai... Jancke, vai... chiedigli quanto la vole... –

Nell’accompagnare quelle parole, con gesto eloquente e spesso definitivo, tirava fuori dalla tasca interna della giacca l’involto di banconote da centomila lire legate da un gommino. Questo era Duccio Baroncelli.

Poiché apprezzava il Bonacchi come mediatore, anche per una sorta di riconoscimento professionale, più di una volta aveva cercato di ingaggiarlo: – ... oh Sergio... stasera vo a Montecatini con quei ragazzi... c’è da fa’ del bene... ho il giro giusto... che voi venire anche te? –

Ma il mediatore, tutte le volte aveva sempre da fare anche lui del bene. Diceva che proprio quella sera aveva fissato con una a Firenze che era la fine del mondo e che non poteva farle uno sgarbo.

Altre volte gli aveva sibilato, ma si raccomandava che la cosa rimanesse in confidenza, che lui fosse come sposato con due donne diverse, ma che l’una non sapeva dell’altra: – ... tu capisci... son parecchio impegnato... ho dei doveri... un le posso miha trascurare... – concludeva con una mezza risata che voleva essere di complicità.

A Duccio per molto tempo la cosa continuò ad importargli relativamente.

Ed era vero che la sua perspicacia quasi animalesca, somigliante a quella di un felino affamato, la riservava, oltre che alla caccia alle donne, quasi completamente all’attività commerciale, intuendo molto spesso quale fosse il prezzo migliore per un determinato cliente oppure quale fosse la tattica giusta per concludere un ordine; però, dai e dai, quei continui dinieghi cominciavano a restargli singolari.

Tuttavia, avendo molti difetti, non aveva quello di essere un chiacchierone; quella mattina quel sorrisino non ostentato ma un tantino malizioso gli era venuto spontaneo, ma poi non ci pensò più.

Il faro della sua attenzione, dopo aver lavorato tutto il giorno, quella sera sarebbe stato rivolto verso una meravigliosa mulatta di origine antillana; che non era una prostituta d’alto bordo, bensì la stilista olandese di una grossa ditta di Amsterdam. Sapeva bene l’italiano; pensò che avrebbe unito l’utile al dilettevole

Invece Sergio Bonacchi ci pensò eccome. Era la prima volta che accadeva, almeno con Duccio Baroncelli. Come era scrupoloso nel suo lavoro era ancor più era scrupoloso nel non dare il minimo adito a certi sospetti: – ... non ti voglio colpevolizzare... ma potevi fare a meno di fare quel viso rosso Pio... –

Il feltrinista disse che se n’era accorto ma che non l’aveva fatto apposta e che gli dispiaceva: – ... però Sergino... evita di farmi degli apprezzamenti in presenza d’estranei... per piacere... lo sai che mi fa quest’effetto... –

Avevano la stessa età, avevano fatto le stesse scuole elementari e le medie, sempre insieme. Dopo l’infanzia trascorsa serena nei comuni giochi di tutti i bambini, nell’età della prima adolescenza cominciò ad affacciarsi in entrambi una specie di strana e speculare simpatia che loro stessi faticavano a capire. Non era la stessa affinità che sentivano per gli altri compagni di scuola, era un di più. Ognuno di loro, alla presenza dell’altro sentiva affannarsi il cuore.

Pian piano capirono; scoprendo l’ebbrezza del contatto e la felicità nell’abbracciarsi. Avendo da subito, più che l’intuizione la certezza di essere diversi dai compagni di classe, furono attenti a tenere per sé quei sentimenti e assolutamente nascoste certe effusioni.

Qualche compagno delle medie che, vedendoli sempre insieme e non propensi a rincorrere le sottane delle ragazzine come tutti gli altri provò a fare delle mezze allusioni. Ma si scontrò con la forza fisica e la reazione del Bonacchi il quale, in parte istintivamente ma in parte con sommo studio reagiva usando pugni e spintoni: – icché c’è?... cos’hai da ridire... dillo se hai il coraggio... –

A tredici anni alla fine delle medie, per l’età Sergio appariva già un bestione alto e grosso. Anche se il suo cuore pulsava in un certo modo, l’apparenza era maschia e il comportamento ne era conforme. Pio invece era di tutt’altra pasta; crescendo ognuno dei due si era molto diversificato nell’aspetto. Magro e non molto alto, castano e ricciuto, dava l’idea di una certa fragilità, accompagnata di quando in quando, sia nella postura che nel camminare, da qualche movenza femminea che non avrebbe voluto assolutamente fare, ma che gli scappava.

Il suo terrore era di sentirsi dire, magari anche per scherzo: – ... ma che se’ un po’ buho Nenciarini?... –

Tra gli adolescenti quell’espressione, buco a Prato voleva dire omosessuale, a quei tempi era abusata, rivolta spesso a chiunque senza neanche pensare al significato, con la stessa disinvoltura con cui si poteva apostrofare qualcuno di grullo o di bischero. Ma Pio doveva fare uno sforzo per non farsi vedere particolarmente ferito, controllando sottecchi se quelle parole fossero state accompagnate da un sorrisino o da qualche bisbiglìo successivo rivolto a un compagno.

A quattordic’anni Sergio che, dato il suo carattere e il suo aspetto, non soffriva e non avrebbe sofferto così tanto come l’amico per quelle cose, per necessità economiche della propria famiglia, diventò presto cenciaiolo dal Bellandi.

Fu seguito non molto tempo dopo da Pio il quale, anche lui come lavorante a guanciale a fare quel mestiere polveroso, vi rimase molto a più lungo, fino a quando il Bonacchi, affermatosi intanto come mediatore non riuscì a farlo assumere dal Baroncelli come feltrinista.

Nel 1972, un anno pieno di lavoro per Prato, all’età di ventinove anni, a suggellare il loro nascosto ma forte connubio, il fragile compagno del mediatore si era congiunto in matrimonio con Ada, la sorella di Sergio. Era stato un autentico colpo di genio del Bonacchi. In un colpo solo aveva risolto due problemi.

Fino a non molto tempo prima, sempre fissa in casa, Ada era stata interamente occupata ad accudire i vecchi ed esigenti genitori fino a che il Padreterno li aveva chiamati entrambi, alla distanza di un solo mese l’uno dall’altra.

Rimasta quasi improvvisamente sola in casa, dal “trasporto” della mamma era già trascorso qualche giorno, e il fratello avendo i suoi giri in quella casa non c’era quasi mai, si era guardata intorno. Durante quella lunga clausura famigliare il mondo era andato avanti; tutte le sue antiche amicizie si erano spente, ognuna delle sue compagne di scuola e di vicinato avendo da pensare alla propria famiglia e ad allevare i propri figlioli.

Una mattina aprì gli occhi presto, svegliata da un cinguettìo sulla mensola della finestra. La prima trepida luce dell’alba traspariva dalle sgretole degli “scuretti”. Da quando non doveva accudire l’anziana mamma, si era abituata a dormire di più, così si raggomitolò nuovamente indugiando sotto le coperte. Ma dopo un po’ le riaffiorarono certi pensieri negativi della sera prima; spalancò le persiane dando luce alla stanza e, come volesse dare una risposta a quei pensieri, si guardò allo specchio.

Fino a quei giorni si era quasi dimenticata di essere una donna. Si passò le punte delle dita fra i capelli sulla sommità della testa come a riavviarsi un po’, poi si aprì la camicia davanti a quello specchio, qua e là macchiato di grigio. Vide sgomenta i suoi seni quasi flaccidi, li sollevò, li lasciò ricadere, passò la mano sul ventre magro. Le venne un gemito.

Alla sua naturale bruttezza, il mento e il naso entrambi ossuti e sporgenti, in certi momenti di depressione tendevano a toccarsi, si erano aggiunti gli anni. Gli occhi piccoli, piccoli come quelli del fratello ma non così svegli e luccicanti, erano attorniati da un ventaglio di fitte rughe. Quel crocchio di capelli tegosi anche se puliti e ancor neri era opaco e ridicolo, come opaca e inutile era diventata la sua giornata. Non c’erano dubbi che Ada fosse e si sentisse una donna, tuttavia quella creatura piccola di statura e di magrezza sconcertante, era quanto di più triste e sgraziato si potesse immaginare.

Consapevole della sua nullità cominciò a piangere. Piangeva di notte e poi seguitò anche di giorno, tantevvero che anche il fratello che di solito non si curava minimamente di lei, se ne accorse e gli si accese una lampadina.

Allora le fece frequentare Pio che conosceva solo di vista, invitandolo a cena in casa più volte. Il ricciuto amico del fratello era gradevole di aspetto e nei modi e prese a dimostrare interesse per la semplice donna, la quale non credeva ai suoi occhi e al suo udito, vedendo e sentendo quell’attenzione e certe interessate parole.

Era molto devota; da sempre in salotto teneva un altarino a santa Rita: – ... è un miracolo... la mia povera mamma mi assiste e santa Rita intercede per me... – Il cuore gli si gonfiò all’inverosimile dalla contentezza. Quando il Nenciarini le chiese la mano non esitò neppure un istante ad acconsentire.

Al lanificio Baroncelli, prima dello sposalizio, fu fatto un bel rinfresco nel salone della carda a campioni. Quella mattina anche i bussolotti trasparenti dei feltrini disposti in perfetto ordine dentro gli scaffali lungo la parete parevano sorridere alla festa, riflettendo lame di sole primaverile provenienti dal soffitto invetriato.

Pensò a tutto il mediatore, predisponendo ogni ben di Dio sulle casse del filato, rovesciate e coperte da tovaglie bianche. Arrivarono gli impiegati e i magazzinieri come uno sciame, poi ogni tanto qualcuno alzava il bicchiere per un brindisi o si complimentava con lo sposino.

Tutto filò liscio, e all’apparenza non ci furono battute strane di nessun genere, anche se Pio, pur non essendo certo di quale ne fosse il significato, fu gelato un paio di volte da certi mezzi sorrisi scambiati tra due impiegate, di quelle con la bocca larga che parevano saper sempre tutto.

La cerimonia nuziale officiata nella chiesa di Santo Spirito nella seconda domenica di giugno, fu molto semplice. La famiglia del fratello, ben contento di avere sistemato Pio in quel modo, era festosamente presente. Pio, mentre aspettava la sposa davanti all’altare ricordò con un filo di nostalgia che i propri genitori, anch’essi morti entrambi, avessero coltivato per lui fin da piccolo l’idea di vederlo prete, e che il nome Pio fosse stato scelto proprio per propiziare in qualche modo la realizzazione di quel pio destino.

Si rivolse a loro con il cuore: – ... babbo e mamma... spero che siate contenti lo stesso... io lo sono... –

Sergio invece accompagnò con solennità la sorella all’altare senza che gli venisse in mente alcunché.

Il breve viaggio di nozze a Portovenere fu una sofferenza per il feltrinista il quale, come sempre ligio al dovere, fece tuttavia del suo meglio cercando di dissimulare il disagio.

– ... lo devi aver dissimulato abbastanza bene quel disagio... – gli disse caustico il Bonacchi al ritorno, vedendo l’espressione beata della sorella, quasi da non riconoscerla.

– ... – oh che se’ geloso Sergino... tu lo sai... un penso che a te... –

In effetti il loro era un rapporto solido e duraturo e anche il mediatore, che pure aveva modo di conoscere tanta gente era rimasto praticamente fedele al sodalizio.

C’era stata soltanto una frettolosa eccezione con un compratore, un bell’uomo, del quale nessuno avrebbe sospettato condividesse con lui gli stessi gusti sessuali. Si erano annusati e riconosciuti. Ma quell’eccezione, come ebbe modo di pensare fra sé sul momento a giustificare la propria intemperanza, era stata fatta solo per incrementare il giro di lavoro.

E un giorno, preso da rimorso glielo raccontò. Sergio, al di là dei modi risoluti che, in certi casi gli avevano fatto gioco di fronte alla gente, era un sensibile; così gli chiese scusa. Pio non la prese bene; gli ci volle quasi una settimana per capire la faticosa sincerità di quella confessione che avrebbe potuto anche omettere di fare.

A modo loro, Sergio e Pio potevano dirsi un buon esempio di fedeltà quasi da additare se solo avessero potuto essere loro stessi anche in pubblico; mentre per anni avevano sopportato il disagio di incontrarsi nei posti più scomodi e disparati.

Ora invece abitavano sotto lo stesso tetto e, ad ogni buon conto la gente non poteva aver nulla da mormorare; gli sposi avevano la camera al pianterreno, mentre Sergio aveva la sua al primo piano, proprio alla fine delle scale, sopra al mezzanino.

Ada volava. Era al massimo della contentezza e non smetteva di ringraziare il fratello, il quale aveva davvero risolto due problemi con quell’idea, non parendogli per nulla che per quella risoluzione avesse ingannato la povera Ada, ma a fin di bene, s’intende.

Spesso, di notte, il feltrinista saliva dall’amico del cuore e ci restava fino all’alba, sicuri che Ada non si potesse risvegliare tanto facilmente con quella pasticchina che in quelle occasioni le somministravano insieme alla camomilla.

Va da sé che saltuariamente, diciamo una volta o due al mese, Pio dovesse fare il suo dovere coniugale. Lo viveva come una dovuta prova d’amore per il suo Sergio, una faticosa missione ma mitigata in parte da un sottile sentimento di rispetto per quella donnina che gli dimostrava tanta affezione.

Ada, in brodo di giuggiole, il giorno dopo metteva sempre una rosa o un altro fiore a santa Rita, non mancando di manifestare in quel modo tutta la sua riconoscenza nei confronti della buona sorte, avendole riservato un marito così caro.

Successe che, dopo qualche tempo Ada rimanesse in cinta; d’altronde aveva trentaquattro anni, quattro più del fratello, e l’accadimento rientrava nell’ordine delle cose naturali. Pio, più o meno faticosamente, aveva posto più volte il suo seme nel grembo ancor fertile della buona e sgraziata Ada.

Alla notizia Sergio e Pio si guardarono negli occhi dallo stupore. Non avevano mai preso in considerazione quella possibilità. Dopo qualche giorno lo stupore si volse prima in quieta accettazione e poi, soprattutto in Pio, in contentezza. – ... vuol dire che il bambino sarà come il figliolo di tutti e tre... non ti sembra una bella cosa Sergio?... –

Ada era al settimo cielo. – ... sarò mamma... sarò mamma... – Ogni tanto si guardava la pancia, ancora meravigliata che dal suo ventre così sgraziato, che fino a pochi mesi prima sembrava destinato a sicura aridità e inutilità, potesse scaturire la vita. Cercava tutti i giorni di individuare le prime avvisaglie della nuova condizione; ma era così magra che occorse arrivare al quarto mese perché si scorgesse una qualche timida rotondità, accompagnata da un altrettanto timido turgore del seno. Soltanto i capezzoli, meravigliandola un po’, si erano scuriti e di molto.

Lei non aveva mai avuto sentore che tra il fratello e Pio ci fosse un qualcosa di più di un bel rapporto di amicizia. Era molto contenta che fossero così tanto amici. A tavola parlavano tanto tra loro, prevalentemente di lavoro, e anche se a volte aveva notato degli sguardi di intesa molto intensi, li attribuiva a quella forte amicizia.

I doveri coniugali di Pio cessarono quasi del tutto durante la gravidanza: – ... per rispetto del bambino... – gli spiegò il marito dimostrandosi dispiaciuto. E un po’ lo era veramente, non tanto per la rinuncia ai piaceri carnali del caso di cui non sentiva minimamente la mancanza, ma per il più o meno innocente inganno perpetrato nei confronti di una donna buona.

Ada di solito dormiva molto profondamente anche senza quelle pasticche che i due compagni avevano cessato di somministrarle, in questo caso veramente per rispetto del bambino.

Una notte, avvertendo un gran bruciore accompagnato da tanta voglia di urinare si svegliò di soprassalto. Sapeva che la gravidanza avrebbe portato con sé quei disagi, così si alzò andando a tentoni non volendo svegliare il marito. Tuttavia, attraverso una persiana rimasta socchiusa una pallida spera di luna illuminava il letto sponsale e vide che Pio non c’era, ma non se ne preoccupò; sapeva che a volte si alzasse per bere.

Corse in bagno che era situato sul mezzanino e, mentre si liberava la vescica avvertendo il forte bruciore dovuto alla cistite sentì dei gemiti provenienti dal primo piano. I gemiti seguitavano, così temendo che al fratello si fosse riacutizzata l’ernia di cui soffriva ogni tanto, scalza com’era salì le scale.

La porta della camera era appena socchiusa e l’interno era illuminato dalla minuscola lampadina dell’abat jour.

Ada si fermò impietrita fuori della porta; non si aspettava di vedere quello spettacolo. I due uomini, completamente nudi e accaldati erano avvinghiati tra loro e ansimavano muovendosi lentamente. Rimase lì, immobile per alcuni istanti senza neppure respirare. Poi, in assoluto silenzio scese le scale e si buttò bocconi sul letto.

Non riusciva a piangere; non riusciva a pensare alcunché. Per molti minuti si rifiutò di capire.

Era una donna semplice ma non era scema, così realizzò finalmente il significato di ciò che aveva visto. Ne aveva sentito parlare in passato, ma come una cosa strana che, come pensava, non avrebbe mai potuto appartenere al suo mondo, al mondo delle persone normali come lei.

Non chiuse più occhio e finalmente sentì Pio che, adagiatosi al suo fianco si addormentò placidamente russando piano. Ma non disse nulla né il giorno dopo né nei giorni seguenti.

Guardava stupefatta ma senza farsene avvedere quei due uomini che conducevano la loro vita come prima, ed erano contenti. A cena commentavano euforici l’ordine arrivato finalmente da Steilmann.

– ... ci pensi Pio... un ordine di duecentomila metri in quattro varianti... bisognerà che domani faccia una scappata in vallata... c’è un magazzino con carbonizzo e stracciatura che voglio visitare... le consegne sono scaglionate... però non c’è da scialare... – Pio annuiva, mentre gustava una odorosa minestra di verdure ma poi, come si fosse ricordato di qualcosa d’importante aggiunse d’un tratto: – ... a proposito Ada... Duccio ha saputo della gravidanza... ti fa tanti complimenti e auguri... –

Ada sorrise e lo guardò un po’ inebetita. Mentre i due continuavano a discutere, si sentì all’improvviso come un essere librato in aria ad osservare la scena dall’alto. Vedeva Sergio e Pio che, seduti ai due capi della tavola mangiavano di buon gusto e parlavano sereni, vide una donna magra a cui la maternità stava rendendo più morbidi i tratti del viso. Considerò se stessa e, ancor più stupefatta vide quanto bene lei continuasse a volere a quei due uomini.

Era come morta e le avevano reso la vita. Ringraziava e pregava tutti i giorni Santa Rita, la “santa degli impossibili”. Infatti ogni tanto poteva godere anche lei della consolazione dell’amore o quantomeno dell’affetto, e stava custodendo una creatura che sarebbe stata lo scopo della sua vita. Tutte cose che un tempo le sarebbero apparse impossibili.

Non disse loro mai una parola di ciò che sapeva; ma sapeva che loro invece supponessero che lei sapesse. La bambina nacque e le misero nome Sophia.

 fine

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