IL GIUBBOTTO SBIADITO

2034  IL GIUBBOTTO SBIADITO – racconto breve –

 GIUBBOTTO 

 – ... sarò il sindaco di tutti... ringrazio chi mi ha votato... e anche chi non mi ha votato... è stata comunque una bella festa di democrazia che fa onore alla città... non era scontata questa partecipazione... grazie... grazie... –

– ... il pratese di Marco Huang non è perfetto... si sente un po’ troppo la calata fiorentina pe’ mi’ gusti... –

La battuta del Morganti era debolina ma fu accompagnata ugualmente dai sorrisi di chi gli era intorno. In piazza del Comune gremita di gente esultante, dall’alto del suo monumento anche il Datini, nell'atto di porgere il testamento ai poveri, i destinatari delle sue immense ricchezze, approvava.

– ... però è strano... ci son pochi cinesi... – ... eh già... un c’è il cocomero... – ... te tu se’ rimasto a i’tango... e poi oggi la unn’è la festa di Santa Maria... – Nel tripudio, non mancavano sprazzi di puro sarcasmo alla pratese.

Huang, avvocato quarantenne di successo, si era trasferito a Prato da Campi Bisenzio, dopo il suo matrimonio con la pratese Chiara Bardazzi, psicologa e impegnata in politica. Si erano conosciuti nell’ambito del “Progetto Interazione Comunità Italia Cina”.

La psicologa aveva favorito il suo inserimento nel partito e nell’amministrazione cittadina, ma poi l’avvocato per forza propria si era velocemente imposto per l’insolita statura culturale e per la sua propensione alla sintesi politica; da lì la scalata a candidato sindaco. Si era pensato che sarebbe stato il candidato ideale, potendo rappresentare più di settantamila cittadini di origine cinese senza che ciò, agli occhi della maggioranza “autoctona”, potesse costituire un difetto.

Appariva a tutti come preparato e pragmatico; talmente equanime come aveva già dimostrato in veste di assessore da non esitare, quando necessario, nel prendere duri provvedimenti nei confronti di quella parte di comunità asiatica ancora restìa all’osservanza delle leggi.

Un cittadino di origine cinese, oltretutto con quelle caratteristiche da primo della classe, era diventato sindaco in una città con più di trecentomila abitanti; la pera era matura da tempo ed era stata colta, ma era comunque una notizia da prima pagina. Vennero troupe televisive da ogni parte d’Europa e del mondo.

Un mondo, peraltro, già cambiato profondamente. Ai progressi tecnologici come l’uso ormai comune di droni e di auto leggere ad emissioni quasi zero, dei robot per l’automazione sostenibile, e l’uso della telemedicina per la salute virtuale, si erano accompagnati dolorosi avvenimenti e forti trasformazioni culturali e sociali.

Erano trascorsi quattordici anni da quando, nel 2020, era apparso il COVID 19. All’epoca si erano scomodati paragoni “orwelliani”, si era detto che l’umanità da allora non sarebbe stata mai più la stessa. Dopo due anni di sconvolgimenti sanitari ed economici la pandemia, ancora lungi dall’essere conclusa, aveva ceduto il primato dell’attenzione e della preoccupazione all’apparire imprevista della guerra russo-ucraina.

Una strana guerra che vedeva da una parte il difensore dell’Ortodossia sterminare interi villaggi in nome dei valori cristiani, dall’altra coloro che in nome della pace senza se e senza ma, auspicavano che un intero popolo si privasse a cuor leggero della propria libertà.

L’Europa assistè all’infinita guerra attonita e quasi impotente per tre anni, una guerra inimmaginabile nel cuore dell’Europa abituata ormai alla pace; una guerra che lasciò, ancora esistenti, forti tensioni e pericolosi focolai. La terza guerra mondiale allora evocata più volte, ritornava tuttora come un fantasma ad agitare i sonni dell’umanità.

In quel mese di maggio il caldo era già estivo; ormai la gente era rassegnata. Il riscaldamento globale troppo rapido, avendo già provocato siccità, trombe d’aria tropicali e pesanti effetti economici e sociali, non aveva dato il tempo alla specie umana di adattarsi. Purtroppo i grandi del mondo avevano chiacchierato molto sull’argomento, ma non si erano dati ancora una mossa sufficiente.

– ... e i problemi del pianeta?... i cambiamenti sembrano ormai diventati irreversibili... mamma mia... meglio non ci pensare... – Quasi isolandosi dal contesto festoso, a queste cose stava rimuginando Luca, pigiato come una sardina e appostato appena dietro a suo cognato, quel Enrico Morganti, il vero “deus ex machina” della vittoriosa campagna elettorale.

Per Luca Martini, un ottimista per natura, erano pensieri fastidiosi. Da giovane era stato tra quelli che attribuivano il cambiamento climatico a cause naturali; nel pensarla in quel modo si era sentito per molto tempo più tranquillo lui e la sua coscienza non dovendo lesinare la sua fettina di consumismo. Riguardo al virus non voleva sentir dire che l‘epidemia fosse stata deliberatamente provocata dai cinesi, ma neppure che fosse stata la stessa natura in qualche modo a ribellarsi producendo quell’entità aliena. Pacifista convinto, allo scoppiare della guerra in Ucraina era stato tra quelli convinti che la Russia avrebbe facilmente accettato un giusto piano di pace.

Preferiva credere sempre al meglio e alla buona fede della gente, anche contro ogni evidenza.

Luca peraltro era disegnatore tessile in una città che, dopo anni, anzi decenni, di frustrazioni e di decadenza aveva recuperato e incrementato molto la sua importanza nel suo tradizionale comparto tessile, quello dei tessuti ortogonali, rigenerati e non. Le grandi firme, non meno che le grandi e potenti catene di grandi magazzini, erano ritornati a Canossa.

Il mondo, per non farsi mancare nulla stava subendo da anni anche le pericolose tensioni tra Stati Uniti e Cina a causa delle pretese di quest’ultima su Taiwan. Da non molto era cessata un’altra guerra che per un miracolo non era diventata olocausto globale. In tale contesto i fornitori cinesi avevano perso molta affidabilità nelle consegne e l’antica città laniera era ritornata, almeno per i tessuti non troppo basici, padrona del campo.

C’erano stati nuovamente grossi investimenti nelle filature, nelle tessiture e in tutta la filiera tessile. Naturalmente le macchine, tutte super digitalizzate, avevano subito radicali trasformazioni e con loro la mentalità e il know-how del personale e dei tecnici.

Purtroppo, il progresso tecnologico non aveva impedito il ritorno alle pessime abitudini di un tempo. Lo sfrenato individualismo, croce e delizia da sempre dei pratesi, impediva qualsivoglia collaborazione producendo, in un clima di sconsiderata concorrenza la corsa al ribasso, a volte soltanto allo scopo becero di strappare il grosso ordine al lanificio accanto. La ristrettezza mentale anni 30.0 del secolo ventunesimo era uguale uguale a quella mostrata in passato dai relativi padri, nonni e bisnonni.

Al Martini tutto questo importava fino a un certo punto: lui era disegnatore di successo che si avvaleva di una tecnologia avveniristica sviluppata da pochi anni da un team tutto pratese fatto di geniali ingegneri informatici, molti dei quali di origine cinese e indiana.

Dei vecchi “fazzoletti” necessari per incrociare filati e colori, per produrre i quali occorreva tanto tempo e denaro, era rimasto solo il ricordo. Adesso si facevano dei provini in “3D” con un raffinato programma, erede dei vecchi e quasi rudimentali CAD, che permetteva non solo di realizzare velocemente le idee, i colori e gli aspetti con un’immagine digitale, bensì con un corpo solido dalle straordinarie caratteristiche di mano, di superfice, di peso, in tutto identiche al vero tessuto richiesto.

Le varianti ottenute in quel modo e poi scelte potevano essere riprodotte fedelmente in stoffa tessuta a telaio con enormi risparmi.

– Sembra una stregoneria... – sbottò ridendo il babbo di Luca quando vide per la prima volta quel prodigioso risultato al limite del credibile. – ... lo potesse vedere il vecchio Brunetto... chissà icché direbbe... – aveva aggiunto toccando sbigottito il campione con entrambe le mani, ripetendo un gesto sapiente fatto mille volte in passato. Brunetto era stato il suo primo titolare, presso il quale era cresciuto professionalmente negli anni ’70 anche lui come tecnico.

– Ma la sai una cosa Luca... mi dispiace dirtelo... ma io un mi scambierei punto con te... allora c’era un clima diverso, e non parlo del caldo... c’era tanto spazio davanti... – ... lo so babbo, lo so... me ne rendo conto... la tua generazione ha guardato al futuro con fiducia... credeva nel progresso... – forse anche troppa fiducia... con il senno di poi... – aggiungeva di solito Alberto a quel punto, quasi sempre sulle stesse note.

Voleva molto bene al suo vecchio, ma da quei discorsi la sua lineare visione delle cose ne usciva quasi sempre un po’ ammaccata. Invece davanti al computer e al suo mirabolante programma Luca riacquistava il suo ottimismo e si sentiva un re; si becchettassero pure gli imprenditori pratesi, per lui era un vero godimento creare disegni e realizzare nuove idee. Luca Martini che univa cultura tessile, raffinato buon gusto e preparazione tecnologica, lavorava come “free lance” ed era richiestissimo.

Passava per sgobbone, ed essendo single, all’occorrenza non aveva né sabati né domeniche: – Gli è bravo, ma gli è anche un bischero... mah... e dice che a lavorare lui si diverte!... – I suoi colleghi lo accusavano di scorrettezza perché consegnava dieci idee realizzate a chi gliene chiedeva cinque.

Non molti invece sapevano di certe passioni vintage dell’ingegnere informatico Martini, precedentemente diplomato presso il glorioso istituto “Buzzi”.

Ragazzo alla fine degli anni 80 del secolo precedente, nel tempo libero o negli interstizi ricavati tra la realizzazione di un tessuto in 3D Jacquard di gusto cachemire e l’impostazione di un altro lavoro, amava rifugiarsi nella musica di quegli anni, vederne i vecchi films, collezionare e usare oggetti di quell’epoca.

Nella grande casa alla “Pietà” dove viveva da solo con una anziana governante tuttofare, aveva messo in piedi un piccolo museo in una vasta sala. Era il suo “buen retiro” domestico.

Li si rilassava leggendo e a volte appisolandosi sulla sua poltrona “Lounge Chair & Ottoman” circondato da poster, oggetti mitici come il suo walkman Sony, le cassette in VHS dei films preferiti e ordinatamente disposti, il cubo di Rubrick, le racchette da ping-pong con la plastica a puntini e il relativo tavolo di legno con la retìna verde disposto in mezzo alla sala.

Ecco, a ping-pong era stato un campione e ancora se la cavava e se ne vantava: – ... oh... da giovane ho vinto du’ volte il campionato CSI... quello organizzato dai frati di San Domenico... –

Ai due lati di una luminosa finestra, come trofei, aveva piazzato un vero flipper d’epoca ancora funzionante e la sua antica, ma ancora lustra Vespa 50, coperta di vecchi adesivi.

Ma soprattutto ascoltava musica: Michael Jackson, Prince, i Rem e gli Spandau Ballet; canzoni insuperabili come “Beat it” e “ Thriller” del re del pop, “Moonlight shadow”, “Eye in the sky”.

Ogni tanto, specialmente d’inverno, lo vedevano passeggiare pacifico con qualche amico in via Pugliesi o in via Garibaldi con il suo sopravvissuto e un po’ stinto giubbotto Moncler. Quand’era freddo sotto quell’immancabile giubbotto portava il maglione navy Paul & Shark; mentre i jeans erano sempre quelli di Enrico Coveri appena sopra le caviglie a mostrare calzini decorati a rombi simil-Burlington: – ... era un grande Enrico... – Indossare Coveri era un’altra delle sue infatuazioni; ricordava spesso le sue famose stampe multicolorate ormai entrate a buon diritto nella storia del fashion e che ancora continuavano ad ispirare il suo lavoro.

D’estate invece godeva a sfoggiare i suoi vecchi occhiali Ray-Ban, indossava la sua cintura di pelle El Charro e le scarpe Vans senza lacci, certamente non quelle originali. Insomma, in generale gli anni ’80 erano la sua manìa.

Fin da ragazzo il suo babbo lo aveva inserito alla “Misericordia” quando l’antica arciconfraternita era ancora in via del Seminario. Tuttora, professionista affermato, una volta alla settimana ma non sempre, come fosse una buona abitudine da preservare, prestava il suo “turno di guardia”.

Il Martini era naturalmente portato ad aver fiducia negli altri simili a condizione che non fossero troppo invadenti. Egli, sebbene non fosse un animale tra i più sociali, teneva ad alcune amicizie maturate in quel contesto.

Tuttavia il suo migliore amico era il marito di sua sorella, quell’Enrico Morganti, lo spin-doctor del sindaco eletto. Ne condivideva vagamente gli ideali politici e sociali, informandosi di ciò che succedeva in quel mondo, ma avendo cura di non farsene travolgere più di tanto.

Dopo una cocente separazione, seguita a una lunga relazione matrimoniale con una bella donna, e di cui non amava parlare, aveva accuratamente evitato altri coinvolgimenti emotivi; l’ingegnere creativo era ormai contento così, protetto nel proprio guscio.

Ed era contento anche per Marco Huang; lo aveva conosciuto attraverso Enrico: “ ... è bravo se lo merita... ” ma il pensiero in quel rumoroso clima di festa gli correva al reparto di terapia intensiva dell’ospedale Santo Stefano. Il suo babbo vi era ricoverato in stretto isolamento.

Non si dava pace; non potendo visitarlo era davvero angustiato. Riusciva a malapena a dirgli qualcosa con il cellulare quando l’infermiere si prestava ad aiutare l’anziano Martini.

– ... babbo, Marco ce l’ha fatta.. e alla grande... ma te... come stai?... – un’ora prima si era messo in contatto per pochi istanti. Alberto Martini, classe 1947, attraverso il piccolo display si era sforzato di sorridere; anche lui, prima di ammalarsi, aveva seguito la campagna elettorale, ma gli venne solo una smorfia, senza poter rispondere.

Era uno dei primi casi rilevati a Prato; aveva contratto il COVID Εγώ 23, il nuovo spauracchio. Questo virus, secondo le prime inquietanti ricerche poteva diffondersi molto velocemente, ma la cosa più incredibile scaturita in modo evidente dalle stesse risultanze era il fatto che avrebbe contaminato e ucciso soltanto persone che avessero già compiuto i 77 anni. Sembrava che le persone di età inferiore a quegli anni potessero esserne portatori ma rimanerne completamente immuni perfino da leggeri sintomi; il che aggravava moltissimo il problema.

Una volta che tali dati furono diffusi fu il panico. Coloro che si trovavano sulla soglia di quel compleanno erano atterriti. Come animali in procinto di essere condotti al macello contavano le ore e i giorni. Molti impazzivano nell’attesa mentre ad altri non reggeva il cuore per la grande tensione.

Era un discrimine nettissimo, un fatto aberrante di cui gli scienziati non stavano capendo la ratio, ammesso che il comportamento di un virus ne avesse alcuna. Nonostante gli incontrovertibili dati anagrafici rilevati, essi rimanevano increduli.

– Enrico... icché tu ne pensi... è come la strage degli innocenti... solo che qui invece dei bambini ad essere sterminati sono i vecchi allo scoccare dell’ora fatale ... – Anche il cognato seduto a tavola davanti a lui era interdetto.

– ... che ci sia davvero un Erode... – borbottò ancora il tecnico con espressione facciale di disgusto, riferendosi a certi discorsi di sorde macchinazioni, questa volta, a quanto pareva di provenienza russa.

Luca spesso era a cena dalla sorella, valente medico di Careggi. Quella sera lei era particolarmente malinconica anche per la morte del babbo avvenuta esattamente il mese precedente.

Babbo Alberto che viveva con lei insieme alla badante ucraina era stato il loro forte punto di riferimento. Il genero lo chiamava ancora “il vecchio leone” e lo aveva da sempre considerato un esempio, un esempio di impegno civile; da lui aveva contratto la febbre della politica, quella con la P maiuscola.

Luca invece, del babbo aveva fatto tesoro soprattutto dei consigli e della sua esperienza di tecnico disegnatore, anche lui uno dei più affermati, ma negli anni ’80 e ’90:

– Chissà icchè la s’immaginava la gente, e nella gente mi ci metto anch’io... s’era convinti tutti che un giorno si sarebbe andati in giro vestiti in quel modo... – cioè... in che modo babbo?... –

Era stata una conversazione di pochi mesi prima, a Luca pareva ieri e se la ricordava bene: – ... con i tessuti di “Star Trek”... tutti in rosso, blu e giallo in tinta unita... – e qui aveva fatto una risata.

– l’ha’ ma’ vista la serie di “Star Trek Luca?... ecco... a parte gli scherzi... sembrava che un giorno ci dovessimo vestire tutti di grafene, di kevlar, di filo di carbonio, di elastan allo stato puro, o di qualche altra diavoleria dalle prestazioni avveniristiche e invece... invece, e siamo nel 2034... in giro per Prato icché si vede?... jeans, misti cotone, misti lana, i soliti sintettici elasticizzati... tutto come una volta... o quasi... 

Qui Luca cessò di riportare le parole del vecchio leone, sorridendo: – ... da come ne parlava pareva che un giorno sì e un giorno no fosse a passeggio per il centro... –

Invece da qualche anno il vecchio era relegato su una sedia a rotelle; guardava la televisione ed era comunque un attento osservatore: – ... è vero babbo, i tessuti son quelli, ma il modo di produrli e di progettarli ha fatto passi da gigante... – gli aveva poi risposto. I familiari ancora attenti alle parole e ai ricordi di Luca furono distolti dalla televisione accesa; un servizio dava gli ultimi dati sul COVID; ed erano tremendi.

Trascorso un mese dalla prima ondata iniziale, i peggiori timori si erano avverati. Erano già morte migliaia di persone a Prato e tantissime nel mondo, tutte con quella caratteristica d’età.

Il decorso si rivelava velocissimo, il decesso sicuro al novantanove per cento e il mistero si infittiva. Molti di coloro che vivevano da soli nella propria casa morivano alla svelta e da soli in assoluta mancanza di cure; la quasi totalità moriva nelle case di riposo diventate case di morte, altri ancora decedevano assistiti, ma molto frettolosamente in isolamento ospedaliero.

Dopo tre mesi diventò davvero un autentico sterminio; l’umanità si stava avviando alla perdita completa di babbi e nonni ultrasettantasettenni, alla scomparsa di coloro che in gran parte rappresentavano la memoria collettiva di un’altra Italia, quella del dopoguerra .

Qualcuno si esercitò nel trovare esoteriche spiegazioni nella simbologia dei numeri. Si disse che il 77 rappresentasse la libertà personale di perseguire qualsiasi voglia o capriccio, mentre il numero 100 ottenuto dalla somma del 23 con il 77, era portatore di bene, in quanto quadrato di 10 che è numero perfetto. Non si capiva bene però il legame tra le due simbologie.

Alcune sette protestanti, non meno che alcuni movimenti cattolici ultraconservatori parlarono di “punizione divina”, una specie di “redde rationem”.

L’umanità era vista come la grande malata: il sesso scelto ormai comunemente in base alla percezione del momento, l’omosessualità dilagante collegata spesso alla pedofilia, l’educazione diffusa a non frenare le proprie voglie da considerare legittime e sacre qualunque esse fossero, il disprezzo per la vita nascente e morente; il tutto che scaturiva dall’individualismo esasperato, dalla ricerca del piacere, dalla corsa al potere e al profitto, costasse quel che costasse. Si diceva che queste fossero le cause di quella malattia e che i conti adesso fossero venuti al pettine.

In proposito alcuni dubbi che incrinavano l’assoluta certezza nella Divina Misericordia, l’insegnamento liberante degli ultimi pontificati, sfiorarono il settantenne successore di Pietro. Egli si collegò con tutto il mondo, come a suo tempo aveva fatto il papa argentino, quello venuto dall’altro mondo. Nella sua preghiera accorata sembrò quasi rivolgersi non più al Dio dell’Amore, ma piuttosto al Dio dell’Antico Testamento, ad un Dio irato e offeso, al Dio degli Eserciti.

Tutto concorreva ad alimentare dubbi apocalittici. Sembrava infatti che, allo stadio terminale, all’ormai ben noto e critico stato polmonare si accompagnasse una specie di inconsueta perdita di memoria che non era vera demenza; non era la classica perdita di memoria breve.

I malati, pur intubati e tra tanta sofferenza, in qualche modo, come presi da un’ingiustificata e febbricitante smania si sforzavano di comunicare. E ricordavano di tutto come non mai, fatti lontani o recentissimi ma in maniera particolareggiata, purchè quel tutto fosse completamente all’esterno di loro stessi. A richiesta, non sapevano dire la loro identità; una vera perdita del proprio io. Forse per questo motivo, il ricercatore e medico che l’aveva isolato per primo, aveva poi chiamato quel virus: “Εγώ” cioè “io”

Attraverso i media l’umanità attonita poteva assistere all’agonia senza speranza di tanti vecchi arrivati come folla dolente e ammassati in fitte corsie. Essi, persi nel vuoto dell’autocoscienza di sé desideravano comunicare tanti inutili ricordi. Come tanti Giobbe gemevano senza che nessuno potesse venire ad ascoltarli.

Ad una prima ondata di compassione subentrò il disgusto verso il corpo deteriorato dei vecchi scheletrici imprigionati sui loro letti come tanti Cristo in croce. Ci furono proteste; si disse che la televisione non avrebbe dovuto mostrare quelle immagini ai bambini.

L’aggressione del nuovo mostro invisibile si dimostrava in proporzione dieci volte più potente di quella subita dal covid 19 , quattordici anni prima. Adesso, a differenza di quella storica ondata, insieme ai vecchi stava morendo il senso d’umanità, quell’afflato solidale che sembrava capace, come si diceva una volta, di superare tutti insieme difficoltà e differenze.

Come sembravano lontani i cori dai terrazzi, gli striscioni arcobaleno per le strade, i disegni dei bambini, tutti inneggianti alla speranza: – ... andrà tutto bene... –

Dieci anni prima, nel 2024, il parlamento italiano aveva prodotto dopo anni di battaglie ideologiche la definitiva legge sull’Eutanasia. Gli interventi medici per la somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente che ne avesse fatto lucida richiesta erano consentiti per legge. Contestualmente la legge riguardante il suicidio assistito che godeva di ampia apologia culturale fu rivista consentendolo a chiunque ne facesse richiesta senza necessità di alcuna motivazione.

In questo clima giuridico e culturale ormai consolidato da anni, era scoppiata l’emergenza sanitaria drammatica del COVID Εγώ 23 che stava mettendo a dura prova l’intero paese.

Tale emergenza spinse inopinatamente la magistratura, dovendosi esprimere su un contenzioso molto dubbio, a considerare legittima l’eutanasia anche nei confronti di soggetti non consapevoli e non richiedenti la propria morte, purchè ridotti in stato pietoso; e non solo i soggetti tenuti in vita artificialmente da polmoni d’acciaio o per nutrizione e idratazione artificiale.

Alcune associazioni che avevano auspicato una simile soluzione in nome della modernità esultarono.

Fu come il crollo di una diga; un’infinità di interventi eutanasici nei confronti di coloro che “ispiravano pietà” o, come dicevano gli oppositori, veri e propri assassinii, in breve tempo furono messi in atto. Gli operatori sanitari percepivano quasi di avere quasi un nuovo potere, un potere malsano che dava alla testa, quello di dare la vita oppure la morte a propria discrezione, e non si preoccupavano più di tanto delle residue formalità.

Il valore di mercato della sofferenza e della morte, era diventato maggiore di quello del mercato del sesso che era già rilevantissimo. Una eutanasia veniva fatturata in media 5000 euro, quando la dose letale del pentobarbital sodico costava appena venti euro e una cremazione economica era alla portata di tutte le tasche.

Ci furono alcune non affollate dimostrazioni spontanee di protesta e ce ne furono anche a Prato.

Il disegnatore sessantunenne, trascurando anche il poco lavoro che gli stava arrivando, infatti tutta l’economia era rallentata, partecipò d’istinto a tali dimostrazioni pacifiche.

Aveva sempre cercato, forse per amore del quieto vivere di non essere troppo coinvolto; gli piaceva partecipare ma senza esagerare. Stava invece scattando in lui una molla che non aveva creduto fino a quel momento di possedere. Qualcosa aveva manomesso il suo naturale freno automatico, quello che gli aveva sempre impedito di non superare un certo limite, un meccanismo interiore che gli aveva consentito di non eccedere troppo nelle passioni, a meno che non fossero il lavoro e la musica anni ’80. Così si offrì volontario, inizialmente per poche ore al giorno ma poi sempre di più, per lenire i disagi dei malati terminali nelle RSA e nei nosocomi.

Un giorno di fine giugno, uno di quei giorni insopportabili purtroppo da anni molto frequenti, in cui alla gente veniva quasi voglia, avesse potuto, di togliersi uno strato di pelle a causa del caldo opprimente, si avvicinò ad una barella: un uomo di colore molto anziano e malmesso dagli abiti cenciosi e puzzolenti. Aveva il viso emaciato, le mani intrecciate sul petto, respirava a malapena, sembrava quasi morto. Luca credette di sentire un leggero rantolo che via via, facendosi più vicino e accostando un orecchio, diventava più comprensibile: – ... ehi capo... dai questo... al mio amico Gerardo... tanto... per me è finita... capito?... sotto le logge... –

La mano tremante sbucata fuori dal lenzuolo conteneva un fagottino legato da uno spago.

Non lontano un’infermiera e un barelliere erano sprofondati in una poltrona, gli occhi inchiodati sullo schermo del cellulare. Erano lì ad aspettare l’ultimo di quei rantoli. Il medico era in ufficio, pronto a documentarne il decesso. Fuori aspettava la macchina per trasportare velocemente quel povero corpo alla sala mortuaria.

Luca e il suo amico, provvisti di pettorina gialla e blu erano già da un po’ nel mirino del barelliere, un uomo sbracciato, grosso e peloso. Non fecero neppure a tempo a dire qualcosa al vecchio morente dalla pelle ormai come incartapecorita.

– Voi non potete star qui... è un parente? ... è poi l’orario non va bene... – intimò l’uomo grosso, tralasciando per un attimo il suo dispositivo ultima versione. Vedendo allora che i due, dopo un primo attimo di esitazione si erano nuovamente curvati sulla misera lettiga, il barelliere si alzò con fare insolente e dette un leggero spintone da dietro al compagno di Luca.

Il tecnico reagì e lo fece come non aveva mai fatto in vita sua meravigliando anche se stesso; si mise davanti a quell’uomo ben più alto di lui con i pugni serrati e lo guardò diritto negli occhi: – ... come ti permetti? ... – Poi gli sventolò il permesso scritto procurato per loro personalmente dal sindaco Marco Huang: – siamo autorizzati... non vedi che questo anziano sta molto male?... chiama la tua infermiera piuttosto... –

Si rivolsero di nuovo verso l’uomo morente. Da giovane doveva essere stato grande e grosso. Luca, curvo sulla barella, dopo aver preso il minuscolo pacchettino, gli carezzò lievemente il viso e gli strinse la mano ossuta: – stai tranquillo, ho capito... è per Gerardo... ma come ti chiami?... –

Il nero non rispose ma ebbe come un tremore di commozione e i suoi occhi spenti nel vuoto si inumidirono. Come liberato dalla sua ultima preoccupazione dopo pochi istanti fece un lungo sospiro. Era l’ultimo sospiro.

Il senzatetto di colore, al termine di una vita grama, forse priva di affetti, sembrò morire con un sorriso, come sollevato. Proprio alla fine aveva vissuto un gesto di affetto.

Uscirono guardati ancora in modo storto dal barelliere. Non era una novità; i volontari andavano spesso incontro a queste discussioni. C’era un netto ostracismo da parte del personale paramedico nei loro confronti.

Quei duelli nelle corsie e all’interno delle RSA continuarono anche nei giorni seguenti; agli occhi dei responsabili essi costituivano un noioso rallentamento all’attività di nosocomi che pareva ormai diventata impresa di smaltimento di rifiuti umani. Era una sorda sfida quotidiana tra i volontari e il personale paramedico e medico.

Luca e i suoi compagni, prendendo sempre più a cuore la sorte di quei disgraziati, pretesero allora che la direzione della “Misericordia” sparasse a pagamento un articolo coraggioso sulla cronaca di Prato, ma alcuni maggiorenti della confraternita, ai quali stava già dando fastidio l’inattesa l’iperattività dei volontari si opposero adducendo non precisati motivi di “opportunità”.

Fu il Martini allora, il pacifico cultore degli anni ’80, l’ottimista per natura o per convenienza, quello che non si esponeva mai, a volerlo pubblicare interamente e a spese sue: – L’ospedale non accompagna il malato verso una morte dignitosa!... i parametri stabiliti dalla legge eutanasica sono disattesi!... l’ospedale non cura... non è l’eivò 23 che uccide... è l’ospedale che uccide... –

Seguiva una riflessione più ampia e circostanziata: – ...la vera ragione dell’eutanasia passiva non è la pietà per i malati... è la mercificazione della morte... è la non sopportazione di vite inguardabili e ormai inutili... –

Poi l’accusa più infamante: – Nessuno vuole più sapere che esistono... li tengono in posti speciali, fuori dalla vista degli altri esseri umani... –

Quell’articolo ebbe vasta risonanza al di fuori dei confini pratesi e a Luca fu riservata un’intervista in terza pagina nazionale. Parlò degli abusi ripetuti: – sta vincendo la “cultura dello scarto”... la nostra è una civiltà cinica che sta morendo... e se ancora non muore di siccità o di guerra, muore di stanchezza, di voglia di vivere... muore di disgusto di sé... di questo passo ci aspetta il baratro... –

La sorella e il cognato non lo riconoscevano ed erano fieri di lui. Lo avevano sempre visto come un timido dai buoni principi, mentre ora lo vedevano capace, quegli stessi principi, di sbatterli sul muso e sulla coscienza dell’opinione pubblica. Enrico, di cui tutti sapevano lo stretto rapporto con il Martini, si meritò varie e acide prese di distanza da parte dei compagni di partito. A Prato e dappertutto le lobbies del “caro estinto” erano potentissime, anche all’interno della stessa “Misericordia” e la faccenda, entrata nel mirino della Magistratura, dopo poche settimane fu insabbiata.

Dappertutto continuavano quelle morti accellerate, sia quelle legali che quelle illegali ma sulle quali ormai tutti chiudevano non solo un occhio, ma tutte e due. Era urgente fare posto e non impegnare troppo le strutture ospedaliere limitandone i costi.

Anche le cerimonie funebri comprese quelle cattoliche erano abbreviate senza ritegno. L’innovazione tecnica della cremazione permetteva di accellerare le procedure per sistemare alla svelta le cose.

A Prato come dappertutto, la dispersione delle ceneri era effettuata in modo silente da un componente della famiglia, oppure da un funzionario delle pompe funebri nel modo più pratico, cioè nel Bisenzio. Tuttavia le associazioni dei pescatori insorsero; si opposero decisamente a quella nuova abitudine a causa, dicevano, dell’apporto inquinante delle umane ceneri. La vita delle “alborelle” e delle “tinche” era in serio pericolo.

Ad un certo punto, come dal nulla, sorsero alcuni gruppi di intervento clandestino che si proponevano di “liberare”, o meglio di rapire in segretezza alcuni pazienti terminali dagli ospedali, per farli morire ma a volte anche vivere, nelle proprie case. Agivano mimetizzati con cappellini bianchi, occhiali e mascherine chirurgiche per non farsi riconoscere. Non era difficilissimo riuscire nell’impresa a causa del caos regnante tra le corsie, specialmente di notte. Dopo vari velocissimi blitz riusciti, la strana faccenda rimbalzò su i media, anche nazionali.

Nei talk-show, la stragrande maggioranza degli esperti asserivano che la legge dello stato dovesse essere rispettata anche con la forza. In un crescendo di discussioni appassionate, un professore del Cicognini, un tal professor Bugiani, non credente ma contrario all’eutanasia, arrivò a citare l’Antigone. Nella tragedia di Sofocle la giovane ragazza decise di seppellire il fratello e quindi di disobbedire al re e di affrontare la morte, sostenendo che da sempre esistessero leggi non scritte più importanti delle leggi fatte dall'uomo. Successe il finimondo. Per più sere, sul canale “La 7” non si parlò d’altro.

Da qualche parte si cominciò a mormorare del Martini, il noto creatore di stoffe in 3D che la gente vedeva spesso, d’inverno camminare tranquillo, in jeans Coveri e giubbotto sbiadito Moncler. Qualcuno disse che poteva essere proprio lui, il pacifico disegnatore di moda, fino a quel giorno mai stato accreditato di qualcosa somigliante a un atto sovversivo, il teorico nonché capo di quelle clamorose iniziative; ma nessuno ne aveva prove certe. Fu guardato con sospetto dalle persone benpensanti e componenti di influenti fondazioni umanitarie. Nel dubbio, alcuni suoi committenti cessarono di commissionargli i consueti studi.

Improvvisamente, in maniera altrettanto misteriosa di come tutto era partito, tutto cessò. Dal giorno sette di settembre, in tutto il mondo non si registrarono più contagi. Dappertutto si levò un globale e gigantesco sospiro di sollievo.

Gli scienziati balbettarono, erano disorientati; tutto quanto apparve incomprensibile. Non c’erano plausibili spiegazioni. Anche le sette millenariste e i cattolici ultraconservatori non avevano parole. Il papa, in collegamento “urbi et orbi” ringraziò il Signore, chiedendo pubblicamente perdono della sua mancanza di fede, avendo dubitato della sua immensa misericordia.

Tutto tornava alla normalità, un’inquietante normalità. I pericolosi focolai del Donbass continuavano a preoccupare come prima e i grandi del mondo continuavano a tentennare nel prendere drastici provvedimenti necessari per salvare il pianeta.

Ognuno ricominciò a guardare al proprio orticello. Il presidente dell’INPS, convocò il consiglio d’amministrazione per fare il punto e per conteggiare il risparmio che, provvidenzialmente, sarebbe piovuto sull’ente di stato. Il ministro dell’economia, preso atto del tesoretto non previsto, propose un aumento delle pensioni minime.

Quella sentenza che aveva fatto giurisprudenza, entrò a far parte, come comma aggiuntivo, nella legge già onnicomprensiva dell’eutanasia. Nessuno si curò delle proteste dei cattolici o di certi laici noti per la loro onestà intellettuale.

Le conseguenze peggiori furono per le imprese funebri, i fornitori di urne funerarie, i forni crematori, le cooperative improvvisate di servizi medici e paramedici. Tutti si liberarono del personale precipitosamente assunto per venire incontro alle richieste. In segno di protesta fu proclamato un giorno di sciopero.

Anche la vita pubblica tornava alla normalità; il governo in carica accusato di inefficenza si dimise e furono indette nuove elezioni. L’economia ignorando la crisi di governo riprese in pieno e gli ordini di stoffe fioccarono come e più di prima. Luca era nuovamente pieno di lavoro e nessuno si ricordava degli assurdi sospetti che lo avevano riguardato.

Tuttavia lui non era contento; aveva guardato in viso e toccata con mano la sofferenza, era entrato in contatto vivo con gli ultimi della società e constatato quanto fosse facile essere ingiusti nei loro confronti. La Confraternita della Misericordia, finita l’emergenza, aveva sciolto le squadre di intervento sanitario, ma per Luca quell’esperienza, avendolo segnato profondamente, non era finita lì. Quel virus Εγώ o “eivò” come veniva pronunciata quella parola, aveva prodotto nei contagiati una vera e propria perdita del proprio io, ma nel Martini aveva sortito l’effetto contrario.

Quell’esperienza gli aveva fatto scoprire non solo che esiste in ogni essere un’identità diversa ognuno dall’altro ma ugualmente dignitosa e meritevole di rispetto, ma che lui stesso fosse stato capace di definire la sua di identità come prima non era mai riuscito a fare; proprio come una pietra grezza che diventi preziosa una volta che sia lavorata e smussata.

Da allora, ogni tanto, qualcuno riferiva di aver visto passare il suo giubbotto sbiadito Moncler in posti diversi dal solito. Provvisti di thé caldo, di panini e di qualche dolce lui e altri compagni, a due, tre per volta, usavano aggirarsi in luoghi poco frequentati dove trovavano rifugio i senza tetto; luoghi dove non offendevano la vista e l’olfatto dei benpensanti 2034.0.

Il mistero del significato del 77 tuttavia rimase insoluto e nessuno, anche anni dopo, ebbe modo di darne una convincente spiegazione.

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