LA RAMMENDINA

LA RAMMENDINA – racconto breve 

 

 – Uffa che caldo... –

La Marisa era rimasta in sottabito ma l’aria in quel pomeriggio inoltrato era densa e pesante. Non la vedeva nessuno, era sola in casa, e la cosa la eccitava un po’. Non era solita stare così discinta a “fare le pezze”. Le cadde lo sguardo nella scollatura sul suo seno bianchissimo che, nello strappare i nodi e gli sgusci della flanella, sentiva tremolare. Le gocce di sudore le si insinuavano lente scorrendo giù sulla pelle, provocandole ogni tanto un assurdo brivido.

Lavorava a persiane socchiuse lasciando solo una stretta riga verticale da cui entrava il sole cocente delle quattro pomeridiane. In quel periodo c’erano soltanto ordini di cardato da cappotto così Carmelo ogni giorno le portava grosse pezze da smollettare che non richiedevano molta luce.

Normalmente lei era rammendina, la migliore del lanificio Mannori, una fuoriclasse nel suo genere, e quando compariva una magagna più complicata del solito sulle pezze di lana pettinata, come una serie di retìne o delle trame mancanti dicevano: – ... portale alla Marisa... ci pensa lei... –

La donna di quando in quando si girava dalla parte dell’accecante sgrimolo per vedere se fosse arrivato il camion con le pezze: – ... oggi ritarda quel marrocchino... –

Dette un’occhiata anche dall’altra parte della strada: la persiana della Perla, dalla parte ombrosa e allo stesso piano del suo era mezza aperta ma non la vide: –...la sarà a farsi bella... quella vanesia...–

Si meravigliò di aver pensato al camionista con quell’appellativo così come facevan tutti e sorrise sotto i baffi. Invece Carmelo le era simpatico.

A quei tempi, si era nei primi anni ’70, arrivavano tanti meridionali non solo a Prato ma anche in vallata, uomini e donne che, attratti dalle possibilità lavorative offerte dalle fabbriche tessili lasciavano, insieme al paese nativo, fame e miseria. La città, in fase di straordinaria espansione di necessità fece virtù e fece loro posto; si strinse un po’ e crebbe disordinatamente nelle periferie.

Vaiano da quel punto di vista ebbe meno problemi, ma anche in questa popolosa cittadina della Val di Bisenzio ci volle qualche tempo perché la diffidenza, espressa anche con espressioni sarcastiche più o meno bonarie si smorzasse un po’.

– ... aggidendi a chi c’ha mescolai... – era la reiterata e geniale battuta con cui Carmelo giocava di rimessa o di anticipo. Quell’ironico mescolamento di pronunce faceva sorridere e tutti, nonostante i diffusi pregiudizi per quelli come lui, gli volevano bene.

Lui veniva da Afragola un comune alle porte di Napoli. Era molto puntuale con il lavoro, e non gli dispiaceva parlare e scherzare con sua la tipica flemma napoletana, però mai sopra le righe. Alle punzecchiature dei compagni di lavoro fingeva di rispondere in modo serio per poi, appena dopo, mostrando la bella dentatura, allargare la sua bocca carnosa in risata.

Quarantacinquenne e sorridente, era un bell’uomo sia pure un po’ troppo in carne e piaceva alle rammendine. Si diceva che avesse fatto già qualche vittima senza che nessuno ne avesse le prove.

Perla sentì i passi pesanti dell’uomo che saliva le scale con le pezze sulle spalle. Ansiosa di piacere si dette una spolveratina al grembiule e si ravversò i capelli prima di affacciarsi sorridente sul pianerottolo: – Carmelo, me l’hai portate bone le pezze oggi? Quelle di ieri l’eran piene di grovigliole... –

– ... guagliona, ti porto quelle che mi danno, mannaggia... mica le scelgo io... – Ehh... portale tutte a lei mi raccomando quelle bone... di già... tu se’ un napoletano furbo... lo sa’ te come portare i’ cappello... – insinuò la donna ammiccando alla finestra di fronte. – icchè la ti farà lei un si sa... eh? – concluse  con sguardo divertito  e malizioso. Anche a lei quell’uomo alto e robusto non dispiaceva.

Il camionista invece, a pelle, non stravedeva per la trentatreenne Gori Perla e le sue moine e, cercando di non farsene avvedere svicolava volentieri; eppure, con la sua capigliatura rossa sistemata a pocchio era donna appariscente e non si era ancora sposata. Era vissuta fino a poco prima con la sorella minore che accasatasi con un vivaista era “ritornata a stare” a Pistoia.

Subito dopo il camionista affrontò le scale della dirimpettaia che, chissà perché, gli sembravano più leggere. La Marisa non brontolava mai: – ... portamene tante Carmelo purché siano, mi raccomando... ho bisogno di lavorare... – era il suo ritornello.

Quarantenne e ancora piacente era rimasta sola con il suo bambino avuto in età non più giovanissima, appena un anno prima che suo marito la lasciasse per un’altra più giovane di lei di tredici anni.

Ferita a morte dalla sua vicenda viveva ormai per il suo Marchino, e aveva anche da accudire l’anziana mamma allettata che chiamava in continuazione: – Marisa... oh in do’ tu sei?... me lo dai i’ guanciale... mi dole i’ piede... chiudimi la finestra... oh che mi lasci sola?... –

Nonostante avesse così tanto da fare, per Carmelo Fusco aveva sempre pronto il vassoio con il bicchierino e la bottiglia di vin santo, accompagnato d’estate da un bicchiere d’acqua fresca. Sapeva che si sarebbe accomodato a sedere da una parte; ormai era diventata un’abitudine.

– Mi riposo un minuto Marisa... ti dispiace? – ma figurati... senti com’è gli è bono... lo prende i’mi’ cognato tutti gli anni da un contadino a Fabio. –

Così mentre la Marisa continuava a tirar giù la pezza dal consunto bancone inclinato messo al centro del salotto il campano, sottecchi, la guardava lavorare, sorseggiando piano.

Lui era un timido che con le sue misurate facezie, spesso facendolo anche con gusto, indossava la maschera del napoletano arguto e ridanciano.

Con la Marisa si sentiva a suo agio, con lei non sentiva la voglia né il bisogno di indossare alcuna maschera e godeva di rimanere per qualche minuto in silenzio senza dover dire alcunché o dover rispondere per le rime più o meno scherzose a qualcuno.

Non riusciva a capire come un uomo avesse potuto lasciare una donna di quel genere. A parte la bellezza che non le difettava rispetto all’età, la Marisa emanava, non solo il buon odore di quella pelle rosea che gli afrori delle pezze lanose non riuscivano a confondere, ma anche un senso di sicurezza e di forza.

– “ Chello scimunito... m ca’ e’ sarà passat ppe a’ testa... è na femmena comm ca’ nun ce n’è... ” pensò anche quel pomeriggio Carmelo proprio come gli altri giorni, mentre salutando si apprestava a scendere per le strette scale.

Lei di solito mostrava di non dar peso a quegli strani e rapidi sguardi e, sapendolo capace di interloquire con tutti, a quell’insolito silenzio; tuttavia, dopo aver sentito sbacchiare il portone, e per ancora un po’ di tempo le ritornava l’eco di quel silenzio.

D’un tratto le venne in mente: –... ma che ore sono?... le sei e mezzo... uh mamma, è tardi... – Doveva preparare la cena. Quella sera aveva a tavola la sorella e il cognato che abitavano a Carmignanello e che non avevano figli. Ogni tanto le tenevano volentieri il suo Marchino, il suo amore. Si tolse la vestaglia da lavoro che puzzava di lana rancida e rimase di nuovo in sottabito.

Un riflesso nello specchio grande che teneva nell’ingresso e di colpo Marisa vi si fermò davanti. Una spallina del sottabito le era scivolata via; allora trattenendo il respiro lasciò volutamente che le scivolasse anche l’altra. Con sguardo quasi febbrile si guardò allo specchio; dopo un momento di esitazione si prese nelle mani i suoi seni bianchissimi ancora diritti e appuntiti.

Non le era mai venuto in mente di fare paragoni anzi, fino a qualche giorno avanti non aveva mai avuto occasione di vedere un’ altra donna nuda, a parte la sua povera mamma ormai pelle e ossa.

Con appena un po’ di vergogna si ricordò invece che il giovedì precedente aveva visto il corpo e i seni nudi della Perla; un corpo più giovane del suo ma con la vita larga come i fianchi e un seno grosso e cadente. Sbadatamente la Gori aveva lasciato aperte le persiane mentre si cambiava e lei in quel momento era alla finestra con le persiane accostate; avevano suonato e voleva scorgere chi fosse alla porta.

Tra pochi mesi lei avrebbe avuto quarant’anni; per molti sarebbe stata da considerare già vecchia, eppure la sua pelle era ancora fine senza un’ombra di cellulite, come quando di anni ne aveva ventidue, allorché aveva conosciuto quel disgraziato.

Sentiva di non essere cambiata molto, neppure in fondo al cuore, nonostante quella delusione cocente. Solo il viso mostrava qualche ruga e il naso le si era affilato un po’. I capelli corvini raccolti all’insù a mostrare una bella nuca, erano invece ancora lucenti.

Si scosse, era tardi davvero e si mise ai fornelli ma, mentre buttava giù la pasta ripensò agli sguardi di Carmelo: – ... è una brava persona... davvero... non mi ha mai mancato di rispetto... –

Poi un brivido gli passò per la schiena. Era sola ormai da quattro anni. Chissà se avrebbe saputo ricominciare a vivere, vivere con un uomo che le potesse voler bene. Il suo corpo e il suo cuore forse reclamavano di nuovo quell’affetto, ma non era sicura di fare la cosa giusta: – ... che direbbe la gente?... e il mio bambino, troverò qualcuno... che vorrà bene anche a lui? –

Arrossì; era il faccione di Carmelo che, sia pure in modo incerto, le si era affacciato agli occhi della mente pensando a quel “qualcuno”, ma poi come a tagliar corto sussurrò: – ... no, non è possibile... sono una donna separata ma ancora sposata... –

Il divorzio era stato introdotto in Italia da più di due anni, all’inizio del 1970, ma ancora, dopo anni di separazione, né suo marito né tantomeno lei, avevano pensato di avviarne le pratiche; e inoltre per molti quella possibilità appariva ancora estranea e lontana.

La domenica successiva, una domenica mattina assolata di metà luglio era stata invitata da una sua cara amica, Valeria, e da Leandro il marito, a passare qualche ora in poggio con i bambini, loro ne avevano due, in un posto fresco per farli giocare all’aria aperta e per stare un po’ insieme. Leandro era capo tessitura nello stesso lanificio situato in Gabolana per il quale Marisa faceva la rammendina esterna.

Era ritornata dalla Messa “in Badia” da non molto quando sentì arrivare l’automobile; dette le ultime raccomandazioni alla sorella che si era prestata per quel giorno per fare compagnia alla mamma, spenta e malata ogni giorno di più.

Con Marchino eccitato per la novità scese svelta le scale, contenta di trascorrere un giorno diverso, a respirare davvero un po’ d’aria buona lei che era sempre rintanata in casa, e a fare due chiacchiere con la sua migliore amica.

Grande fu la sorpresa quando vide seduto già in macchina, un furgonato a sette posti, anche Carmelo, proprio lui. Marisa ebbe un moto di disappunto che cercò di dissimulare ma Valeria e il camionista se ne accorsero: – ... tesoro... Leandro me l’ha detto solo ieri sera... non so, forse dovevo venire a dirtelo... ah, non vedo l’ora che anche tu metta il telefono... – ... no, no, per carità... che c’è di male... lo conosco bene Carmelo... – farfugliò la rammendina.

Il napoletano era molto imbarazzato, balbettò anche lui qualcosa: – mi dispiace... pensavo che lo sapessi... io quasi quasi non vengo Leandro... avrei da fare anche in casa... – Leandro sorrideva sotto i baffi e cercò di fare l’equilibrista: – Macché... Marisa, vero che un ti dispiace... l’è stata un’idea mia, gli è sempre solo lui la domenica... sì, dovevo venire a dirtelo... via, su... andiamo, l’è una bella giornata –

La donna esitò appena, poi entrando nell’abitacolo, guardando Marco che non stava più nella pelle, sussurrò: – ... certo... tranquilli, va tutto bene, andiamo... –

Partirono alla volta di Sofignano, tra le grida entusiaste dei tre bambini seduti accanto in terza fila che non sapevano più che farfugliare per la contentezza.

Da Sofignano presero a camminare per un sentiero che li avrebbe condotti sul crinale della Calvana, al bivio che conduceva a destra verso il Monte Maggiore e a sinistra verso Aja Padre.

Ma non andarono oltre. Verso mezzogiorno e qualcosa scelsero una radura sotto al rigoglioso bosco di abeti che si trovava lungo il sentiero verso il Monte Maggiore. Stesero una coperta e, mentre i bambini correvano ancora eccitati in qua e in là e le donne aprivano i sacchi con le cose da mangiare, i due uomini parlavano di lavoro e dell’andamento nella fabbrica del Mannori. Dopo pranzo Marco e i due fratellini, ormai acquietati, sfogliavano i giornalini che si erano portati dietro.

– ... io e la Valeria ci facciamo un pisolino... non fate caso a noi... – L’invito accattivante di Leandro affinché i due si allontanassero un po’ per conto loro fu preso in considerazione. Carmelo e Marisa si incamminarono lentamente per l’ombroso sentiero quasi pianeggiante. Al limitare dell’abetaia, dalla parte della vallata, ampie faggete erano orlate di felci non più rigogliose e prati un po’ ingialliti. Dall’altra parte si intravedeva, leggermente nebbiosa, la valle ampia del Mugello.

Per un po’ camminarono in silenzio; si udiva lo sterpame scricchiolare sotto i loro piedi.

– ... guarda là... – fece d’un tratto Carmelo indicando all’insù. Una poiana, maestosa, volava sopra i prati cercando la preda; fece tre o quattro ampi giri, poi scomparve. Costeggiarono una felciaia; c’era un odore forte di roba vegetale e di linfa calda.

– ... mi dispiace Marisa, non è stata un’dea mia... ho visto che ci sei rimasta male... – ... no Carmelo, anzi, mi fa piacere chiacchierare un po’ con te... quando vieni in casa non dici quasi nulla... forse ti interessa solo il vin santo... – Risero della battuta. Sulle sue palpebre si era posato il fastidio sottile d’una spera di sole che scendeva diritta da una fessura tra le alte chiome: – ... no, solo che non me l’aspettavo e detesto le furberie di Leandro... comunque non ci pensare... piuttosto, ma tu hai ancora parenti al paese? –

Parlarono parecchio. Il camionista le raccontò della sua vita dura da quando, morto il padre, lui insieme alla mamma dovette prendere sulle spalle, ancora giovanissimo, tutta la famiglia. Lei gli parlò della sua amara vicenda che in parte Carmelo conosceva: – Ma ormai è passata, non ci voglio pensare più... ho tante cose da pensare... a settembre Marco entra in prima... e poi... –

Carmelo quasi la interruppe fermandola sul sentiero e guardandola in viso: – ... lo sai perché non parlo un granché quando ti porto le pezze?... lo vuoi proprio sapere? – ... perché preferisco osservarti... e vedo una gran donna... e non mi capacito come abbia fatto quel cretino a lasciarti... ora lo sai... –

Sul finire del discorso gli era strozzata la voce ed aveva abbassato lo sguardo.

Marisa si commosse e gli occhi le luccicavano. Gli prese una mano e gliela strinse; poi si accostò a lui e lo sfiorò con un bacio sulla guancia sussurando: – ... grazie... sei una persona cara Carmelo... – ... mannaggia Marisa, non hai capito nulla allora... non sono né caro né buono... sono solo innamorato... – ­

La cinse per la vita e le dette un bacio sulle labbra. Lei abbassando gli occhi le dischiuse, e lo abbracciò forte. Rimasero in quel modo per qualche lungo istante che a Marisa parve una vita intera, una vita che poteva ricominciare: – Io sono ancora sposata lo sai... – ... non mi interessa... io voglio te, più di ogni altra cosa al mondo... e tu lo sai che sono napoletano?... lo sai che siamo gentaccia vero?... –

Ridevano e si abbracciavano, ma era l’ora di tornare indietro; senza accorgesene avevano fatto un bel tratto di sentiero. Decisero di non dire niente agli amici di quanto era loro successo, ma fu completamente inutile.

Leandro e Valeria capirono tutto subito, non era possibile non capire da certi lampi che i loro occhi non potevano trattenere. L’amico che sapeva da tempo quello che si agitava nel cuore del pacioso napoletano si congratulò con se stesso.

Successe che Carmelo una mattina arrivasse in fabbrica sconvolto. Per telefono gli avevano raccomandato di correre subito ad Afragola, a causa di un grave incidente occorso a un componente non ben precisato della sua famiglia. Soltanto durante la sosta alla stazione Termini seppe che si trattava di Maria l’unica sorella, e di Ciro suo marito, investiti in un grave incidente automobilistico e che quest’ultimo fosse purtroppo spirato poco dopo all’ospedale.

Lungo il tutto il viaggio, sia prima che dopo Roma, non potè fare a meno di riannodare i fili del suo passato, certamente non facile. Quasi riprendendo il racconto fatto a Marisa su quel sentiero, rivisse di nuovo, e sembrandogli ieri, quei giorni drammatici. Quando i sette figlioli di Raffaele Fusco rimasero orfani Carmelo aveva soltanto sedici anni, e toccò a lui essendo il maggiore di tutti tirare avanti l’appezzamento di terra da cui traevano il minimo di sostentamento.

Gli toccò di fare da padre a tutti e sei i fratelli compreso il più piccolo, Gennarino, a cui era particolarmente affezionato e che aveva solo due anni.

L’unica sorella, quella coinvolta a quanto pareva nell’incidente, la seconda nata, si era sposata presto ad Afragola con un parrucchiere per uomo, mentre Gennarino aveva trovato lavoro nella nuova fabbrica Alfa Romeo di Pomigliano D’Arco, dove aveva messo su famiglia.

Pian piano aveva visto andarsene anche gli altri quattro, chi in Belgio, chi a Torino. Rimasto solo e malinconico in quella terra che non rendeva più, ad un certo punto si accorse di avere già quasi 40 anni, così anch’egli prese la strada per il nord ma si era fermato, su indicazione di un parente, nella città laniera e in seguito a Vaiano.

Ricordi accatastati di immagini, di odori, dei timbri di voce dei suoi famigliari, perfino del non sapore delle zuppe allungate che la madre preparava per tutti. Immerso in quella malinconia, accompagnato dal ritmico rumore del treno e dai cupi ingressi nelle gallerie, gli appariva ogni tanto per un benefico istante l’immagine di Marisa.

Arrivò all’ospedale di Santa Maria della Pietà a Casoria, dove era ricoverata sua sorella, nel tardo pomeriggio. Trovò Gennarino e sua moglie, gli altri fratelli erano troppo lontani.

Non ebbe cuore di tornare presto a Vaiano; la sorella aveva una spalla rotta e il cuore frantumato dal dolore e, all’infuori di Gennaro e della cognata, impiegati entrambi all’Alfa Romeo, non aveva altri parenti per assisterla e per badare ai bambini. Chiamò la ditta a Vaiano dicendo loro soltanto che, per gravi motivi, si sarebbe trattenuto a Napoli per abbastanza tempo e che si sarebbe rifatto vivo.

Al lanificio quindi, come soluzione temporanea, aveva preso il suo posto nella consegna e ritiro delle pezze gregge un ragazzo giovane, un marcantonio che fino a quel giorno aveva lavorato nel magazzino filati. Aveva la patente C e forza da vendere. Taciturno e poco sorridente, originario di San Poto di Vernio, abitava con uno zio al Fabbro e non faceva mistero, anzi se ne vantava, di essere un grande amatore di donne.

Perla, incuriosita e eccitata, colse il lato positivo: – come sei forte Romeo... come fai? Sei salito con tre pezze per volta... certo va, con quelle spalle... e quelle gambe... – Per Romeo lei era un po’ stagionata, ma era abituato a non buttare via nulla. Dopo qualche giorno, qualcuno mormorò di averlo visto aggirarsi di notte in via Braga e sgusciare via come un’anguilla su per le scale della Gori. Perla constatò con rassegnazione che le pezze che portava lui erano piene di groviglie da smollettare proprio come quelle che portava Carmelo, ma in compenso il bel verniattolo era insaziabile e pieno di passione.

Marisa un pomeriggio di fine luglio particolarmente brucente, rimase di sasso. Sbirciando dalle persiane accostate come faceva per abitudine ogni tanto per respirare un po’, potè assistere attonita e senza essere vista, all’arrivo del ragazzo nella stanza di lavoro della Perla. La finestra dirimpetto quel pomeriggio era stata completamente e forse volutamente come le venne di pensare poi, lasciata aperta.

Romeo, appena varcata la soglia, come furibondo scaraventò le tre pezze di panno antracite in terra e, sicuramente con un gesto che doveva essere diventato abituale, senza tanti preamboli, alzandole la vestaglia fino alla testa afferrò e sollevò l’estasiata ragazza invecchiata come un fuscello. Poi abbracciò con fare voluttuoso il suo corpo quasi nudo ancora per aria e infine la depose sul pavimento probabilmente sulle pezze stesse.

Poi Marisa non vide più nulla anche perché, rossa di caldo e di vergogna, chiuse bene le sue persiane cercando di ricominciare a lavorare con la luce elettrica accesa.

– ... che spudorata... che cosa cerca di dimostrarmi quella scema?... le sue conquiste?... –

Ma quella notte Marisa non riuscì a dormire molto bene. Quella scena indubbiamente l’aveva turbata. Le apparve Carmelo; le sembrò che la volesse abbracciare e toccare. Correvano entrambi l’uno verso l’altro ma poi non riuscivano ad abbracciarsi. Si svegliò presto completamente sudata e inquieta. La vecchia mamma Pierina, gemente e completamente bagnata dai suoi umori, la stava chiamando.      

Erano già trascorsi dieci giorni dalla partenza di Carmelo e lei non osava chiedere nulla a Romeo durante le sue veloci incursioni con le pezze gregge sulle spalle. Per Romeo Marisa non era oggetto di particolare attenzione; in quella stanza vi trovava un bambino che a volte giocava tra le falde della stoffa e a volte frignava; dalla stanza accanto un vecchia dolente con voce che sembrava venisse dall’oltretomba chiamava spesso. Saliva come una furia, appoggiava le pezze dall’acuto odore di lana greggia misto a quello di telaio e prendeva quelle fatte. Il suo tempo lo aveva già utilizzato dall’altra parte di Via Braga e altre fermate lo aspettavano.

Marisa riguardo a Carmelo, come tutti sapeva soltanto di un suo grave lutto familiare; aveva sentito dire che forse gli era morto il fratello minore, quello a cui era tanto affezionato. Chiese a Leandro più volte, ma anche lui non era bene aggiornato.

La domenica precedente, nel pomeriggio, aveva chiesto al cognato il piacere di accompagnarla a Fabio, un paesino sopra Vaiano, da don Ezio Palombo. Lui lo conosceva e ne diceva un gran bene. Discepolo e imitatore di don Lorenzo Milani, quel prete raccoglieva nella sua parrocchia giovani sbandati ed emarginati, gente che si era perduta vivendo, ed aveva certamente idee più aperte riguardo a tanti aspetti del vivere civile.

La sua preoccupazione, avvertita come una leggera ma costante spina nel fianco, era il divorzio. Marisa non era mai stata una bacchettona, però si sentiva una buona cattolica e la prospettiva di quel passo e poi dell’eventualità di sposarsi in Comune la angosciava un po’.

Don Ezio disse che lei essendo vittima di quell’abbandono avrebbe avuto la coscienza pulita e che quindi il Signore ne avrebbe tenuto conto: – Il priore di Barbiana se ci fosse ancora sicuramente... lo sapete vero?... darebbe priorità alla retta coscienza... in certi casi è quello che conta... –

Il cognato di Marisa annuiva convinto; lei invece tentennava pensierosa. – ... certo, non potrai fare la Comunione... – aggiunse don Ezio – le regole della Chiesa son queste... anche don Lorenzo rispettava la Santa Madre Chiesa... diceva che non se ne può stare lontani... vuol dire che la farai spirituale... –

Venendo via, lungo i tornanti attorniati di boschi di faggi e di betulle che conducevano alla Briglia, Marisa pensò che adesso, pur non avendo ancora le idee chiarissime, avesse provato una sorta di consolazione. In tutti i casi non avrebbe mai rinunciato al suo Carmelo; ci pensava spesso e si chiedeva come mai ritardasse tanto il suo ritorno. Era in pensiero per lui e “non vedeva l’ora”.

Era partito per quella disgrazia il martedì successivo alla gita in montagna. L’aveva rivisto soltanto il giorno dopo in occasione della consegna delle pezze e con il tempo contato. Non si erano scambiati tante parole, ma il lungo abbraccio e i prolungati baci avevano detto tutto quello che c’era da dire e poi avevano inutilmente stabilito di cenare insieme per il giorno dopo.

Sì, ora si sentiva una donna che ricominciava a sperare nella vita. Il suo cuore era stato offeso per troppo tempo; adesso il nuovo affetto avrebbe lenito quella profonda ferita, mentre il suo corpo, recuperando la sua naturale sensualità mortificata per anni, reclamava di vivere.

Il sabato mattina seguente, lasciata ancora una volta la vecchia mamma alla cura alla sorella, si trovava per spese al mercato settimanale in Piazza del Comune. L’atmosfera era allegra, i banchi stracolmi di tanti generi, la gente, proveniente da tutta la vallata camminava lenta guardando, toccando e valutando i prezzi.

Si sentì chiamare da dietro; era Perla ben vestita e pettinata che la raggiunse: – ... amore! ti vedo proprio bene... dalla finestra ieri ti ho chiamato... –

Si scambiarono un abbraccio un po’ freddino, mentre Marisa la guardava con aria interrogativa.

– Sai... ieri ti volevo chiedere se sapevi qualcosa di Carmelo... invece l’ho proprio visto un’ora fa... sì, davvero, era insieme a una bella signora mora e a due bambini... come, non lo sapevi? –

Il viso di Marisa si era sbiancato e faticò a risponderle: – ... ma dov’era? Sei sicura?... –

Perla godeva e i suoi occhi brillavano di sbieco per la reazione scomposta della collega: – Certo che son sicura... aveva furia e non me l’ha presentata, ma sembrava molto affettuoso con tutti e tre... –

Marisa abbassò gli occhi e deglutì: – ... bene, grazie, ora devo andare, ci si vede... –

Si sentiva umiliata. Non sapeva che cosa pensare e si chiedeva perché non era ancora era venuto a trovarla, si chiedeva chi fosse quella signora e perché andava in giro per Vaiano con lei. Nella sua testa turbinavano mille pensieri.

Nel primo pomeriggio non vide nessuno e non sapeva se augurarsi o meno di vedere qualcuno. Gli venne in mente di andare a casa di lui, ma non sapeva dove abitasse, non glielo aveva mai chiesto.

– ... sì, sicuramente quella è la giovane vedova del suo Gennarino... sì, è così... lui si sentirà in dovere di assisterla, lei e i due bambini, anzi si è già affezionato... forse si è già innamorato... sì, andrà così, giovane e bella.... certo, unisce l’utile al dilettevole... gliel’ho anche detto; è una cara persona... –

Appoggiata alla soglia della finestra, tra calde e silenziose lacrime si era messa a pensare tra sé asciugandosi con il dorso della mano, ogni tanto muovendo le labbra e bisbigliando piano. Marco che stava giocando tra le pezze la guardava con timorosa curiosità.

Un suono di campanello. Marisa si affacciò appena e, stupefatta subito richiuse; era lui con la vedova e due bambini. – Ma perché la porta qua?... –

Era incredula a il cuore le batteva forte ma andò a sbloccare il portone che apriva sulle scale. Si udì lo scalpicciare di passi rapidi alcuni più leggeri, e alla fine il camionista si affacciò alla porta: – Possiamo entrare Marisa?... guarda, questa è mia sorella Maria e questi sono i miei nipoti... –

Lei era una mora quarantunenne giovanile e bella, ma agli occhi della rammendina apparve davvero come una bellissima principessa. Ancora con gli occhi umidi, ma radiosa, ignorando l’attonito Carmelo, l’abbracciò e la baciò con grande trasporto.

fine

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