L'IMPANNATORE

L’IMPANNATORE – racconto breve –

 TESSUTI

L’impannatore Gori era convinto d’essere un “ganzo”. A Prato, negli anni ’80, ma a dire il vero anche prima, si definiva un ganzo colui che combinava insieme varie caratteristiche, le più importanti delle quali erano il saper fare e la furberia. Certo, poi per meritarsi quell’attribuzione occorreva anche una bella presenza, l’occhio lungo, una certa disinvoltura di linguaggio e un po’ di fascino che non avrebbe guastato.

Alcuni dicevano che il Gori fosse soprattutto un megalomane, ma era certamente una minoranza di invidiosi. Al bar preferito aveva il suo clan di amici scelti a cui non lesinava aperitivi e “Martini”, amici estimatori a cui raccontare quanto era stato magnifico, ganzo, in certe occasioni. Egli aveva una percezione di sé esagerata che accompagnava, se non proprio al disprezzo avendo ogni tanto anche qualche sprazzo di cameratismo, al compatimento dell’inferiorità altrui.

Lui si definiva autodidatta; non era tecnico, né ragioniere, tantomeno era laureato. Il babbo, il vecchio Mario che ora vegetava sulla sedia a rotelle gli aveva fatto finire il “Marconi” a “calci nel sedere” come il vecchio stesso ammetteva senza problemi. Adesso, il quarantenne Fulvio dopo una giovinezza gaudente passata ad esplorare tutti i pub e le discoteche di Firenze e prolungata miracolosamente fino ai trentasei anni, aveva preso il comando della ditta e si era improvvisamente convinto di essere, non solo impannatore, ma anche stilista.

“... molto lieto, Fulvio Gori, impannatore... – E così amava presentarsi dai clienti, con l’appellativo di impannatore, quasi come un titolo onorifico di cui fregiarsi. Gli sembrava davvero, e non aveva torto in questo, di poter trarre dei vantaggi di immagine nel considerarsi parte di quella geniale categoria così come veniva descritta con enfasi da certi economisti venuti ad esaminarne la singolare attitudine imprenditoriale.

L’impannatore era imprenditore perché in modo flessibile e veloce produceva e progettava la stoffa commissionata e, allo stesso tempo era commerciante non avendo in proprio nessuna macchina di produzione. Il sistema funzionava solo nell’ambito della “gens pratensis” potendosi avvalere di una agguerrita filiera di “terzisti” completa di tutti passaggi produttivi.

Soltanto che il Gori era arrivato a cose fatte; la fortuna della ditta di impannazione l’aveva fatta sgomitando e con tanto lavoro il babbo, mentre il non più giovane Fulvio la stava lentamente consumando.

Franco, il tecnico assunto ancora ai tempi in cui comandava il vecchio Gori soffiava e non ne poteva più delle sue continue manìe. Era una persona tranquilla; il suo lusso era arrivare la mattina con la bici costeggiando il Bisenzio, e la cosa generalmente gli faceva cominciare la giornata di buon umore.

Al lanificio Gori, a dire il vero, da qualche anno si era un po’ accomodato, si era fatto concavo alle velleità stilistiche del “figliolo”, come lo chiamavan tutti, il figlio stagionato del Gori che bisognava in qualche modo sopportare, con le sue fisime, le sue visioni moderne, le sue urgenze.

Succedeva spesso che il tecnico, finalmente liberatosi dal compito di controllare alcune complicate “avviature”, mentre si stava concentrando su un nuovo “fazzoletto”, si sentisse convocare d’urgenza dal titolare; anche quella mattina avrebbe esigito lo svolgimento di una riunione nella sala grande per fare come diceva lui, un “brain storming”.

Comunque Fulvio, caricato a mille dalla certezza di avere una bellissima collezione anzi, come disse la sera prima alle donne del campionario: – una collezione così un l’hanno ma’ vista... – quella mattina si era alzato presto per arrivare puntuale a Reggio Emilia.

Sedeva nella saletta d’aspetto della Hula Hop Fashion Group, un’importante azienda di confezioni femminili, ma l’attesa si stava facendo lunghina; era lì da trentacinque minuti.

– Signora, mi scusi... ma è sicura di avere avvertito il dottor Manicardi? – Certo signor Gori che l’ho avvertito... credo che adesso ci sia un signore di Istanbul... mi dispiace del ritardo... vedrà... – In quel momento si aprì una larga vetrata. Apparve un uomo distinto dai bei tratti mediorientali, i capelli leggermente crespi e barba ben curata, sale e pepe. Il dottor Manicardi gli stava tenendo aperta la porta parlandogli in inglese quando vide con la coda dell’occhio il Gori seduto.

Una volta uscito lo straniero gli si avvicinò trafelato: – ... mi scusi tanto signor?... – Gori, Fulvio Gori, impannatore... – ah, ecco, Gori... può attendere ancora qualche minuto signor Gori... sono mortificato ma ho veramente un problema ... farò prima possibile... mi scusi ancora... – Così dicendo attraversò svelto e di nuovo la vetrata e scomparve.

Passarono altri quaranta minuti, durante i quali, colui che lo doveva ricevere mandò due volte la segretaria per reiterare le proprie scuse e per offrirgli eventualmente un caffè o altro di cui sentisse il bisogno. Il Gori aveva un diavolo per capello; ad un certo punto si alzò con la valigia in mano e si avvicinò alla “reception”: – ... vuole dire al signor Manicardi che se vuole vedere la mia collezione, sarò lieto di riceverlo a Prato nel mio show-room. Arrivederci. – La ragazza rimase a bocca aperta e non replicò.

Era già passato da Pian del Voglio e ancora masticava amaro: – ... ma chi si credono d’essere quelli... io, Fulvio Gori... sì... gli vo in culo!.. dovranno loro attraversare l’Appennino se vogliono i più bei tessuti del mondo... gli vo in culo... –

In quello stato d’animo arrivò come un fulmine nel piazzale della ditta dove si sfogò convocando subito l’ennesima riunione con i due commerciali, il tecnico e il cugino socio.

Nei giorni successivi il Gori completò il giro dei maggiori clienti italiani, ma non ricevette quel grande apprezzamento che si aspettava. La sua offesa reazione fu spesso quella di criticare ferocemente la professionalità dell’incaricato alle scelte: – ... quello?... mhhh... quello un ci capisce nulla... fattelo dire a me... quando la rivedranno completa allo stand si ride... quello lì gli è un cretino, unn’è preparato... –

Per rispetto della verità bisogna dire che non fosse solo il Gori, a quei tempi, pur con mille gradazioni diverse, ad essere nervoso; il tessuto cardato di Prato a metà degli anni 80 stava subendo una grave flessione di vendita, ed effettivamente non era facile per i lanifici dare una svolta innovativa e merceologica che fosse anche commerciale.

Il mese successivo si aprirono finalmente i battenti di Premiere Vision, e nel doppio stand 6K13 al salone 6, la collezione autunno-inverno ’86-87 dell’impannatore Fulvio Gori ebbe scarso successo. La clientela non era contenta, la collezione era cara, i colori erano troppo maschili e i disegni, come disse Fulvio in tono di sdegnato rimprovero rivolgendosi all’attonito Franco, non emozionavano.

– ...bisognerà ripensare qualcosa Fulvio... qualche provvedimento va preso... non è poi che Franco costi tanto poco eh?... – bisbigliò il cugino Marco, che aveva una piccola quota di minoranza. – d’altra parte non è che i risultati, anche dell’ultima collezione estiva, siano stati così esaltanti... –

Il Gori a quel discorso annuì, ma subito dopo inarcò la fronte e, sottecchi, lo guardò male. Era tremendamente permaloso e il dubbio che lo sfiorò era che il cugino avesse voluto fare una critica anche a lui; era sotto gli occhi di tutti che, riguardo alla collezione faceva e disfaceva Fulvio. Ma poi scacciò quel pensiero; il cugino non avrebbe osato insinuare un qualcosa del genere, era troppo servile e untuoso.

Eppure Franco, nonostante la sua pratesità e la sua iniziale e considerevole esperienza di cardati e di flanelle si era ritrovato ad avere, sostanzialmente per caso come in modo sprezzante ebbe a dire Fulvio, o per naturale disposizione com’era più logico pensare, una certa confidenza, una mano felice nel trattare le nuove qualità estive femminili intorno alle quali i pratesi, per forza di cose erano stati costretti a cimentarsi più convintamente del solito.

Questo era successo alcuni mesi prima, quando la ditta si apprestava ad impostare la collezione Primavera Estate ‘86. Il buon Franco aveva sfornato delle cose nuove, fresche, come il lino tinto filo rifinito in cesto e la seta lavata. Il rappresentante francese che in quei giorni era a Prato, si complimentò. Ma il Gori, quando vide i primi risultati andò su tutte le furie. Era lui il titolare ed era lui che aveva maggior buon gusto ed era lui che aveva parlato con i clienti. Gli pareva di aver detto di usare altri filati, così volle rivoluzionare tutto. Ma anche quella collezione alla fine era stata mediocre.

Per la collezione invernale presentata in quei giorni durante un grigio e umido settembre parigino, e che si poteva ammirare ben confezionata a “bandiere” nel raffinato doppio stand 6K13, era successa la stessa cosa. L’impannatore stilista dopo aver imposto la sua visione, i suoi filati, i suoi colori aveva lasciato il cerino acceso al tecnico che aveva fatto del suo meglio.

– ... Franco guardami, non ti voglio colpevolizzare, ma quando io parlavo di minimalismo non intendevo questo grigiore... sei d’accordo?... la gente da me si aspetta il trend giusto, non questo mortorio... poi in ditta ne parliamo... ok?... –

Franco che aveva moglie e un ragazzo adolescente, da quando comandava lo stilista si era rassegnato; alla moglie da tempo diceva: – ... o mangià’ questa minestra o saltà’ dalla finestra. –

Ma adesso, camminando abbacchiato per gli animati corridoi del salone temeva che al ritorno a Prato lo avrebbero invitato a trovare un altro posto. Così, per la durata della fiera stette costantemente attento ai “rumors” e ad occhi ritti, casomai avesse incrociato qualcuno giusto per avere informazioni. – ... non si sa mai... da qualche parte potrebbero aver bisogno di uno come me... –

Franco trovò davvero chi gli dette credito, un altro impannatore a cui era andato via il disegnatore che si era “messo per conto suo”; così la settimana successiva, con grande e malcelata soddisfazione, giocò d’anticipo e dette le dimissioni.

Il Gori non se l’aspettava; ripensandoci si chiese dove lo avrebbe trovato uno paziente e obbediente come lui, così cercò di convincerlo: – ... qui tu sei in una botte di ferro... da me tu ti fai un nome... –

Ma il mite Franco aveva deciso. Quel rifiuto gli fece male e lo irritò, quel caparbio diniego era come un’offesa alla sua superiorità e alla sua benevolenza: – Lo vedrà... povero grullo!... ma dove crede d’andare... se ne pentirà. –

Egli, da quando aveva messo piede in fabbrica, aveva cercato di circondarsi di persone che lo potessero apprezzare ma, al contempo persone che al limite potesse anche tormentare, e Franco ne sapeva qualcosa. Non perché desiderasse tormentarle per cattiveria, ma per confermare a se stesso e agli altri di essere necessario, di essere forte. E per esser tale manipolava le persone usando alternativamente armi come il senso di colpa, l’adulazione, la vergogna, la seduzione.

Il ragioniere, in occasione del bilancio di fine anno suonò il campanello d’allarme. La ditta da tempo non guadagnava e l’esistenza” di magazzino, cioè la quantità e il valore dei filati fermi e correnti era cresciuto enormemente. Nei primi due anni da che Fulvio aveva preso il timone dell’azienda era andato tutto bene, essendo campato di rendita degli sviluppi e delle qualità storiche.

– Fulvio, tu lo sa’ te come fare... io fo solo conteggi... – esitava Gianluca a finire il ragionamento. Sapeva come “il figliolo” fosse sensibile a tutto ciò che potesse sembrare una critica al suo operato, ma poi si decise: – Il fatto gli è che dagli ultimi campionari un si son ripresi pe’ i’ lesso... e i’ capannone gli è pieno zeppo di filati... oh, poi tu lo sa’ te come fare eh... – Fuori dai confini del distretto pratese, quel linguaggio sarebbe apparso sicuramente ermetico ma Fulvio, sia pure un po’ scocciato capì benissimo.

Bisogna analizzare il perché, diceva il giorno dopo durante il “brain storming”: – ... eppure ho portato idee innovative e di gusto superiore e, a parte la Hula Hop e qualcun altro, tutti i clienti... – disse facendo il gesto della mano aperta sul palmo: – ... mi portan così... – ... e allora icchè si fa? – borbottò il cugino che ascoltava annuendo. – ... senti icché si fa... io ho sicuramente le intuizioni giuste, ma ci vole uno che le sappia rifinire. Un basta l’input... con Franco gli era come parlare a i’ muro... –

Così assunse un ragazzo uscito dal Buzzi da un anno che sapesse fare le disposizioni e poi si rivolse ad un consulente molto quotato, un “tennicone” di lungo corso originario della Val Sesia che si era messo a lavorare come “free lance”. Quel consulente era un furbone logorroico, sapeva “star coi frati e zappar l’orto” così, avendo capito di che pasta fosse il Gori gli insinuò l’idea che con il nuovo campionario, egli potesse diventare il migliore in assoluto a condizione di varare altre due nuove e costose serie di filato. Era proprio quello che “il figliolo” voleva sentirsi dire.

Non lo voleva raccontare, si rendeva conto che la cosa potesse suscitare discorsi malevoli, ma a casa, al centro della sua libreria in tassello di noce teneva una raccolta a cui teneva moltissimo: “I potenti della storia”. Fra tutti il suo potente preferito, diciamo la sorgente del suo operare era il sottoluogotente artigliere còrso, diventato generale e poi imperatore, Napoleone Bonaparte. Gli venivano i brividi quando ripercorreva la sua carriera, le sue gesta, le sue geniali intuizioni, le sue fulminee decisioni, le sue innovazioni militari, i suoi successi di battaglia in battaglia. Non intendeva paragonarsi con Bonaparte, non mancando proprio del tutto del senso del ridicolo, ma insomma da lui si ispirava e in qualche modo con lui si confrontava.

– ... con quel consulente biellese così esperto e intelligente, le mie intuzioni... le mie idee potranno finalmente decollare... certo, le mie qualità innovative potranno conquistare il mercato, il mondo delle grandi firme. –

Liberò l’immaginazione e, preso da intima e irrefrenabile voluttà cominciò a pensare che tutti, alla prossima “Premiere Vision” avrebbero fatto finta di passare per caso dal suo stand allo scopo di sbirciare, alzandosi sulle punte e sollevando il capo, qualche “bandiera” di quella meravigliosa collezione del Lanificio Gori di cui tutti avrebbero sicuramente parlato.

– Il nostro concittadino, l’impannatore Gori fa l’En Plain a Parigi – era il titolo in grossi caratteri che gli sembrava di vedere già sulla cronaca di Prato. E dopo il titolo, l’intervista: – ... lei, signor Gori è sulla cresta dell’onda, come ha fatto ad elevare in questo modo il livello della sua proposta stilistica e della sua produzione?... lo sa bene mi immagino che tutti parlano di lei? – In quell’intervista, la sua risposta sarebbe stata di classe e di estrema modestia, ma avrebbe riconosciuto che sì, ormai la sua collezione fosse arrivata al “top”.

– ... non so dire come, ma è come un fuoco dentro che si esprime... –

Era come in delirio e gli pareva d’esserci; si ricordò che dal secondo giorno di fiera in poi la Commissione Stilistica di Premiere Vision premiava le realizzazioni più belle e più scelte.

– Guardate!... i tessuti del lanificio Gori sono ai primi posti!... – La voce si sarebbe sparsa in un baleno. Tutti gli espositori pratesi, chi prima chi poi, rosi dall’invidia e fingendo noncuranza sarebbero passati davanti all’apposita parete posta al centro del salone, con il groppo in gola.

Fulvio, in poltrona, con il volume riccamente rilegato posato sui ginocchi fissava il lampadario come in trance e godeva pregustando quelle glorie future mentre Elizabeta, la sua compagna, la bella rumena conosciuta a Firenze quando, attorcigliata intrno alla pertica in “lap dance” lo aveva stregato, lo osservava stupita: – Che hai amore... ti senti male? – ... no, ... mi sento bene, anzi benissimo... –

Poi pensò: – ... altro che Franco... un lo sa i’ piacere che m’ha fatto... ma i nodi verrano al pettine... quel bischero gli ha preferito andare da quel “garagino”... ah, ah... – Il “garagino” in questione, cioè secondo un certo gergo dispregiativo degli anni ’80, un impannatorino qualsiasi con poche cartucce da sparare, era la “Manifattura Stella”

Il meccanismo era stato messo in moto; in particolare l’acquisto di un filo di lino ritorto della migliore qualità e di un altro filo di seta “shappe” erano le basi delle nuove proposte. Poi c’era lo studio dei colori su cui basare lo sviluppo e il progetto di insieme a cui Fulvio volle dare il suo decisivo apporto che il cugino definì geniale.

Ad un certo punto quell’uomo, forse infervorato dal sicuro successo che il nuovo corso avrebbe portato subì come una trasformazione antropologica. Non gli bastò di aver concepito un piano così ambizioso dal punto di vista delle proposte; per qualche tempo smise i panni dello stilista e decise di occuparsi di ogni altro particolare della vita della ditta, così cominciò a mettere il naso dappertutto, nella vita quotidiana degli uffici come nell’organizzazione dei magazzini.

A modo suo non tollerava le imperfezioni tra le quali, per amore del vero, anche le sue perché lo avrebbero riflesso negativamente, ma non tollerava soprattutto quelle degli altri. Come gli si fossero improvvisamente aperti gli occhi, constatò che tutti i dipendenti parlavano tra di loro, scherzavano continuamente, facevano merende a tutte l’ore, sostavano a lungo davanti alla macchinetta del caffè e si formavano perfino delle amicizie. Lui in fondo non aveva dei veri amici e pensava che non fossero poi così necessari.

Cominciò ad impiegare parte del suo prezioso tempo per sbirciare dalla finestra del suo ufficio al primo piano l’andatura dei dipendenti al rientro dopo la pausa.

– ... “Caro Vignolini, oggi ho notato che è arrivato dopo pranzo trascinando lentamente le gambe... mi sembra poco entusiasta... cosa le succede?” – Il Vignolini era il tecnico alla produzione e quel giorno aveva litigato con la moglie. Fulvio lo apostrofò serio e senza alcuna traccia d’ironia, qualità peraltro che non possedeva.

Il clima che si respirava non era più lo stesso; aveva fatto mettere telecamere dappertutto per vedere se il personale mangiava fuori orario o rideva troppo, e la porta del suo megaufficio aveva il cristallo trasparente dall’interno e opaco dall’esterno per controllare il passaggio nel corridoio.

Fulvio aveva costantemente bisogno di sentirsi apprezzato per sentirsi bene con sé stesso e per sentirsi apprezzato, specialmente dal cugino e dal consumato consulente biellese che ormai era diventato una specie di spin-doctor, inventava sempre qualcosa di nuovo, e spendeva. Allargò la rete commerciale in tutti i mercati e rinnovò l’arredamento dello show-room. Mentre il ragionier Gianluca storgeva la bocca, il biellese, al parere del quale il Gori teneva molto, approvava. I due stavano formando un’affiatata coppia. Il pratese più giovane, bassotto di statura e pieno di capelli neri ben curati e il biellese stagionato, alto e segaligno e quasi calvo stavano spesso insieme confabulando tra loro oppure, appoggiandosi al bancone del campionario discutevano per ore di quel pezzetto di stoffa o di quell’altro, scelti tra i campioni usciti dai “fazzoletti”.

– ... chetati, gli arriva il gatto e la volpe... – era il modo con cui i dipendenti segnalavano la presenza della strana coppia.

Successe che un giorno, pochi giorni prima della fiera parigina, rientrando a casa alla Pietà a mezza mattinata, cosa molto inusuale per lui, trovò la compagna rumena attorcigliata questa volta all’elettricista.

– ... amore, no funziona bene forno elettrico... amore, a televisione no fa voce... Fulvio, neon di guardaroba accende e anche spenge... – Elizabeta tesoro, chiama l’elettricista no?... – Le aveva risposto tutte le volte uno spazientito Fulvio. Lei l’elettricista l’aveva chiamato anche quella mattina e così, aperta la porta della camera, Fulvio l’aveva trovati insieme nudi ed estremamente elettrizzati.

Rimase molto ferito, non tanto per l’infedeltà della ragazza a cui non si era mai molto affezionato, quanto per lo sfregio alla sua superiorità. Come aveva potuto preferire il dipendente squattrinato della ditta “Termoelettrica & co” a lui? La cosa più grave era il fatto che l’accaduto potesse mettere in discussione la sua immagine e l’immagine era la cosa più importante che avesse; quella di un vincente, anzi quella di un “ganzo”.

Come un pugile che si crede molto forte, dopo aver preso un tremendo “uppercut” si riscuote convincendosi, nonostante i suoi veri limiti di essere superiore all’avversario, anche Fulvio si rialzò e tornò all’attacco, credendo nella sua falsa onnipotenza. Tuttavia quel colpo, intimamente, senza rendersene conto, incrinò quella sua apparente sicurezza, andando ad abbattersi, sotto quella maschera, alle sue già nascoste debolezze.

Arrivò febbraio e con esso il momento in cui “i nodi sarebbero venuti al pettine”

La collezione non era bellissima come la vedevano “il gatto e la volpe” ma era comunque una bella collezione; tuttavia aveva un difetto enorme, era invendibile per il prezzo. Il “tennicone” per la sua parte aveva esagerato esigendo qualità di filati superlative, per il resto ci aveva pensato lo stilista impannatore che aveva preteso tanti colori, tante declinazioni di qualità, tanti sviluppi che, nell’insieme avevano lievitato il prezzo di costo oltre il ragionevole. Senza contare che le “spese generali” da conteggiare, e in ciò si era incaponito il ragioniere, erano di molto cresciute.

Fu una delusione crescente; al primo giorno i gridolini di sorpresa degli stilisti sceglitori entusiasmarono abbastanza il Gori, ma già al secondo si accorse che nessuno ordinava dei “tagli prova”, tantomeno delle ”pezze campioni”. Molti prendevano “tipo e cartella” e poi si alzavano con un gran sorriso. La “Volpe” alias il consulente biellese era imbarazzato: – ... ma vedrai... quando a casa li confronano... vedrai... non c’è partita. –

La sera del secondo giorno, non mancava molto alla chiusura, Fulvio che stazionava nel corridoio sentì dire che ad uno stand poco lontano, quello della Manifattura Stella, si era formata una lunga coda all’ingresso che non accennava a diminuire nonostante l’ora.

L’impannatore stilista sbiancò; guardò in viso il “tennicone” il quale, al contrario del “Gatto”, avendo anche lui capito tutto, era invece diventato rosso come un peperone.

In quel momento passò il dottor Manicardi della Hula Hop F.G. che era uscito proprio d’allora dallo stand del “garagino”. Persona molto educata, un torinese dai modi signorili, uscito dalla scuola “Facis” del gruppo GFT, non era nel suo carattere prendersi gioco delle persone, ma non resistè alla tentazione: – ... buonasera signor Gori... domani cercherò di fare un salto anche da lei... a proposito... complimenti... il suo ex disegnatore ha fatto una bellissima collezione, brillante e commerciale... si vede proprio che viene dalla sua scuola... si riconosce il suo stile... – Lo disse con noncuranza e senza fermarsi ma, mentre calmo si allontanava con la sua borsa in mano, non visto, gli spuntò un maleducato e beffardo sorriso.

Il buon Franco, con semplicità e buon gusto aveva indovinato tutto, non solo il prezzo. Le mani molto nuove erano state le armi vincenti, la mano lavata della seta e quella vissuta del lino, insieme agli sviluppi e ai colori erano molto giusti.

Fulvio non credeva ai suoi orecchi, ma quello che aveva sentito fu sufficiente a non farlo dormire la notte. Il giorno dopo e quello dopo ancora il Gori, di fronte all’evidenza accusò il colpo, ma presto il suo smisurato ego reagì.

La sua innata vanità non poteva sopportare quel fallimento, così se la prese con il mondo intero. Nell’ultimo giorno, quasi come capitano che abbandoni la propria nave in avaria, si allontanò spesso dallo stand affidandolo ai due commerciali. Nei crocchi che si formavano intorno a lui nei corridoi, ai colleghi pratesi che si strizzavan l’occhio con sarcastici sorrisini, additò il “tennicone” che intanto era scomparso dall’orizzonte, come il colpevole dell’insuccesso: – ... e io mi fidavo... o vatti a fidare de’ biellesi... alla prossima fo tutto da me... –

Ma durante il viaggio di ritorno che volle fare anticipando di un giorno il volo, indifeso, si ritrovò con la sua solitudine che scoprì esssere profonda. Si rese conto che spesso veniva accettato dagli altri solo per convenienza. Si vide come nudo, si vide persona timorosa e inadeguata. Inoltre, dimensione a lui completamente sconosciuta, si domandò cosa fosse l’affetto, sentimento che non aveva mai provato per nessuno. Intuì che il suo senso di superiorità lo avesse tenuto lontano da tutti coloro che lo circondavano, considerati inferiori a lui.

La hostess con un sorriso intanto gli aveva portato un Campari con ghiaccio e soda, e lui velocemente lo sorseggiò. La rossa bibita gli fece l’improvviso effetto, forse per il piacevole e fresco sapore amarognolo di riaversi d’un tratto da quelle malinconie: – ... macché... macché... lo so io come fare... le redini le prendo io davvero questa volta... – mormorò all’inizio.

Si immaginò allora che il ragionier Gianluca gli avesse da fare delle rimostranze: – ... Gianluca vai a fare in culo... – gridò a voce alta sgranando gli occhi. La gente si voltò. – ... sì... sì... te l’ho detto... non mi rompere i coglioni!... – proseguì poi, cercando nervosamente di slacciarsi la cintura e alzando ancor più la voce.

I suoi nervi avevano ceduto. Intervennero hostess e steward che, con difficoltà, cercarono di calmarlo dandogli del “Valium”.

Il Gori, appena atterrato a Peretola fu prelevato con la lettiga e portato sull’autoambulanza attrezzata della Misericordia dove fu visitato dal medico e sedato. Poi, su richiesta telefonica del ragionier Gianluca, fu trasportato d’urgenza a Prato e ricoverato a “Villa Fiorita”.

– fine –

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