1871 LA FABBRICA DEL PACCHIANI

1871 LA FABBRICA DEL PACCHIANI – racconto breve –

 

Nell’anno 1792 Giovacchino Pacchiani, lanaiolo pratese con spirito imprenditoriale, aveva riunito in una sola fabbrica in Via del Carmine, tutti i “rami dell’Arte laniera” che fossero riunibili, come la tintoria, la tessitura, la cimatoria, dando vita al primo importante lanificio pratese, completo.

Tal Pacchiani, padre di Francesco eminente studioso e umanista e di un altro figliolo che lo aiutava nell’azienda, fabbricava berretti rossi alla levantina da esportare nei paesi musulmani.

A favore di quel fortunato lanificio e di altri opifici minori che lo avevano seguito su quella strada, il Granducato, che già con decreto aveva liberato l’attività tessile pratese dagli antichi lacciuoli medicei, aveva stabilito un premio in denaro su ognuno di quei berretti spediti. Prato, che produceva con successo anche i classici pannilana, era favorito da secoli dalla presenza di più di cento mulini ad acqua alimentati dal peculiare sistema delle “gore” e da un attivo ambiente mercantile. 

Eppure, intorno al 1830 l’Arte dei cappelli di paglia stava fagocitando il lavoro di tutte le braccia non utilizzate dall’Arte della Lana in declino, ed era facile prevedere che anche il lanificio di Giovacchino, seguitando con quegli arcaici sistemi di lavorazione avrebbe ceduto. In quel tempo infatti i manufatti lanieri forestieri venivano preferiti ai nostrali a motivo del minor costo, essendo prodotti con macchine e non come a Prato, in pratica, ancora manualmente.

Negli anni successivi, l’avvento delle macchine di cardatura e di filatura, progettate dall’ingegnosità di Giovan Battista Mazzoni e da lui prodotte, dette finalmente una svolta decisiva alle attività tessili.

Anche i Pacchiani, si era ormai giunti all’anno 1871, eredi di quel Giovacchino che aveva fatto la fortuna della famiglia con la produzione dei berrettti rossi, avevano aggiornato da tempo la propria produzione con le moderne macchine del Mazzoni, prosperando; almeno così pareva agli occhi della gente.

In quell’anno, il tre di febbraio, Roma veniva dichiarata solennemente capitale d’Italia.

Nello stesso giorno, proprio di fronte a quella grande e rinomata fabbrica in via del Carmine, dalla quale mattina e sera entravano e uscivano numerosi gli operai infreddoliti, in una misera e bassa casupola di tre stanze una donna, ignara di tanto avvenimento piangeva, curva sulla sua bambina quasi morente. Da giorni era in preda al dolore e, durante le notti insonni al capezzale della sua Violetta, sfinita anche dal rimpianto.

Rosa veniva da Montecuccoli, un borgo sperduto sui monti al confine tra la stretta valle del Bisenzio e quella più ampia del Mugello. Poi la sua famiglia, che non riusciva più a trarre sostentamento dalle povere attività di quel luogo, era scesa a valle. A Vernio Rosa, che intanto aveva perso entrambi i genitori, incontrò Luigi un bravo ragazzo con tanta voglia di lavorare che, non contento della vita da mugnaio al Mulino Meucci, avendo saputo che a Prato cercavano degli operai si convinse. La vita della città lo attirava e lo attirava anche il maggior guadagno di cui aveva sentito dire.

Convinse anche la Rosa: – Vedrai Rosina... – lui la chiamava così non tanto per la sua corporatura peraltro minuta, quanto per la tenerezza che gli metteva addosso. Erano sposati da un anno ma la donna non era ancora rimasta in cinta, sebbene non lesinassero il loro amore: – ... vedrai... a Prato ci son tante comodità... una volta anderemo anche a teatro... lo sai icché gli è?... staremo bene... io e te. –

Così Luigi fu preso alle “filandre” in fabbrica del Pacchiani; la paga era buona e con quella poterono prendere “a pigione” quella piccola casa. Il giovane lavorava tanto facendosi apprezzare.

Una domenica di marzo, Luigi e Rosa ci andarono davvero a teatro. A Prato in quegli anni c’era una gran passione per l’opera lirica e al Politeama Banchini davano “la Traviata” di Verdi.

Rosa pianse tanto per la fine drammatica di Violetta, malata di tisi e offesa ingiustamente da Alfredo che poi le chiede perdono. La sera a casa, ancora commossa, si strinse forte al marito che la consolò più volte.

Dopo non molto si accorse di essere rimasta in cinta ed entrambi pensarono che la loro creatura sarebbe stata, forse il frutto di quella notte appassionata. Quel frutto sbocciò un giovedì di metà dicembre; era una femminuccia e la chiamarono Violetta.

– Sono in un giardino bellissimo e profumato... – diceva Luigi, – ... tra rose e violette... –

L’uomo, mentre stava alla filanda canticchiava felice e la sera al suo ritorno il cuore gli si riempiva ancor di più di contentezza. La piccola cresceva e tutto andava per il meglio.

Quando, un pomeriggio freddo di fine febbraio un operaio, trafelato e insieme esitante, venne a chiamare Rosa: – Tuo marito sta male... vieni subito... –

Con il cuore in gola corse in fabbrica con in braccio la bambina di pochi mesi frettolosamente rinvoltata. La lettiga a ruote della Misericordia era già arrivata e due “fratelli” con il cappuccio nero lo già stavano adagiando con cautela sopra a quel mezzo.

– ... Signore mio... Luigi, Luigi... – ma la voce le si strozzò in gola. Il marito fuori conoscenza e il sangue che gli sgorgava dalla ferita alla testa avvolta in bende la agghiacciarono.

– ... via, via... presto... – Accompagnati dalla campanella scossa dal movimento della lettiga, i “misericordiosi” corsero svelti: – ... via, via... fate posto... –

Rosa li seguì con lo sguardo fino a che non scomparvero dietro l’angolo della strada mentre il suono della campanella si faceva sempre più lontano.

Luigi era stato colpito alla testa dal gancio metallico del cinturone che dava movimento alla puleggia della filandra. Qualche volta quegli incidenti succedevano e si sperava nella buona sorte. L’anziano proprietario l’erede Pacchiani, non sprovvisto di un minimo di coscienza, propose alla vedova di rimanere in quella casuccia che era di sua proprietà, facendo lo “smolletto” alle pezze.

Rosa accettò. Avrebbe potuto tornarsene a Vernio, ma i suoi fratelli, ormai tutti quanti accasati e con prole avevano da pensare alle loro famiglie.

Nonostante che nel cuore della donna ci fosse ancora il gelo, arrivò la primavera. Rosa si dava da fare dovendo mantenere se stessa e la piccola, e comunque si difendeva bene nel fare quel lavoro. Già da ragazzina aveva avuto qualche pratica nel rattoppare i poveri vestiti di allora.

Violetta, ignara dell’amarezza della propria mamma, stava seduta tra le pezze, rotolava qua e là, alzava la testa e richiamava a modo suo l’attenzione con brevi sillabe e gridolini. La giovane vedova, ogni tanto la prendeva tra le braccia e, commossa la strizzava forte e la baciava.

Nel mese di maggio cominciò a portarla fuori a prender aria. La portava in braccio fino in piazza Mercatale, piazza grandissima e antica ricca di loggiati e tabernacoli e spesso al ritorno si fermava alla chiesa del Convento del Carmine, quasi all’angolo con fabbrica del Pacchiani, dove sostava volentieri davanti ad un antico crocifisso. La sua fede era semplice ma viva.

Successe che, durante quelle brevi passeggiate Rosa incrociasse più volte ma senza avvedersene, d’altra parte lei stava attenta a dove mettere i piedi avendo la bambina in collo, un giovane distinto e ben vestito. Portava una rendigote, cioè una giacca attillata e lunga fino al ginocchio e aperta sul dietro, non certo una abbigliamento adatto al lavoro manuale. Era Cesare, il nipote del Pacchiani, figlio del fratello minore il quale, essendo stato studente di Giurisprudenza era vissuto per lungo tempo a Bologna dove, a quanto si diceva avesse condotto vita dissoluta.

Da qualche mese era a Prato, tirocinante dal notaio Pasquetti e, avendo notato una volta la giovane vedova, di proposito aveva preso a fare anche lui tutti i giorni quella passeggiata.

Rosa, pur essendo vestita semplicemente e a lutto, gli aveva fatto una grande impressione. Era piccola di statura ma il suo corpo, liberato dalle pesanti vesti invernali, si intuiva sinuoso e perfetto.

– ... e il suo viso ha qualcosa di sublime... – mormorava tra sé ogni volta che la vedeva, nonostante non avesse mai potuto incrociarne gli occhi. Riteneva che somigliasse in modo incredibile alla Madonna del Canto del Mercatale. Ogni tanto, da quando l’aveva scoperta, aveva preso ad arrivare fin là, in fondo alla grande piazza. Sostava qualche minuto davanti all’affresco di Filippino Lippi e poi tornava indietro nella speranza di vedere lei.

Un giorno di fine Maggio, Rosa e la bambina erano seduti su una delle panchine disposte intorno al “Tondo” del Mercatale. Godevano del caldo sole di fine mattinata e Violetta giocava contenta sull’erba; la donna, rivolta verso le “case nuove” teneva gli occhi socchiusi. Si alzava presto e smollettava più pezze che poteva, facendo di tutto per regalare un’ora di aria buona alla bambina.

Avvertì un’ombra davanti e aprì gli occhi. Cesare Pacchiani, dopo molte esitazioni si era deciso:

– Cesare Pacchiani, dottore in Legge... perdonatemi madama... so bene che sia modo inadeguato di presentarsi... così, sulla pubblica strada, senza che voi abbiate nessun’idea di chi, io sia... –

Prima di parlare aveva fatto un leggero inchino seguito da un debole colpo di tosse. La donna rimase a bocca aperta e, imbarazzatissima, fece per alzarsi.

– ... no, no... vi prego... so che sono importuno... perdonatemi... me ne vado subito... – Si schiarì la voce: – So chi siete e di quale lutto siete stata offesa... desideravo solo porgervi i sentimenti della mia comprensione... e... – esitò ancora: – ... che vi ammiro sinceramente. –

Rosa arrossì; non si aspettava quell’incontro e tantomeno quelle parole e non riuscì a profferire alcunché. Il giovane elegante, intanto, dopo un altro leggero inchino e rimessosi la corta tuba si allontanò.

Per tutto il giorno non fece che pensare a quel giovane e a quelle parole. Era un Pacchiani; cautamente, senza parere interessata si informò dal lavorante che le portava le pezze.

Il giorno seguente, mentre camminava con Violetta in collo lo rivide. Il giovane, incrociandola si levò il cappello e si inchinò, senza fermarsi. Il giorno dopo ancora, lei gli sorrise sobriamente. In seguito non passò giorno che il Pacchiani, sempre più incoraggiato, non l’affiancasse e le sedesse accanto su quella stessa panchina. Dopo una settimana lui aveva preso a fare i complimenti alla bambina facendola divertire.

Lei capiva quello che le stava succedendo; era ancora in lutto e la gente mormorava. Sarebbe stato già singolare che una giovane vedova passeggiasse tutti i giorni nella piazza, ma la presenza di quella bella bambina ne faceva capire la ragione. Adesso invece saltava agli occhi l’altra presenza, avendo tanto più quell’uomo, oltretutto di un altro ceto sociale, una certa fama.

Ma Rosa non ci poteva far niente, era più forte di lei; il cuore, con lui accanto le batteva in un certo modo, come quando da bambina correva dietro alle capre del babbo: – ... povero babbo... icchè dirà di lassù... sono ancora in lutto e lui è un signore... e io sono una povera donna. –

A Luigi non osava neanche pensare, era stato sempre geloso, così evitava di pensarci: – ... comunque io non fo nulla di male... si chiacchiera... mi racconta di Bologna... e rallegra la mia povera piccina... –

Ma alla fine successe quello che entrambi speravano succedesse. Una notte, come convenuto, lui bussò alla porta e lei aprì. Per due mesi, quasi ogni sera, stette attenta a quel leggero tocco sulla porta.

In fabbrica tutti sapevano e la cosa arrivò agli orecchi del padrone che chiamò subito il nipote. Lo accolse nel suo studio dentro al magnifico palazzo di famiglia posto “in Palazzolo”, proprio di fianco alle propaggini del lanificio che si estendeva da una strada all’altra. Giovacchino, il fondatore dell’affermata ditta lo aveva fatto magnificamente restaurare facendone decorare gli interni di splendidi fregi.

– ... ma non ti vergogni... se almeno facessi le cose con un po’ di discrezione... lo sanno tutti... questa cosa non può durare oltre!.. – Vi prego zio... non sono più quello di una volta... io amo Rosa. – ... ma sei impazzito... una contadina, una puttanella... – ... no... non è una donna come voi pensate... è dolce e mi ama... –

Il vecchio si fece serio e si accomodò dietro la monumentale scrivania di noce: – ... te tu farai come dico io... – e lo guardò diritto negli occhi. – ...intanto ti levo da’ i’ notaio ... e ti mando a Livorno... così tu te la levi da’ coglioni quella vedovina... –

Poi dopo avergli detto che in fabbrica le cose non andavano così bene come poteva sembrare, aggiunse con un fare che non ammetteva repliche: – ... caro Cesare... porterai all’altare la figliola del Pecchioli... purtroppo bisogna rinsanguare le finanze a questo lanificio... –

Cesare l’amava davvero quella “vedovina”, ma forse amava di più le fortune della sua famiglia, così, una sera, tra le lacrime glielo disse: – ... il mio lavoro mi porta a Livorno, Rosa... ma ti rivedrò, ... vedrai... –

 

Arrivò agosto e con esso la fine del lutto; Rosa si tolse il vestito nero ma il suo cuore rimase ancora in lutto, si sentiva vedova due volte. Pensava spesso a Cesare; lui le aveva promesso che sarebbe ritornato, ma quando? Durante quelle notti di intimità le aveva detto parole dolcissime e aveva aperto il suo animo: – A Bologna pensavo solo a divertirmi... te lo confesso, amore mio... ho avuto delle amanti, ma nessuna era come te... hai un animo puro... – Le raccontò che si era innamorata di lei guardando il volto altrettanto puro della Madonna, al Canto del Mercatale, e lei aveva riso.

Un’altra volta le disse: – Io voglio stare sempre con te... – ... chissà... forse erano parole vuote... – dubitava adesso, ma il dubbio era vinto dalla tenerezza: – ... sì, lo sento, tornerà da me... –

Proprio in quel mese però si accorse del forte ritardo delle mestruazioni, e sì che per lei erano sempre state precise. Sentì poi che le sue mammelle, piccole e ancora dritte e appuntite si erano come inturgidite; e capì. Era il frutto del suo amore per Cesare.

– Ma se lui non tornasse? – Si tormentava per quell’incertezza.

Passò anche l’estate e le forme della Rosa si erano leggermente arrotondate, senza che nessuno se ne fosse accorto. Adesso era terrorizzata, rimanendo lì, sola, il suo futuro sarebbe stato incerto: – ... che ne sarà di noi... come farò a lavorare con due bambini così piccini? –

Cominciò a considerare la possibilità di tornare a Vernio, tanto più che in fabbrica circolavano discorsi malevoli nei suoi confronti; là un pezzo di pane non glielo avrebbero negato.

Intanto, causa malattia, l’operaio che portava le pezze alle smollettatrici fu sostituito dal Pacchiani con un altro. Era un uomo alto e torvo che incuteva timore a guardarlo, ma aveva tanta forza da portare il barroccio a due ruote facendo a meno del cavallo. Alle donne, insieme a certi complimenti lascivi, volendo far qualcosa che assomigliasse ad un sorriso, mostrandone i denti neri e cariati, allargava la bocca con smorfia grottesca.

Un giorno era da Rosa come al solito per portare e prendere il lavoro. Dopo averle preso le pezze fatte, fissandola, le sorrise in quel modo ma più a lungo del solito. Le aveva già e più volte messo gli occhi addosso, dicendole sempre qualcosa di sgraziato, ma lei non gli aveva mai dato confidenza. Quella volta però, un brivido di sottile inquietudine le scese giù per la schiena. Sentiva quella sorda insistenza e non potè fare a meno di sollevare lo sguardo. Vide quell’uomo, con gli occhi che parevano uscire dalle orbite tanto la fissavano, che sogghignava e borbottava delle brevi parole; ma d’un tratto egli si voltò e uscì dalla stretta porta di casa, abbassandosi.

L’energumeno di cui Rosa non sapeva neppure il nome continuò tutti i giorni a fare quel che era solito fare; portava, riportava, bofonchiava qualcosa, le dava una strana occhiata. Rosa non era tranquilla ma alla fine vi si dovette abituare.

Quella sera però, la donna capì subito che c’era qualcosa che non andava. Vide che aveva bevuto, la sua faccia era rossa e accaldata e si impaurì. L’uomo scagliò le pezze sul pavimento e si fermò davanti a lei. Aveva discinti i pantaloni e le labbra gli tremavano: – ... vien qui... vien qui... lo so che tu se’ una puttana... tu dev’esser’ mia... forza... vien qui. –

Rosa non fece a tempo ad alzarsi, era atterrita, e le mani nodose di quell’uomo la abbrancarono e la sollevarono. La donna si mise a scalciare e ad urlare piangendo mentre l’uomo, incurante della sua pur viva ribellione, anzi eccitato ancor più, la sollevò di nuovo e poi la buttò per terra tra le pezze.

Quindi le affondò il gomito sulla gola e, in ginocchio sopra di lei, con la mano destra la schiaffeggiò e la percosse più volte, fino a farla svenire. Poi, calatosi i pantaloni, il bruto le allargò con bramosa cattiveria le cosce e la penetrò.

Quando, richiamata anche dal pianto dirotto della bambina che veniva dall’altra stanza si riprese, l’uomo era scomparso. Le scoppiava la testa ed il corpo era tutto dolorante; ricordandosi di ciò che le era successo, pensò che avrebbe preferito esser piuttosto morta. Sentì con schifo il seme di quell’animale dentro di sé e vide con orrore del sangue che gli colava dal ventre.

Riuscì a malapena a rialzarsi e, barcollando tanto era stata picchiata, corse ad abbracciare e consolare Violetta. Era intanto accorsa la vicina richiamata dagli urli della povera Rosa; le preparò dell’acqua per lavarsi, l’accarezzò e pianse con lei: – ... anche a me mi faceva paura quell’affare brutto... e sì che son vecchia... ma unn’ho ma’ visto nessuno in quel modo... –

La cosa in fabbrica si riseppe e suscitò orrore e rincrescimento in tutti, ma non ci fu bisogno che il padrone, che lo aveva preso a lavorare da poco senza saper bene chi fosse, lo denunciasse. I gendarmi che lo ricercavano per certi delitti commessi, avvertiti, lo avevano già arrestato.

Il Pacchiani, forse per una forma di rimorso nei suoi confronti, un sentire che, nonostante le parole usate di fronte al nipote rasentava la simpatia, dette ordine di trattar bene la vedova, tanto più che Cesare se ne era ormai allontanato, o almeno era quello che pensava.

Lei, non che ne fosse contenta, le avevano insegnato il rispetto della vita nel grembo materno e mai avrebbe abortito, ma capì che quella preoccupante gravidanza era stata interrotta dalla violenza di quel giorno così, dopo qualche tempo, non ci pensò più.

Dopotutto di Cesare non aveva avuto più notizie e la perdita del secondo figlio poteva essere, pur sembrandole quasi una triste bestemmia, come provvidenza divina.

Cercò di dimenticare quello spregevole e ributtante fatto del quale però, la notte o nel dormiveglia, ogni tanto le pareva quasi di riviverne l’orrore; così riprese la vita di prima e non considerò più seriamente il ritorno al suo paese dove ancora vivevano i suoi fratelli. Tuttavia quell’episodio, quello stupro apparentemente rimosso l’aveva segnata profondamente, lasciandole un’amara ombra di rabbia che rimase in lei per tanto tempo, come sotto la cenere cova la brace ancora ardente.

Trascorse ancora un anno ma il ricordo di Cesare non si sbiadiva affatto; al contrario le riaffiorava di continuo, suscitandole languore e tenerezza.    

Qualche volta, stranamente, agli occhi della mente Luigi e Cesare le comparivano insieme. Luigi vestito da operaio sorrideva e additava il giovane elegante e istruito; e sembrava che dicesse: – ... non te ne voglio se mi hai dimenticato... è lui adesso che conta per te... –

Forse era semplicemente quello che voleva sentirsi dire, ma le parole che immaginava pronunciate o pensate da Luigi, il caro babbo della sua Violetta e non affatto dimenticato, la consolavano.

Quella sera, al termine di una giornata molto fredda e ventosa di inizio gennaio, Rosa era lì davanti alla bambina; dopo averla addormentata era rimasta seduta sul letto, quasi ad adorarla. Lo faceva spesso, era il motivo della sua vita, del suo pesante lavoro, delle sue speranze.

Violetta aveva quasi due anni e stava sbocciando come un fiore facendo onore al suo nome, nome che peraltro era quello della tragica e commovente protagonista della “Traviata”. Certamente non aveva più avuto alcuna possibilità di tornare a teatro ma ricordava sempre quella serata, mantenendo nella memoria, canticchiandole ogni tanto, alcune di quelle “romanze”.

Si ricordò con nostalgia che una di quelle melodie l’aveva insegnata anche a Cesare. Avevano cominciato una domenica pomeriggio successiva alle prime notti d’amore durante le quali si erano dichiarati l’uno per l’altra. Incuranti degli sguardi della gente, camminavano con la bambina verso quel tabernacolo galeotto in fondo alla piazza e, non troppo sommessamente cantavano insieme “Un dì, felice, eterea”. Avevano tanto riso di quella felice impudenza.

Rosa aveva una bella voce e adesso la bambina, mentre la mamma cantava lavorando al banco delle pezze, stava ad ascoltarla a bocca aperta, contenta.

Ma, nella notte Violetta cominciò ad agitarsi, poi a piagnucolare, infine prese a piangere. Le toccò la fronte; la bambina scottava. Per tutta la notte stette vicino a lei, cambiandole continuamente i pannicelli per raffreddarne la fronte. Al mattino Rosa era esausta ma intanto la febbre si era un po’ abbassata. Il medico, chiamato dalla sua buona vicina la rassicurò dicendole che si trattasse di un po’ di freddo che le aveva infiammato i bronchi.

Invece non era che l’inizio di un periodo che si sarebbe rivelato tribolato e doloroso per entrambi.

La febbre non si decideva ad andarsene e la consumava pian piano; anzi dopo quasi un mese di impacchi e medicine di nessun effetto, quella notte Violetta, delirante, scossa da violenti scoppi di tosse, scottava come non mai. Il fitto respiro impedito da catarri era pesante e, ad ogni momento pareva venir meno.

L’alba del mattino seguente arrivò dopo ore di sofferenza inenarrabile. Era l’alba del tre di febbraio 1871, e in quel giorno, appunto, Roma sarebbe stata dichiarata solennemente capitale d’Italia.

In quella misera e bassa casupola di tre stanze una donna, Rosa, ignara di tanto avvenimento piangeva, curva sulla sua bambina quasi morente: – ... Dio... se ci sei... e io lo so che ci sei... salvala. –

Si mise in ginocchio sul freddo pavimento: – ... Signore, in cambio terrò un bambino abbandonato... prenderà il posto della creatura che mi è stata soppressa... sarà come l’avessi partorita io.... –

Durante le ore seguenti Violetta riprese a respirare meglio e la febbre cominciò a scendere. La notte seguente il suo respiro era diventato regolare, la febbre quasi sparita. Al mattino Violetta mormorò che aveva fame. Le lacrime di Rosa erano diventate lacrime di felicità.

La donna non si era però dimenticata della promessa fatta. Lasciata la bambina alle cure della buona vicina si diresse alla Chiesa del Convento del Carmine.

Lì si inginocchiò davanti a quell’antico crocifisso posto sulla parete destra. Era un Cristo sofferente e sereno; Rosa lo sentiva vicino e pensò che anche lui avesse sofferto insieme a lei, in tutti quei giorni. Poi andò dai frati ed espose la sua richiesta. Sapeva che al convento esistesse una ruota girevole dove, delle povere donne, sicuramente combattute e piangenti, lasciavano il loro bambino appena nato.

– ... sono sempre le donne a subire di più le asperità della vita... – pensò Rosa riaffiorandole quella rabbia che, ancora viva sotto alla cenere, covava a motivo dell’offesa ricevuta.

Quei miseri bambini, come le spiegarono, non trovando chi li adottasse venivano affidati a delle balie, a cui il comune dava un salario e un corredino, oppure venivano lasciati nel brefotrofio del “Misericordia e Dolce”.

Il bambino che le fu affidato era un maschio; i frati carmelitani lo avevano chiamato Donato. Il nome le piacque; quel piccino di pochi mesi si rivelò davvero come dono prezioso e gioioso. Tuttavia il daffare per la donna aumentò e di parecchio. Rosa, per quanto fosse possibile cercava di “riparare” a tutto, anche cercando di fare ancor più pezze, perché le bocche da mantenere erano aumentate.

La buona vecchia che l’aveva presa a benvolere le dava una mano con tutto il cuore, ma la sera Rosa crollava ugualmente sfinita.

Erano passati dieci mesi dalla partenza di Cesare e di lui non aveva avuto alcuna notizia. Cominciava a disperare che la sua storia d’amore fosse stata davvero una mera illusione:

– ... che illusa sono stata... come si può pensare che uno come lui, giovane, istruito e ricco possa amare una contadina verniattola come me.... che scema.... son questi gli omini... – Tutto ciò, unito alla grande stanchezza fisica la gettò in uno stato di profonda mestizia e prostrazione. Si reggeva soltanto perché aveva quei due angeli da accudire.

Ma anche Cesare era infelice; sul momento aveva aderito alla richiesta dello zio troppo superficialmente. Gli aveva fatto pensare e lui stesso non era lontanissimo da pensarlo, che la prospettiva di quel matrimonio di convenienza fosse realistica.

Durante quel colloquio, a consolazione, gli era balenata l’idea di poter un giorno godere ugualmente dell’amore di Rosa anche se avesse sposato la ricca figlia del Petracchi, calpestandone, ma questo lo pensava adesso, la sua dignità. Sapeva di amare Rosa, ma non pensava così tanto, lei era sempre nei suoi pensieri; come spesso gli ritornava sulle labbra e quasi senza volere, quella melodia che cantavano insieme, felici.

Né, per dimenticare gli erano sufficienti gli impegni di lavoro. Aveva da condurre la gestione del magazzino dello zio, un magazzino pieno di stracci provenienti da tutto il mondo, necessari per produrre il filo di lana rigenerata del lanificio Pacchiani.

– ... no... no, Rosa non è donna qualsiasi... non si merita questo... non è cortigiana come la povera Violetta della Traviata... –

Quel giorno, depressa come lo era da tempo, Rosa stava tirando giù delle pesanti pezze di pannilana; ne aveva la stanza piena. I due bambini ruzzolavano su e giù sopra la montagna di quelle pezze.

Sentì un canto familiare che sembrava venire da lontano; era una voce maschile, non forte ma intonata: – ... no, non può essere... –

Poi, ma in quel poi che durò un attimo, un istante denso e lungo quanto quei dieci mesi, tutta quella congerie di sentimenti che aveva vissuto, alimentato e rimosso sotto la cenere del tempo, la fiducia, la rabbia, la speranza, la disillusione riguardo all’onestà della gente, fossero anche uomini a cui aveva donato se stessa come Cesare, le si presentarono davanti; non voleva esser ferita un’altra volta.

La donna, pallida, le gambe tremanti, si appoggiò al bancone e si alzò in piedi per sentire meglio:

– ... un dì, felice, eterea, mi balenaste innanzi... e dal quel dì tremante vissi d’ignoto amor... –

Si spalancò la porta, sì, era proprio lui.

– fine –

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