LA CHIOCCIOLA

LA CHIOCCIOLA – racconto breve – 2013

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Vasco Vasetti era giunto a fine carriera e pensava con apprensione mista a un certo dispiacere al momento in cui avrebbe dovuto andare in pensione. Aveva già deciso, nonostante che il lavoro, insieme alla sua famiglia, fosse stato ciò che più di tutto gli era sembrato importante nella vita.

– ... lo vedi come l’era la chiocciola?... lo vedi?... ora la un si usa più. Il movimento di stiro e di torcitura dello stoppino oggi gli è regolato dal computer... ma prima... te lo diho io... i’ filo veniva più elastico e con meno punti deboli... – Dante annuì. Il Vasetti teneva in mano e aperto un vecchio libro di scuola, ingiallito e mezzo staccato sul dorso. Gli stava mostrando una figura e il diagramma di lavoro di un pezzo meccanico.

– ... ma si fa per ragionare eh!... pe’ fa’ du chiacchiere... a chi tu voi oggi che gli importi più della chiocciola... a parte quella dell’indirizzo e-mail... – disse chiudendo il libro. – ... anzi, guarda, meglio ancora... si trattasse d’un piatto di chiocciole come fanno a Parigi... come le chiamano... ah sì... l’escargot! – aggiunse con una risata, ricordandosi del viaggio nella “Ville Lumiere” fatto in occasione dei quarant’anni di matrimonio.

Lui aveva fatto “meccanica” al Buzzi, “una vita fa” come diceva lui. Era nato e cresciuto in via Ferrucci alla “case nove” e il rumore del selfacting, detto alla pratese “selfatinghe”, gli era rimasto nelle orecchie. Davanti alla fila delle case a schiera, dall’altra parte della strada ancora sterrata c’era il retro della fabbrica dei Fratelli Franchi, dove era posizionata la filatura. D’estate, a finestre aperte e specialmente di notte, questo rumore non forte ma strusciante che si interrompeva per lo scatto delle bacchette a intermittenza regolare si sentiva bene ma non dava tanto fastidio, era quasi cullante.

Quando fu l’ora di seguitare a studiare, il babbo operaio ci teneva che lo facesse, Vasco non ebbe dubbi, volle fare “meccanica”, voleva studiare tra le altre cose il meccanismo del selfacting, quello che lo cullava e lo faceva cadere nelle braccia di Morfeo nelle sere d’estate.

A Prato di solito i capi cardatura e filatura erano dei “praticoni”. Ma quando il signor Tempesti lo aveva chiamato a fare il responsabile del “Gruppo Filature Riunite”, che contava all’epoca tre “assortimenti” di cardato e una linea di “pettinatura” e di filatura pettinata accettò, senza sentirsi per niente sminuito.

Stava parlando con Dante, colui che dopo poche settimane l’avrebbe sostituito e il titolare gli aveva detto: – Vasco, guarda se ti riesce di spiegargli tutto, come gli è l’andamento della filatura, le nostre esigenze e via e via... certo, bravo come te un potrà essere... –

Il padrone aveva voluto essere ironico e sorrise, ma in realtà era sincero. Erano invecchiati insieme; si era sempre fidato di lui a occhi chiusi e gli dispiaceva che andasse in pensione. Anche se, con quella crisi in corso da tempo e che pareva non finisse mai, di assortimenti ce n’era rimasto soltanto uno per fare i titoli fini da maglieria. Glielo aveva anche proposto: – ... ma perché non rimani, eh?... come tu voi te... a partita IVA, o sennò... guarda... fo un sacrificio e te ne do mezzi in busta... ha’ capito come, no?... –

A lui gli dispiaceva ma ormai ci aveva fatto l’idea; anche se per un attimo, la proposta dello stipendio quasi “a nero” lo aveva fatto vacillare. Ma aveva tanto da fare anche senza il lavoro e poi aveva guadagnato abbastanza e la pensione sarebbe stata alta.

Dante lo stava a sentire, un po’ naturalmente interessato e un po’ divertito; ormai la “chiocciola”, quel particolare pezzo meccanico evocato dal Vasetti poteva benissimo stare al “Museo del Tessuto”, nell’ex Cimatoria Campolmi. Lui veniva da una filatura in odore di dismissione e non ci aveva messo tanto ad accettare la proposta. A Prato, purtroppo, la filiera tessile aveva perso tantissimo; delle numerose filature cardate esistenti in passato, in quell’anno, nel 2013, ne erano sopravvissute meno di un centinaio.

Il Vasetti, negli ultimi anni, mano a mano che il suo lavoro si alleggeriva, aveva preso ad impegnarsi ogni tanto in qualche attività di volontariato: – ... e con la pensione ho intenzione di buttarmici ancor di più... fo come i’ ciuo di Seghine... lo sai no, icchè faceva i ciuo di Seghine... rinforzava sulla ghiaia... – La battuta gli piaceva e, subito dopo averlo edotto sulla “chiocciola”, gliela fece anche a Dante che riducchiò, ma con poca convinzione. Poi gli spiegò, dando per scontato che il nuovo capo fosse interessato alla sua vita privata, che aveva nove nipoti uno più bello dell’altro avuti dai tre figli, senza contare, disse con un sorrisino:

– ... che ce n’ho altri due presi in affitto. – Si riferiva ai due fratelli gemelli avuti in affidamento ancora piccolini, otto anni prima.

La sua era una famiglia speciale e l’Ornella, la moglie, era ancora più speciale. Lui l’aveva assecondata a volte con un po’ di fatica, ma poi ci aveva messo anche del suo. Era sempre stata quella donna cocciuta a volere che la loro bella casa, come diceva, non diventasse come un pensionato per persone che stavano semplicemente bene tra di loro, ma una casa aperta; aperta specialmente a bambini e ragazzi assetati d’affetto: – ... voler bene alle persone è voler bene a noi stessi... – ripeteva tante volte.

In più di trent’anni, da quando la Claudina per prima aveva bussato a quella porta, ne erano passati diversi di ragazzi assetati.

Tutto nella sua famiglia appariva quindi molto positivo, molto esemplare. Sennonché ad un certo punto, in vista dell’imminente pensionamento, nei giorni in cui la vita di Vasco stava per cambiare verso, il diavolo ci volle mettere la coda, e cambiò verso per davvero, in un modo come non si sarebbe aspettato. Alla veneranda età di sessantasei anni il capo filatura, l’uomo tutto d’un pezzo, avrebbe preso una solenne sbandata; a farlo sbandare sarebbe stata la segretaria del commercialista che faceva le paghe.

A dire il vero non si poteva definire proprio un fulmine a ciel sereno. La Monica, una vedova piacente di cinquantun anni, ancora asciutta, frequentratice di palestra, rughe contenute con opportune creme miracolose lo aveva messo nel mirino da tempo. Ma il Vasetti, che non era un ingenuo e se n’era accorto, aveva sempre fatto finta di nulla o, quando non poteva far finta, a glissare con una certa abilità. Aveva da fare, aveva un concetto alto del matrimonio e poi a casa non aveva una compagna qualsiasi, aveva l’Ornella.

– ... io... lo sai?... dell’Ornella sono ancora innamorato come un ciuho... – soleva dire ai suoi interlocutori, quando il discorso, magari durante una di quelle cene con gli operai, cadeva su qualche allusione spinta o su qualche avventura bravamente ostentata sia dai più giovani che dai più vecchi, i quali se ne facevano ancor più vanto, tra risatine generali di approvazione.

Però, senza parere troppo interessato, quei discorsi li ascoltava. Ecco, all’Ornella Traversari voleva bene davvero e la stimava tanto, tuttavia nel loro rapporto mancava un po’ di pepe. La sera, quella donna sessantenne, dagli occhi tuttora bellissimi che avevano tanto incanatato il Vasetti al loro primo incontro, e pur attiva e vitale, era spesso stanca, avendo da “riparare” a tutti, a nessuno volendo dire di no. Nipoti, figlioli, vicini di casa, chiunque avesse un bisogno piccolo o grande, o semplicemente un parere da chiedere, poteva bussare a lei. Di conseguenza, come diceva a chi la rimproverava di avere scarsa cura della sua persona, dovendo dare precedenza alle cose più importanti, badava all’essenziale.

– ... Ornella, tu sei bella di tuo lo sai... ti ricordi che posta t’ho fatto alle feste del Nicastro eh?... ma perché non vai un po’ più spesso a farti i capelli?... a proposito, hai visto la mattina quanta gente va a camminare su verso Canneto... certo, la gente ci tiene alla salute... e poi fa bene anche alla linea... –

Non glielo voleva dire direttamente che si era appesantita un po’ troppo; sapeva che si sarebbe alterata e accesa come uno zolfino: – ... pensa per te... – era la risposta pronta, ma poi si addolciva: – ... ho da fare amore... vai, vai a lavorare, vai in filatura che i tuoi operai ti aspettano a gloria... –

Vasco, essendo un esemplare maschio normale e di ottima costituzione, almeno così gli pareva d’essere, sentendo il richiamo del rapporto coniugale secondo il normale ritmo che il testosterone gli suggeriva, quel richiamo l’avrebbe desiderato corrisposto con un po’ di entusiasmo, e non come invece spesso succedeva “per dovere”. – ...peccato... – pensava a volte, perché quando era riposata, e non succedeva spesso, magari dopo una doccia tonificante all’artemisia come piaceva a lei, anche L’Ornella sapeva diventare una vera leonessa.

Quel giorno se lo sarebbe ricordato anche in seguito, era il martedì successivo all’Epifania dell’anno appena sbocciato 2013. La gente sortiva solitamente dalle feste natalizie satolla, rilassata, a volte un po’ annoiata; invece Vasco era carico e contento.

– ... allora Monica, l’avete fatto il conto della liquidazione... l’avete conteggiata la faccenda di ieri? – disse subito il Vasetti entrando nell’ufficio del suo commercialista. La voce aveva un tono speciale, come di impazienza. Poi si mise a sedere di fronte a lei incrociando le gambe.

La donna si alzò lentamente dalla sua sedia con un foglio in mano, fece il giro intorno al tavolo e si appoggiò con la mano sulla spalla dell’uomo che si girò appena all’indietro, perplesso.

– Bell’uomo... io ti ho contentato, proprio come tu volevi. Lo sai? È venuta una bella cifra... – gli sussurrò ad un orecchio. – ... vai, fammi vedere quei fogli... – ... no, non de li do... te li do se tu contenti me... – ... va bene, va bene... icché tu voi, ma dammi il conteggio del TFR... – Voglio che tu mi porti a cena... te e io... –

Vasco non se l’aspettava, esitò un istante ma nell’impazienza di vedere l’ammontare del trattamento di fine rapporto, tagliò corto: – Okei, okei ti porto a cena, vai – mormorò strappandole il foglio dalle mani.

Lo lesse visivamente soddisfatto, lo chiuse e se lo mise in tasca; poi realizzò che le aveva promesso qualcosa e alzò gli occhi: – ... ma di che cena tu parli, tu vorrai dire uno spuntino da il Betti? – ... no, carissimo... hai promesso una cena, non ti rimganbare, sennò spiffero a tutti, a cominciare dai tuoi operai, quanto ben di Dio ti è piovuto addosso. Ti toccherà a pagare cene sontuose a tutti... –

Quella cifra era bella per davvero e il Vasetti, già un po’ elettrizzato per quello, cominciava intimamente ad apprezzare anche la prospettiva di una cena con una donna ancora bella e simpatica.

– Allora, dove tu mi porti? – ... va bene, va bene andiamo a cena... ancora dove non lo so... ti va bene dopodomani? –

 

Vasco pensò che dopotutto non ci fosse nulla di male. – ... una cena... icché la sarà... l’è una cena... –

almanaccava tra sé, quando gli si affacciava il dubbio. Certo, all’Ornella non glielo avrebbe detto:

– ... per fare icché... per mettile i pucini ne’capo per nulla... l’è una cena... –

Accanto a quei pensieri auto rassicuranti, gli stava montando una certa, sia pur soffocata, leggera eccitazione a cui però non voleva dare importanza, come un viandante che cammini dietro in silenzio, attento a non scalpicciare sui ciottoli, ma sapendo che c’è e che forse ti passerà avanti.

Fissò un tavolo da “Delfina” ad Artimino. Era un classico per i pratesi, ma d’inverno, specialmente d’inverno rigido come era in quel gennaio 2013, ci andavano in pochi, preferendo la maggioranza delle persone ristoranti nella piana, raggiungibili anche in caso di pioggia gelida mista a neve o di asfalto ghiacciato. Pensò che, anche se non c’era nulla di male come continuava a ripetersi, che fosse meglio non mettersi in evidenza.

La passò a prendere al parcheggio MacDonald vicino alla questura. La Monica quella sera ce l’aveva messa tutta, era uno schianto. Il Vasetti, subito imbarazzato e confuso dal profumo discreto che emanò la donna entrando nell’abitacolo, che era un insieme tra il profumo rilasciato dalla sua pelle rosea e quello di chissà quale prezioso e costoso prodotto di profumeria, rimase per un po’ in silenzio, mentre avviava la sua macchina e usciva dal parcheggio.

Poi azzardò uno sguardo di sbieco; non gli sembrava neanche la Monica, pareva una ragazza di vent’anni. Il trucco era leggero ma piacevole e sapiente. Era vedova da quattro anni ma non sembrava tanto addolorata; curava molto il suo corpo e sceglieva con cura anche le amicizie.

Vasco era un bell’uomo davvero specialmente in rapporto all’età, alto, appena in carne, capelli ancora folti e brizzolati, bocca carnosa; appena qualche segno di allentamento sotto il mento. Le piaceva anche perché era diverso da tutti, non era banale e sapeva bene che avesse dei principi morali.

Non era donna cinica, però quella cena, in qualche modo e forse senza rendersene esattamente conto, per lei veniva ad assomigliare ad una sfida, prima di tutto con se stessa. Voleva sapere quanto ancora valesse. Le sue tre brevi storie che, una volta rinfrancata della vedovanza aveva vissuto erano state con uomini di bell’aspetto ma usuali, senza nulla dentro. Sì, Vasco era invece proprio diverso da tutti.

– Vedo che il tuo cappotto è di drap di cachemire molto bello. – Si sentì rassicurato il Vasetti esordendo con qualcosa che aveva a che vedere con il lavoro: – ... chissà... potrebbe esser fatto con il nostro filato... – ... ah, ah, ah... sei incorreggibile... vedi filati da tutte le parti... non credo sai... l’ho preso da Max Mara... molto caro ma bello, sì... piuttosto dove andiamo? –

 

Naturalmente il gazebo esterno, ambitissimo d’estate era deserto. Le sale non erano particolarmente affollate e loro furono fatti accomodare in un salottino da due tavoli. Sotto al cappotto di cachemire consegnato alla cameriera, la donna, in disinvolta mise sportiva e insieme raffinata si rivelò ancora più gradevole.

I due, dopo la scelta del menu e l’assaggio del vino stettero in silenzio qualche istante, guardandosi intorno e osservando le foto dei personaggi e clienti famosi attaccate ai muri: – Mi piace questo posto Vasco, ho idea anche che si mangi bene... – ... sì, qui si mangia bene... ci son venuto con mia moglie... –

Avevano ordinato entrambi le penne al sugo di cinghiale: – ... come è buona questa pasta... – sussurrò la donna che, muovendo la bella bocca con fare lento e voluttuoso, esprimeva tutto il suo piacere. Era come se tutti i suoi sensi, ad occhi semichiusi, fossero concentrati su quelle penne al sugo.

Tuttavia, sorridendo, ogni tanto apriva quegli occhi in direzione di Vasco e mandava indefiniti bagliori. Quella fluida, naturale, quasi animalesca sensualità legata al gusto del mangiare lo colpì.

Poi, terminato il primo piatto la donna chiese qualcosa a proposito del nuovo giovane capo filatura. Disse che gli sembrava troppo serioso e “sulle sue”. La conversazione languiva quando arrivò il secondo piatto, anch’esso uguale per tutti e due: cacciagione e patate arrosto bollenti, profumatissime. Forse in parte acquetata, Monica, mentre degustava un po’ di tutto con gusto, ma senza dimostrare quell’intenso e febbrile godimento di prima, dalla lepre al fagiano fino ad un cinghialino arrosto che si scioglieva in bocca chiese, chissa perché, della sua famiglia. Il filatore attaccò allora a parlare dei nipoti, dei figli, dei due ragazzi affidati. Era il suo argomento preferito, la cifra della sua identità, della sua storia personale.

Tirò intimamente un sospiro di sollievo, ma d’un tratto, mentre raccontava, lei coprì la mano ruvida del filatore appoggiata al tavolo con la sua bianca e morbida. Era una mossa a sorpresa, come quando il nemico, dopo una manovra diversiva, attacca quando e dove meno te lo aspetti. Sentì le sue unghie affusolate puntate lievemente sui suoi polsi massicci e non si mosse. Levò il viso, vide quella bocca tumida e gli occhi di lei e capì di non avere scampo e che lui stesso, sempre più eccitato, non desiderava affatto sottrarsi a quella sconfitta.

Finito il dessert senza fare una sola parola, dagli sguardi e dal seno di lei che si alzava su e giù ansioso, Vasco avvertì tutta la sua cupidigia, alla quale lui stesso si stava abbandonando con compiacenza non più innocente. Scesero a Villa La Malva, lontana poco più di un chilometro e una volta soli e rinchiusa la porta di una camerina ben arredata, si sciolsero in infuocati amplessi.

Vasco infilò quatto nel suo letto matrimoniale alle tre di notte, cercando di non farsi sentire, ma Ornella lo aspettava, non era da lui fare le ore piccole; lo guardò male ma non chiese spiegazioni.

La settimana che seguì fu una settimana di ardente passione consumata sempre in luoghi diversi. L’incontro amoroso era preceduto, quasi come un rito, da una cena anch’essa sempre diversa; dai ravioli cinesi al ristorante brasiliano, dal Sushi a quello francese. Lei come da “Delfina”, davanti a certi piatti particolarmente gustosi entrava in deliquio sotto lo sguardo di Vasco, nuovamente eccitato da quella sua sensualità quasi animalesca. 

Vasco, gli occhi nel vuoto, come febbricitante aspettava la sera con ansia. Dante, il nuovo capo filatore lo guardava perplesso, non aveva immaginato che il Vasetti fosse così distratto. Fu anche una settimana di fortissimi imbarazzi. Ornella era sbigottita: – ... come?... una cena anche stasera?... ma che ti prende? ... quante volte li porti gli operai “all’ultima cena?”... ma perché torni così tardi... – ma non era una stupida. Lui cercava di non guardarla e, non sapendo mentire bene, tagliava corto, farfugliando qualcosa.

Era già trascorsa una settimana da quella cena galeotta, così Vasco e Monica decisero di tornare ad Artimino sulla scena primigenia dove, per festeggiare la ricorrenza ordinarono gli stessi piatti. Per quella notte il Vasetti aveva deciso di non rincasare; l’avvenimento meritava di essere celebrato senza fretta. Pensò che qualcosa avrebbe inventato con l’Ornella.

Ma all’uscita del ristorante furono inopinatamente investiti da una specie di tormenta. Il freddo era pungente e folate di neve ghiacciata schiaffeggiavano il morbido viso della donna: – ... icché si fa Vasco... gli è un affar di nulla... – icchè tu vorresti fare bellina... un si può mica star qui... entriamo in macchina, vai... –

Successe che la strada per andare a Villa Castelletti ripida e tortuosa, per quella sera speciale Vasco aveva pensato in grande, gli riserbasse un’amara sorpresa. La visibilità era pessima, la neve ghiacciata sventagliata dal vento furioso si avventava sul vetro senza posa e la strada era scivolosa come non mai. Ad un certo punto Vasco, già in apprensione avvertendo come molto precaria l’aderenza sul manto stradale, nell’affrontare un doppio tornante perse il controllo, si impaurì e mise il piede sul freno. La macchina, come impazzita fece testa coda poi, per la forte inclinazione di quel tratto di strada ribaltò, tra i gridi di orrore della donna, prima una, poi due volte e infine una terza volta, rimanendo in bilico e a ruote all’insù sul ciglio della strada.

Quando il Vasetti si risvegliò, come seppe poi era arrivato svenuto, si trovava su una lettiga del pronto soccorso all’ospedale Santo Stefano. Chiese di Monica che, come gli dissero, era stata trasferita d’urgenza in sala operatoria. Aveva subito un grave trauma al polmone destro danneggiato per lo schiacciamento delle costole e la frattura di due vertebre.

Lui probabilmente se la stava cavando con poco, sentiva di non aver niente di rotto, soltanto una serie di pesti, dappertutto. Gli dissero che presto gli avrebbero fatto una TAC.

Realizzò con sgomento che l’aveva fatta grossa. – Tra poco verrà Ornella... qualcuno glielo avrà detto... non ho più il cellulare, chissà che fine avrà fatto, ma è il meno... – Pensò che non avrebbe avuto il coraggio di guardarla negli occhi. – Ormai saprà tutto... certo, le hanno detto tutto. – Sentiva salirgli la vergogna fin sulle punte dei capelli. Attese con trepidazione che gli comparisse davanti e che gli vomitasse tutto il suo sdegno.

Ornella non arrivava e ciò lo innervosì ancor di più. Lo trasferirono per la TAC senza averla ancora incontrata. In compenso durante l’attesa che fu più lunga del previsto, davanti agli occhi della mente, gli comparve come un film, un denso cortometraggio che conteneva il riassunto della sua vita.

Era stata una vita, tutto sommato, spesa bene. Un buon ragazzo cresciuto in una famiglia di operai, poi un ottimo studente e infine il responsabile di un’importante fabbrica con tanti dipendenti.

Era stato bravo, glielo dicevano tutti, ma nessuno sapeva meglio di lui che la cosa migliore che avesse fatto era stata quella di incontrare Ornella Traversari, una ragazza e poi una donna splendida.

Intuiva bene che senza di lei, che pure aveva i suoi difetti e li poteva contare uno per uno i suoi difetti, e per fortuna che aveva anche lei i suoi difetti, lui, Vasco Vasetti sarebbe stato un mediocre.

Forse sarebbe stato anche più ricco, o avrebbe fatto anche più carriera, non era quello il punto. Era vero che quella donna la sera arrivava stanca senza tutte le smanie che il filatore avrebbe desiderato che avesse; quelle “amorose voglie” di cui sentiva spesso narrare durante le cene e nelle quali lui stesso si era finalmente immerso in quei giorni frenetici, con quella poveraccia che era sotto i ferri.

Capiva che Ornella, con quegli ideali concreti condivisi che sicuramente costavano una certa quotidiana disciplina e fatica, lo avesse reso diverso: – ... mi conosco, posso ingannare gli altri ma non posso ingannare me stesso; io, narcisista ed egoista come al fondo sento di essere, senza di lei, arrivato a questo punto sarei a guardarmi l’ombelico e a stringere un pugno di mosche... insoddisfatto e senza aver dato un senso al mio essere a questo mondo... – Mentre, intimorito, lo infilavano finalmente nel tunnel di quella macchina, Vasco aveva gli occhi umidi.

Poi, contrariamente alle aspettative, dopo quella speciale procedura di radiologia non fu riportato al pronto soccorso ma ricoverato direttamente nel reparto di Cardiologia. Non aveva niente di rotto ma gli avevano riscontrato, bisogna dire per puro caso, un’aneurisma, una pericolosa dilatazione dell’aorta. Gli dissero che dovevano fare ulteriori accertamenti.

Dopo poco finalmente arrivò Ornella. Sul momento non si poterono dire niente perché piangevano tutti e due, ancor meno lei che lo baciò e lo toccò con prudenza dappertutto, quasi potesse o volesse riscontrare l’assenza di rotture. Quando Vasco, strozzato in gola per l’emozione accennò a dire qualcosa: – ... ora non mi dire nulla... nulla... – gli intimò a bassa voce ma con una certa asciutta severità che non ammetteva repliche. – ... c’è troppa gente qui... ne parliamo a casa... – e aggiunse poi: – ma perché non ti mandano a casa? –

Dalla voce incerta e preoccupata del marito seppe come stavano le cose e, stranamente, non reagì; sembrava guardare nel vuoto. Disse che aveva i bambini a casa e che doveva andarsene; aggiunse che sarebbe tornata per parlare con il professore del reparto e, dopo una rapida e ruvida carezza gli lasciò il pigiama e altri effetti personali.

L’aorta era più sottile e dilatata del previsto; gli dissero che poteva considerarsi un miracolo il fatto che non fosse scoppiata prima e che quindi avrebbe dovuto operarsi al più presto.

Era preoccupato e impaurito ma non aveva perso completamente il gusto dell’ironia. A Dante che venne a fargli visita raccontò di aver sognato quella notte una mostruosa chiocciola dal volto vagamente umano. Essa era per metà “vite senza fine” del tipo di quella illustrata sul vecchio libro di scuola, e per metà una grossa, viscida e diafana lumaca che, con le sue antennine ammoniva il Vasetti. – ..un lo so Dante icché la voleva dire con quell’antennine... la po’ dire icchè la vole... tanto... vero... la un ci serve più...– concluse con un mezzo amarognolo sorriso.

Nei due giorni precedenti all’operazione i due coniugi, non potendo far di meglio e guardandosi a volte negli occhi, anche se quelli di lui tendevano ad abbassarsi, si parlarono. Essendo in una camera a più letti, per parlarsi accostavano ognuno la bocca all’orecchio dell’altro e ciò creava, non voluta, una qualche intimità perfino fisica, un qualcosa che non avevano mai provato, ma di cui nessuno dei due fece cenno.

Lei gli disse quanto la ferita al suo amor proprio fosse ancora troppo fresca e profonda; ci sarebbe voluto del tempo e non era sicura che lo avrebbe perdonato, e che anzi ne dubitava. I figli grandi avevano saputo ed erano naturalmente venuti a fargli visita, non riuscendo però a nascondere un certo imbarazzo. Lui, con gli occhi lucidi le diceva che sì è vero, che non si meritava il suo affetto ma che lo avrebbe sempre e comunque cercato perché lei era davvero la donna della sua vita: – anche se sono un imbecille, di questo tu ne devi esser certa Ornella... –

Al mattino, prima che lo preparassero, si raccomandò alla divina Misericordia che ne avesse compassione. Poi, già quasi nudo sotto il camice di carta blu, mentre veniva condotto in sala operatoria Vasco sentì un’improvvisa e grande amarezza. Sì, l’intervento era rischioso e lo sapeva ma non era tanto il rischio il motivo di quel morale a terra, anzi: – ... se andasse male gli leverei un problema... a lei e a mi’ figlioli... tanto... s’ha da mori’ tutti... – Si sentiva piuttosto un fallito: – ... son già nudo e pronto... come nuda è la terra che accoglie tutti... –

Quando aprì gli occhi, al risveglio dopo l’intervento, trovò Ornella che gli disse piano: – L’operazione è andata bene, ma devi stare una settimana in osservazione e poi quattro di riposo. –

Dopo essersi di nuovo addormentato e di nuovo svegliato il filatore in pensione, recuperando pian piano l’uso dei sensi dopo l’obnubilamento provocato dall’anestesia, annusò un qualcosa di gradevole e dolciastro che non aveva mai sentito, come proveniente dall’Ornella. Poi mise a fuoco la vista ancora annebbiata e osservò che le sopraciglia e le lunghe ciglia di quegli occhi ancor belli e luminosi erano leggermente rimarcate da un filo di mascara e che anche la sua capigliatura era diversa.

– ... che c’è Vasetti... non hai mai visto una donna un po’ curata?... –

 

– fine –

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