FIORELLO DISPOSITORE

FIORELLO DISPOSITORE

 1968

Nell’anno 1968 mentre il mondo era in agitazione, il vento di protesta prima alitò e poi soffiò anche a Prato. Scesero in piazza per manifestare gli studenti del Cicognini, a cui si unirono poi quelli del Buzzi e del Dagomari. La stampa locale e una larga categoria di benpensanti non amava i contestatori; frequenti furono i titoli riferiti ai “capelloni” mentre in altri si dileggiavano “le bizze dei ragazzini comunisti”.

Tra rumorose contestazioni di studenti che detestavano la guerra in Vietnam, veniva raccolto il sangue per i militari americani. Ma quando al cinema Eden venne dato il film “I berretti verdi” con John Wayne in odore di guerrafondaio, un allarme, causa sospetta bomba, provocò l’evacuazione immediata della sala. I dibattiti seguiti all’invasione della Cecoslovacchia si moltiplicarono; nei circoli comunisti il fatto costituiva una specie di ferita aperta.

Tuttavia la città, vivace e ambiziosa, era in ebollizione anche per altri motivi; insofferente al legame secolare con Firenze, sognava di diventare grande e di staccarsene, al modo di un’adolescente irrequieto nei confronti dei lacci parentali, troppo a lungo sopportati. L’avvenimento appariva prossimo ad avverarsi facendo esultare la gente, ma quell’esultanza si rivelò prematura.

Tra le tante ombre e luci di quel periodo il Metastasio appariva come una di quelle luci; la sua brillante programmazione portò Prato alla ribalta del mondo culturale italiano; in parallelo concerti di Patty Bravo, Rino Gaetano e Gianni Morandi furono le attrazioni del “Settembre pratese”.

Nel novembre dello stesso anno veniva istituita l’isola pedonale. La città volle, come ogni altra città che aspirasse ad elevarsi, la sua passeggiata per il centro storico. Fuori dalle mura e in periferia la città era invece molto diversa; quartieri e strade in costruzione in mezzo ai campi sopravvissuti le conferivano un aspetto sciatto e disordinato. Alcune gore ancora aperte causavano numerosi incidenti: un uomo, come riferì il giornale, moriva affogato nella gora di via Ferrucci.

Tra le ombre, si lamentava la mancanza di infrastrutture necessarie alle attività imprenditoriali, ma era la sicurezza pubblica il problema più sentito. Non soltanto per i frequenti furti nelle abitazioni; si rubavano anche opere d’arte, tessuti e materie prime. Sulla cronaca cittadina si parlò della “Banda del tessuto” e della “Banda dell’oro” e si discusse con frequente e curioso interesse di un famigerato “Rapinatore solitario”. Si moriva di lavoro, nel tessile e nell’edilizia. Sulle stesse pagine pratesi si potevano trovare titoli come: “Maciullata una mano” e altri similari; una ragazzina di dodici anni fu ferita gravemente al telaio mentre stava imparando il mestiere.

Per contrasto ancora su “La Nazione”, in un articolo di fondo si poteva enfaticamente scrivere: – Prato, luogo sorprendente, secolare culla di operosità, sintesi di intelligenza creatrice, faro di luce nel mondo del lavoro – In tutta evidenza gli anni sessanta, per il tessile, erano stati l'età dell'oro; la città laniera aveva corso, prodotto e fatturato a gran velocità.

In tale contesto culturale e lavorativo, in quell’anno Fiorello si trovava a svolgere il suo compito al lanificio Fiaschi come “dispositore”. E lo svolgeva con passione essendo di indole scrupolosa e di buona volontà.

Tra il “gabbiotto” ricavato in una parte del capannone principale e dove aveva la scrivania, e gli uffici dei tecnici e del titolare c’era una ripida scala di marmo bianco con, ai lati, due passamano di legno di tassello incavato al centro, lucidi e fin troppo lussuosi per un ambiente come quello. Tutte le volte che saliva e scendeva per quelle scale si domandava il perché di quella bellezza, e non sapeva neanche lui perché se lo domandasse, essendo il quesito così irrilevante.

Per contro, le persone che salivano o scendevano da quelle scale incrociandolo, gli guardavano i piedi.

Fiorello aveva i piedi e di conseguenza le scarpe così lunghi, che era costretto a fare gli scalini di traverso, con una mezza torsione del busto. Lui ormai non se ne rendeva più conto ma le persone non potevano fare a meno di seguirlo sottecchi, e magari di fare la solita battuta: – oh Fiorello... sta’ attento tu caschi... – oppure, – ... oh Vannini, ma mi dici che numero di scarpe t’hai... –

Lui, se non era troppo concentrato in qualche conteggio che, chiamato a telefono aveva lasciato incompiuto, scrollava le spalle o faceva un mezzo sorrisino. In vetta, alla fine delle due rampe, nell’ufficio padronale, l’aspettavano le liste delle pezze da mettere in lavoro che il titolare, in base agli ordini ricevuti, scriveva in doppia copia, a mano.

Il quarantaduenne Vannini Fiorello era un tipo alto, dal viso un po’ butterato e con il lungo ciuffo tegoso appena ingrigito che, nonostante il gesto abituale con cui cercava di scostarsene, gli andava sempre sugli occhi. Non era tecnico; dopo la guerra a “scoppio ritardato” aveva fatto la scuola di Avviamento Professionale, ma non sbagliava un colpo. La mattina era il primo ad arrivare e la sera l’ultimo a uscire e il sabato mattina, immancabilmente era lì, senza il chiasso dei terzisti degli altri giorni, alla sua scrivania a controllare tutto con calma e a rimettere a posto.

Quella di rimettere a posto era la sua mania; le biro con le biro stese una accanto all’altra, il lapis e l’appuntalapis avevano il loro preciso posto, l’appinzatrice con le puntine nel primo cassetto insieme alla calcolatrice e così via. Poi toccava all’altarino; ce l’aveva trovato a dirla tutta, un altarino misero attaccato alla parete, ma a Fiorello che pure alla Messa ci andava poco, gli pareva di fare un torto alla Madonna di Boccadirio, non spolverandone tutti i sabati la peluia depositata sulla piccola immagine e sulla fioca lampadina sempre accesa che le stava davanti.

Aveva però un pensiero per la testa; il figliolo diciassettenne era un “capellone” e contestatore.

Lo aveva fatto studiare al Buzzi, convinto di aprirgli una strada per il futuro. Il ragazzo, una volta approdato in terza aveva scelto chimica e fino all’anno precedente i professori dicevano che andasse anche benino. Ma Fiorello vedeva che da qualche mese, pur tra tutte quelle provette e beute del laboratorio che avrebbero dovuto indirizzarlo verso pensieri più prosaici, Fabio avesse maturato molto interesse per certi argomenti sociali. Ragazzo sereno e riservato, fin da piccolo era stato incline ad approfondire, ad andare in fondo alle cose: – A questo la un gli si racconta che Cristo gli è morto da i’ sonno... – pensavano spesso e orgogliosamente i suoi genitori.

Adesso invece il suo babbo quando, tirando ogni tanto il fiato, in quel gabbiotto poteva scambiare due parole con Giorgino che lavorava alla scrivania accanto, borbottava: – ... gli è un bravo ragazzo, ma gli ha le sue idee... un lo so di preciso a icché pensa... ma poi... boh... con quei capelli... –

Fabio all’inizio della terza aveva cominciato a frequentare un gruppetto di studenti, molti dei quali di sinistra, e le questioni sociali e la politica, non tanto quella dei partiti piuttosto quella, come diceva, con la P maiuscola, lo stavano intrigando. Discutevano tanto, magari dopo aver letto insieme “Lettera a una professoressa” di don Milani oppure le riviste “Testimonianze” e “Quaderni Piacentini”.

Un giorno in camera sua aveva appeso il poster raffigurante Ernesto Che Guevara. Disse che si trattasse di un eroe ucciso dagli imperialisti, l’eroe della rivolta contro l’oppressione dei popoli.

I suoi genitori erano comunisti, in un’epoca in cui esser tali voleva significare far parte della maggioranza dei pratesi. Per cui, anche la Marcella non ebbe niente da ridire. Anche se per loro l’esser comunisti voleva prevalentemente dire andare a ballare al circolo quasi tutte le settimane; l’incertezza era se andarci di sabato o di domenica sera, oppure se partecipare, pur senza tanta convinzione a qualche serata cosidetta “culturale”. Va da sé che poi alle votazioni, mettere la croce nel posto giusto era la cosa più naturale e logica.

Ma poi avevano saputo di qualcos’altro che li stava rendendo inquieti. Con quei suoi compagni, molti dei quali più grandi di lui, del Buzzi erano solo in due lui e il suo amico Cesare, ogni tanto saltavano la scuola per partecipare a certe animate assemblee studentesche e a qualche manifestazione anche fuori Prato. I fermenti del dopo-Concilio, le richieste di giustizia sociale e di maggiore partecipazione, il conflitto generazionale con la messa in discussione della nozione di “autorità”, tutto confluiva in una indistinta e vaga aspirazione al cambiamento.

Lo “spirito” del ’68 stava soffiando ovunque accomunando gente diversa, ed era alimentato dagli avvenimenti più disparati: dal Vietnam alla primavera di Praga, dalle rivendicazioni di libertà sessuale alla Chiesa del dissenso, dal femminismo al “vietato vietare”.

Arrivò l’autunno inoltrato e dall’aula magna posta sull’angolo al primo piano dell’istituto Buzzi, Fabio si perdeva con lo sguardo verso la Retaia. I colori della natura cambiavano e quell’aria sempre più frizzantina contribuiva ad aumentare la sua voglia di dire a tutto il mondo: – ... ci siamo anche noi... vogliamo contare qualcosa... siamo noi il futuro!... –

Lui come molti altri studenti pratesi scesero allora per le strade del centro per manifestare. Quasi tutti, salvo alcuni ragazzini di prima o di seconda che si erano intrufolati solo per fare “forca” a scuola e per fare un po’ di “casino”, erano convinti delle loro giuste richieste. Dicevano, vociando slogan e agitando dei cartelli, di volere un sistema scolastico meno ingessato, più stimolante, più democratico. Ma in quel vociare c’era un di più; la maggior parte dei ragazzi non ne era perfettamente consapevole, tuttavia sentivano che il mondo stava andando da qualche altra parte, nuova e promettente.

Un giorno Fiorello che in quel momento, singolarmente, stava tenendo il lapis dietro l’orecchio e la gomma per cancellare in mano, ne stava giusto parlando con il suo compagno di banco, quando entrò il Fiaschi con dei fogli in mano. Il titolare era una persona curiosa che si inseriva volentieri nelle pieghe delle discussioni. Aveva fatto a tempo a captare qualcosa sull’argomento: – icché Fiorello... icché fa i’ tu figliolo, le manifestazioni?... oh che è un vagabondo anche lui? – disse con un sorrisino sarcastico, ma poi proseguì con un fare più serio: – Io credo a parte gli scherzi che tutti torti un gli abbiano... c’è tante cose che l’anderebbano cambiate in questa società.  ... sì va bene però, se trascura la scuola un va bene per nulla. – aggiunse subito il dispositore intimamente un po’ sollevato dal fatto che il Fiaschi avesse detto in quel modo.

Dopotutto stimava quel suo ragazzo e anche se lui stesso lo “riprendeva” qualche volta in casa, non avrebbe avuto piacere che lo denigrasse qualcun’altro altro, specialmente il “gran capo”.

– ... e poi lo sai icché... – ribattè il titolare andandosene ma indugiando sulla porta: – ... lo sai icché gli ci vorrebbe a i’ tu’ figliolo per sviallo un po’... eh?... – si girò per vedere se c’era qualcuno vicino, non per riguardarsene ma piuttosto per abitudine, e poi concluse: – ... a i’ tu’ figliolo gli ci vorrebbe un po’ di fica. –

Uscendo riducchiò beffardo, contento di aver concluso con una delle sue battute preferite.

Non che le dispensasse a tutti, non con tutti aveva quella magnanima confidenza, ma con Fiorello sì; lo riteneva meritevole considerandolo uno dei migliori tra gli impiegati, affidabile e di buon carattere. A Prato a quei tempi, a parte quel tipo di irridenti volgarità che non si sentiva proprio dappertutto, succedeva spesso che tra padroni e collaboratori ci fosse una certa complicità.

Fabio, dal canto suo tirava a diritto. Consapevole di aver fatto troppe assenze per le cui giustificazioni, con un paio di moine riusciva sempre a farsi fare la firma da mamma Marcella, cercava di non perdere battute a scuola. In classe stava molto attento e prendeva appunti per risparmiare tempo a casa nel fare i compiti. Il tempo gli era prezioso, gli serviva per mettersi in gioco in attività e confronti di gruppo.

Tuttavia, un venerdì di ottobre, durante una manifestazione studentesca che si snodava tra la stazione del Serraglio a via Garibaldi fino a Piazza Mercatale, trovò un altro motivo di interesse che si sarebbe sommato, da quel giorno, a quello della protesta.

Si chiamava Giovanna e frequentava il secondo anno di ginnasio al Cicognini. La incrociò proprio nel momento in cui lei, insieme ad altri ragazzi, usciva dal portone di via Magnolfi dove, al primo piano, si riunivano periodicamente quelli di Gioventù Studentesca. Era un gruppo cattolico molto vivace e si stava riunendo al corteo.

– icché c’è scritto in codesto cartello? – lei gli si rivolse con naturalezza come se l’avesse già incontrato da qualche parte. – ... dove? ah sul mio?... c’è scritto: “Spengete la TV e guardate dalla finestra”... e sotto, “L’immaginazione al potere”... ti garbano? –

Fu subito empatia e forte e reciproca simpatia. Un pomeriggio, lasciata da parte la contestazione e la politica andarono al cinema insieme. Alla Sala Garibaldi davano: “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio. Nel film si parlava della crisi della famiglia tradizionale. Scelsero di muto accordo di sedersi in fondo alla sala.

Era molto graziosa e lui da tempo aveva voglia di sfiorarla, con leggerezza, come per caso, di toccargli un braccio, una spalla. A un certo punto mise la sua mano sopra a quella di lei. Giovanna non la ritirò, anzi strinse a sua volta quella di Fabio, dolcemente. Poi lui, esitante, provò a darle un bacio sulla guancia. Lei rilanciò la posta schiudendo la sua bella bocca. Le loro labbra scivolarono le une sulle altre, umide e fresche. Non potendosi guardare negli occhi per il buio, in compenso potevano sentire il fremito dei loro corpi all’unisono con quello dei loro cuori. Del film non videro un granché. Uscirono felici e, pur non dicendosi quasi nulla, cominciarono a capire di esser fatti l’uno per l’altra.

Per capodanno Fabio disse che sarebbe andato in Versilia in treno con Cesare per festeggiare l’anno, nella casa che la sua agiata famiglia aveva al Lido di Camaiore. Fiorello, nonostante la diffidenza della moglie fu abbastanza contento: – Lascia fare Marcella, almeno si stravia... trovasse un po’ di ragazza, invece d’ anda’ sempre dietro a quei fissati... –

Supponeva anche lui come sua moglie che per certe cose fosse ancora troppo giovane, però in quel momento, sorridendo, gli era venuta in mente la battuta del Fiaschi; ma si riguardò bene dal riportarla alla Marcella, né ri-interpretata, tanto meno con le stesse parole.

Fu meno contento quando nel cuore della notte, marito e moglie erano andati anche loro a “finir l’anno” al circolo della Briglia e si erano addormentati da poco, sentì squillare il telefono. Erano i carabinieri di Viareggio che li avvertivano di quanto era successo ai minorenni Vannini Fabio e Santi Cesare. Erano stati feriti negli scontri, e in sovrappiù si trovavano entrambi in stato di fermo con l’accusa di aver infranto l’Ordine Pubblico. Di fronte alla Bussola, alle Focette, c’era stata una manifestazione alla quale essi avevano preso parte insieme a tanti altri pratesi.

“ ...la gazzarra è culminata con un violento scontro con le forze dell’ordine e ha causato qualche ferito... ” sarà la descrizione che si potè leggere il due di gennaio sulla Nazione, riguardo a quegli incidenti.

Dalla stessa telefonata seppero che Fabio fosse stato ricoverato all’ospedale di Viareggio; quindi, ancor prima che spuntasse l’alba del primo giorno dell’anno 1969, Fiorello e Marcella con il cuore in subbuglio, si erano messi in viaggio.

Cominciava appena ad albeggiare quando superarono l’uscita di Montecatini; il cielo coperto e plumbeo, ostile a quella fredda alba e squarciato ogni tanto da qualche istantaneo fulmine, si ostinava a rimanere buio. Qualche rada goccia ghiacciata cominciò a posarsi sul cristallo dell’auto mentre tuoni improvvisi scuotevano la Val di Nievole, forse appena addormentata dopo i brindisi e gli auguri di fine anno ripetuti all’infinito. Marcella tirava in su con il naso facendo qualche lacrima in silenzio e asciugandosi ogni tanto occhi e naso con la pezzola a quadretti; mentre Fiorello fumava nervosamente le sue “Nazionali senza filtro”. Fino a Capannori non si dissero nulla: – Fiorello, ma in dove s’è sbagliato, me lo dici?... – ... oh sta’ zittina Marcella... ma che sbagliato e sbagliato... ora si vede icchè gli è successo... sta’ bona...–

Il dispositore aveva i suoi pensieri anche lui ma non aveva voglia di farne parte. Nel suo rimuginare, chissà perché, gli tornò a mente un fatto accaduto anni prima. Fabio aveva forse sette, otto anni ma non si ricordava bene e, durante una mattinata di sole di un sabato di maggio, camminava tranquillo dando le mani ai genitori, uno per parte. Ogni tanto alzava gli occhi allegri ora verso l’uno ora verso l’altro: forse si sentiva un piccolo re in mezzo a quei due cortigiani che lo amavano. Si trovavano in Viale Piave quasi davanti a Sant’Anna, poco distante dal castello dell’Imperatore. Dalla chiesa dell’Oratorio stavano sciamando a due a due, ordinate e in gran parte sorridenti le orfane del “Piccolo Educatorio”; dopodiché, dal cortile attiguo apparvero i “celestini” che si accodarono dietro alle orfanelle.

La famigliola si fermò da una parte per vederli passare; era pur sempre uno spettacolo singolare vedere tutti quei bambini diretti verso chissà quale chiesa, da dove sicuramente sarebbe partita una processione funebre. Quegli orfanelli a mani giunte venivano spesso richiesti per dare maggior decoro ai funerali, solitamente di persone benestanti.

Al passaggio dei celestini Fiorello, che li stava osservando, rimase subito perplesso. Alcuni di essi tra quelli davanti avevano per le mani uno strumento musicale; tutti quanti però avevano un aspetto inquietante. I grembiuli appunto di color celestino, quand’anche fossero stati puliti e non tutti lo erano, apparivano miserevoli e stinti, mentre le faccine dei bambini erano smagrite e in generale assai tristi.

Si ricordava di aver notato che alcuni di essi presentavano delle ombre o degli strani segni sul volto ma, essendosi per un istante chiesto per quale motivo li avesse associati a dei lividi, si rammentò di aver respinto subito quel pensiero. Successe però che Fabio all’improvviso scoppiasse a piangere; quello scoppio di pianto se lo ricordava come fosse ora. Continuando a piangere, ai genitori che chiedevano il perché di quel pianto, non seppe che cosa rispondere. Poi gli orfani passarono oltre e pian piano, avendo il corteo svoltato verso la “Basilica delle Carceri” scomparvero alla vista. Il bambino smise di piangere, ma quella contentezza che gli usciva come luce festosa dagli occhi fino a non molto prima, non riapparve più per tutta la mattina.

– Fabio gli è sempre stato un bambino e poi un adolescente dimolto sensibile... – mormorò il dispositore mentre sorpassava con fatica un auto-articolato. – ... unn’è possibile che gli abbia fatto del male a qualcuno... no, un c’è verso... – Fiore... unn’ho capito... icchè tu dici Fiore? – ... no nulla, nulla Marcella... –

Avevano già fatto gran parte del viaggio e ormai Fiorello si apprestava, lasciando l’autostrada A-11 a prendere la deviazione per Viareggio. La buona e devota comunista Marcella, ancora con gli occhi umidi, stava silenziosamente sgranando la corona del Rosario mentre, sul cristallo della “Fiesta” i tergicristalli oscillavano ritmicamente. Quel rumore quasi ipnotico, lontano dal distrarre i riflessi del guidatore, avevano come fatto riemergere quel fatto lontano.

Quel ricordo era stato anche favorito dal processo svoltosi da poco tempo nei confronti dei "Celestini" o meglio, di coloro che si erano occupati di quegli orfani a cominciare dal famoso Padre Leonardo. Tutti gli occhi della stampa nazionale erano stati rivolti verso la città laniera. Molti testimoni avevano raccontato dei vari abusi subiti all’interno dell’orfanotrofio chiuso ormai da tre anni: maltrattamenti, denutrizione, punizioni di ogni tipo. Il quadro che ne era emerso era tremendo e la ferita di immagine per la città sarebbe rimasta aperta per lungo tempo. "Una città senza rimorsi” era stato il forte e polemico attacco alla gente pratese su “La Nazione” secondo la quale i cittadini non potevano non sapere di ciò che stava accadendo alle prime propaggini punteggiate di olivi e cipressi, che si inerpicavano verso la Retaia.

Fiorello intanto con sua Ford blu, mentre la giornata si confermava buia e uggiosa, aveva raggiunto Viareggio. Pur entrando all’ospedale in quell’ora inconsueta erano attesi dal personale sanitario. Fabio aveva l’aspetto sofferente; durante ciò che era rimasto della terribile notte, dopo il fermo in caserma, i raggi X e le prime cure, non aveva ancora chiuso occhio. Lo avrebbero operato il giorno seguente, la frattura era di grave entità. Marcella, a dire il vero stando molto attenta alla spalla, lo riempì dappertutto di bacini: – Oh mamma mia... mamma mia... oh come l’è andata... dimmelo... – Il ragazzo non ebbe il coraggio di opporsi a quelle effusioni che di solito lo facevano arrabbiare, mentre Fiorello prese una sedia e si sedette vicino, gli prese una mano e gli chiese soltanto se avesse molto dolore. Poi lo guardò con aria interrogativa; era evidente che voleva sapere come fosse andata. Fabio, un po’ ad occhi bassi e un po’ guardando fuori dalla finestra raccontò.

I due ragazzi, arrivati al “Lido” avevano letto un volantino del “Movimento Studentesco” dallo stile un po’ truculento: “...il 31 dicembre faremo la festa ai padroni... ”. Tentennarono parecchio, in alternativa avevano un invito a una festa in “Darsena” da certe amiche dell’estate di Cesare.

– ... dai Fabio... andiamo... ci son le ragazze giuste lì... ci si diverte... – Fabio invece la “ragazza giusta”, a malincuore, l’aveva lasciata a Prato con i propri genitori e non ne aveva voglia. Alla fine, a fatica, Cesare aveva lasciato che prevalesse la curiosità del Vannini.

Sul lungomare petardi e luci, il mare era quieto e notturno. Alla Bussola, locale di lusso della Versilia, considerata dai manifestanti il tempio del consumismo e del privilegio, il veglione di fine anno prevedeva due star in concerto, Shirley Bassey e Fred Bongusto che proprio quell’anno aveva vinto il festival di Sanremo con “La Vita”: ... quanti giorni vuoti, quanti giorni tristi, in questa nostra vita…”

Nelle intenzioni degli organizzatori della contestazione c’era il lancio di frutta e verdura ma anche, sembra, di escrementi e di vernice rossa verso le persone che entravano nel locale. Quell’ostentazione di ricchezza delle signore in pelliccia in auto di lusso, veniva percepito come uno schiaffo alle condizioni di vita della maggioranza dei cittadini, uno sberleffo di fronte al dolore del mondo. All’appello avevano risposto alcune migliaia di persone, quasi tutti giovani studenti.

Tuttavia, imprevista, la dura risposta dei carabinieri presenti che, a un certo punto arrivarono ad esplodere dei colpi d’arma da fuoco, aveva acceso la miccia. A farne le spese fu un ragazzo di sedici anni ferito gravemente da una pallottola che raggiunse, come poi si seppe, la colonna vertebrale. Quando sentirono le esplosioni, i manifestanti avevano pensato inizialmente che fossero colpi a salve sparati solo per spaventare. Invece erano seguite le cariche, le fughe sulla spiaggia e nelle ville vicine saltando i muri.

Fabio e Cesare pur condividendo la critica alla società dei consumi erano contro le manifestazioni violente, contro il tanto peggio tanto meglio; ma quella sera, portati davanti alla Bussola dalla curiosità per l’avvenimento, si erano ritrovati anche loro proprio lì, in quella confusione indescrivibile: – ... corri, corri Cesare... filiamo sulla spiaggia... – Avevano quasi raggiunto l’ingresso di un “bagno” vicino quando Fabio, ansimante, si voltò e vide che il suo amico era scivolato per terra. Tornò indietro e, mentre lo aiutava ad rialzarsi, Cesare stava esitando avendo picchiato malamente il gomito, sentì una botta forte, lancinante, su una spalla.

Un celerino, nell’inseguirlo lo aveva colpito con il manganello. Fabio dopo aver perso i sensi per il gran dolore, dopo qualche minuto aprì gli occhi e realizzò che si trovavano tutti e due in un mare di guai. Entrambi furono fatti salire sulla jeep e portati in caserma. Dopo le rilevazioni dei documenti e un breve interrogatorio i due erano stati trasportati all’ospedale. Fabio aveva l’omero della spalla fratturato in due punti, Cesare fu medicato e congedato in breve tempo.

Finito di raccontare, guardò i genitori. Esprimeva anche senza dirlo un grande dispiacere; per loro, per se stesso e anche per Cesare che aveva trascinato in quel caos. Fiorello e Marcella erano commossi, non c’era bisogno di aggiungere un granché. Fiorello pensò che non si era ingannato riguardo al figliolo; lui era la vittima e non il colpevole di quelle violenze.

– Babbo, fammi il piacere... dopo andate a casa di Cesare, al “Lido”. – Voleva sapere come stava, e pensava che in casa ci fossero i suoi genitori; dette loro l’indirizzo, poi esitò un istante: – ... mamma... una volta tornati a Prato... telefona a Giovanna... – ... Giovanna?... e chi è Giovanna? – esclamò la donna nascondendo a malapena un lampo di malizia insieme allo stupore. Fiorello le dette di gomito: – non ti preoccupare... te... fai come t’ha detto... telefona a Giovanna. – Le avrebbe dovuto riferire dove si trovava e perché. Marcella prese il numero che il figliolo aveva già preparato scritto su un bigliettino: – Comunque domattina, prima che tu entri in sala operatoria noi siamo qui... vero Fiore? –

Il mattino seguente, quando arrivarono nella sua stanza, lui stava facendo un breve sonno. Quando aprì gli occhi e mise bene a fuoco le figure attorno al suo letto ebbe un sussulto e fece l’atto di sollevare la testa. Il gesto brusco lo avrebbe fatto gridare di dolore se, davanti a sé non avesse avuto la visione inaspettata di Giovanna. Lei lo stava osservando con sguardo di preoccupazione e insieme, non curandosi dell’incongruenza, di malcelata gioia.

Fiorello, che era rimasto indietro quasi sulla soglia della porta, stava tirando per una manica la moglie: – Vieni, lasciali soli... un tu lo vedi? – le mormorò piano, come a rimproverarle la sua scarsa avvedutezza. Marcella durante il viaggio si era come innamorata di quella ragazzina, per come era bella e intelligente: – L’ho sempre detto... Fabio unn’è un bischero... altro che certe struffelle che si vedono in giro... – aveva pensato tra sé sbirciandola e sentendola un po’ parlare; ma poi le era sorto un dubbio: – ... certo...se durano... son tanto giovani. –

I due ragazzi, dopo un tenero abbraccio e molti baci, pur essendosi visti appena tre giorni prima si dissero l’un l’altro quanto si fossero mancati. Poi lui, dopo averle raccontato come erano andate le cose, ancora impressionato e addolorato, le fece alcune astiose considerazioni sulle forze dell’ordine: – ... loro non sono dalla parte della gente... sono dei fascisti... hanno fatto un disastro... non lo dico per me, lo sai che quel ragazzo rimarrà paralizzato? –

Lei rispose che lo capiva e che aveva ragione, aveva letto qualcosa sulla Nazione prima di partire, e che doveva essere stato tremendo. Però aggiunse, sorprendendo Fabio, che anche loro fanno parte del popolo: – Ti voglio bene e voglio stare tutta la vita con te... e mi immaginavo... ma il risentimento non serve, non è da te Fabio. Guarda Pasolini che cosa ha scritto... –

Tirò fuori dalla tasca un ritaglio dalla rivista “Testimonianze” e glielo lesse: – Avete facce di figli di papà... avete lo stesso occhio cattivo... siete paurosi, incerti, disperati... quando avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti!... perché i poliziotti son figli di poveri... –

Lui l’ascoltava e la guardava a bocca aperta. Dopo qualche attimo di silenzio, la prese per una mano e, sopportando volentieri il dolore, l’attrasse a sé.

In quel momento Fiorello e Marcella, ritenendo dopo un bel po’ di poter rientrare, bussarono e aprirono appena la porta. I due ragazzi non udirono e non si accorsero di nulla; avvertivano, tangibile come tangibili erano i loro corpi, un futuro carico di speranza, un mondo che poteva essere meraviglioso. Quel lungo e tenero bacio sembrava non finire mai.

Fiorello, il bravo dispositore dai piedi lunghi sorrise sotto i baffi che non aveva. Pensò che le cose, proprio come le penne biro sulla sua scrivania, stessero per ritornare al loro giusto posto; gli tornò alla mente anche il rimedio del suo titolare.    

– fine –

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