LA GATTA

LA GATTA 

 

 - Il lamento di Ibrahim somigliava al latrato di un vecchio cane morente. Non era la prima volta che il nordafricano si lamentava nel sonno, ma quei versi cupi e tetri non li aveva mai sentiti. Si svegliò di soprassalto. Intorno era tutto buio, a parte il debole lampione della strada vicina, e il freddo che si era fatto insopportabile aveva irrigidito la sua lunga barba incolta. Le tre coperte polverose che quelli della “ronda” gli avevano dato non erano sufficienti. Rimpianse il sacco a pelo che qualcuno gli aveva portato via il giorno prima. Pensò con amarezza che tra poveracci non si dovevano fare quelle cose.

Non riusciva ad addormentarsi di nuovo e le zaffate di vino che esalavano dal respiro affannato del suo vicino di giaciglio lo fecero girare su di un fianco. Non era una buona posizione; i cartoni erano duri come sassi, così dopo avere indossato un altro giaccone sopra a quello che aveva già, ritornò supino sotto a quelle coperte. Sopra di lui intravedeva appena il solaio di un terrazzo basso di una palazzina in fase di ultimazione ancora disabitata, dalle porte e finestre tutte sbarrate.

Anche lui aveva bevuto vino quella sera; giorni fa si era ripromesso di non ricascarci, ma che altro gli rimaneva per prendere sonno? Adesso i lucidi pensieri della disperazione, rimpiazzando gli effetti anestetici dell’alcol stavano occupando il loro solito posto. La sua vita somigliava al peggior incubo possibile ma purtroppo era tutto reale e lottava per sopravvivere proprio come Ibrahim, Said, Giovanni e gli altri sventurati.

Stette ad occhi sbarrati per tutto il resto della notte, tremando. Fu in quella stessa notte che Valerio Di Biagio pensò per la prima volta di farla finita. Prima o poi, si disse, avrebbe trovato il coraggio. Prima di arrivare a quel pensiero, per ore, un turbinìo di immagini alcune nitide altre sbiadite, un sovrapporsi di voci ognuna con il suo proprio timbro, lontano.

 - Dopo le due disgrazie gli era parso che rimanere a Verghera, dove si conoscevano tutti e dove tutti lo compiangevano fosse cosa insopportabile.

Nel giro di pochi mesi aveva perso due persone importantissime. Il dolore era stato lancinante. A distanza di tre anni, quel ricordo gli faceva ancora male, lo scovava nel buio, incurante di trovarlo accanto ad un marocchino alcolizzato che ronfava lamentandosi e che puzzava, proprio come lui.

Ricordò d’essersi rinchiuso in casa assediato da pensieri confusi che si rincorrrevano alla ricerca di una via d’uscita per non soffrire. Non trovandola, prostrato, sordo e muto, si era ripiegato in se stesso. 

Poi quella mattina si era incamminato verso lo studio del geometra presso il quale stava facendo il suo tirocinio, quando capì improvvisamente che non poteva seguitare in quel modo. Fuggire di lì, ecco quello che ci voleva. Eppure quel posto da geometra, sia pure da principiante, era stato il sogno di suo padre. Antonio Di Biagio, di origine pugliese, uno tra i tanti arrivati con la valigia di cartone, aveva fatto tanto per farlo studiare e quella era la cosa che più lo stava facendo esitare. Ma non importava.

Mentre Ibrahim si rivoltava d’un tratto facendo uno di quei versi lugubri, rammentò quella sua smania improvvisa. Voltare pagina, voleva voltare pagina. A Verghera non lasciava nessuno, c’era solo un cugino alla lontana che aveva rivisto, solo dopo anni, al funerale del padre. I suoi due migliori amici dei tempi della scuola si erano trasferiti per lavoro, uno a Milano, l’altro in Svizzera. Decise allora, semplicemente, di lasciare che il dolore rimanesse quello che era senza cercare di anestetizzarlo per forza. L’avrebbe portato con sé, trascinandolo via da quell’anonima frazione di Samarate, l’ancor più triste cittadina lombarda

In Toscana ci era venuto da bambino tanti anni prima con i genitori e ne serbava un ricordo confuso, quasi onirico ma piacevole; Siena, la val d’Orcia, il mare.

Su internet aveva cercato un lavoro manuale, bastante appena per mantenersi non avendo troppe esigenze. Non voleva pensare troppo e non aveva alcun progetto; pensava di poter vivere, per il momento, al minimo dei giri. Ma dopo tre mesi di lavoro in una conceria nella zona di Santa Croce si era licenziato e, questa volta senza esitazione, si era incamminato in direzione di Cerreto Guidi, avendo intenzione di arrivare fino a Vinci.

Si sentì rinascere; l’odore nauseante della pelle morta lo aveva depresso. Camminare senza una meta precisa, anche se in quel momento aveva in testa Vinci, ecco quello che gli ci voleva. Un nomadismo dell’anima, un desiderio di muoversi senza avere alcuna ambizione o aspettativa di trovare qualcosa di definito. Avrebbe vissuto, se necessario, come un monaco. Pensò, confortato dalla vista di paesaggi molto belli, ed esaltandosi per essere nella terra di Leonardo dopotutto anch’egli con una qualche affinità con la geometria, che sarebbe campato facilmente con poco. A Vinci aveva visitato il museo e poi aveva acquistato un sacco a pelo. La stagione era splendida, il clima settembrino era mite, pensò che avrebbe dormito da qualche parte all’aperto.

L’aver provato a dormire insieme ai due magrebini anch’essi operai della conceria, presso quel deprimente affittacamere di Santa Croce gli faceva desiderare quella soluzione.

– Pensa un po’... – mormorò allora mentre lo attraversava un brivido di freddo: – ... anche adesso dormo all’aperto e accanto ho il magrebino... non mi manca nulla. – Sentì forte l’amarezza. Avrebbe voluto piangere ma non gli veniva. – ... mi si sono congelate anche le lacrime. –

 

 - Per qualche notte, come continuava a rammentare, aveva dormito in una piccola radura in mezzo a un boschetto, sul colmo di una collina. La collina a vederla dalla strada che portava a Vitolini ne nascondeva altre, le quali ne rincorrevano altre ancora, la maggioranza delle quali coltivate a vigna. Anche la collinetta boscosa di Valerio era circondata da vigneti. Intorno era un’esplosione di colori che sembravano dipinti da un pittore: sfumature dal giallino al marrone, dal verde al bruciato. In lontananza si ergeva la torre del castello di Vinci e più in su, dalla parte opposta, si affacciavano le prime case del borgo di Vitolini.

Durante il giorno, solo una volta era ritornato a Vinci, Valerio vagava per i campi e i boschi, attento a non dare troppo nell’occhio. A volte se ne stava fermo a sedere su di un sasso, in alto, a contemplare il panorama. Il sole radente del pomeriggio da cui si lasciava volentieri accarezzare, illuminava i filari accendendone i colori. Momenti di silenzio, di calma e di spazio per lasciare che i pensieri gli facessero liberamente male nel modo che sentiva fosse ancora necessario.

In qualche podere avevano cominciato a vendemmiare e qualche contadino l’aveva notato, ma lui non ci faceva caso, non faceva nulla di male dopotutto, salvo forse, come riteneva ingenuamente, quello di mangiare con calma qualche saporosa ciocca d’uva. Ma al quarto giorno un uomo calvo che calzava dei grossi scarponi lo sorprese mentre ne staccava una: ­– Oh che fai ragazzo? Che credi d’essere al supermercato?... lo sai che non si può rubare ? –

Lui si scusò. Disse che non sapeva fosse proibito e che ne avrebbe tenuto conto. La parola rubare gli sembrò grossa e il contadino calvo notò l’espressione un po’ dispiaciuta. Mentre se ne stava andando con la zappa sulla spalla si voltò: – ... senti ragazzo, ma te n’avresti voglia di venire a vendemmiare... ? –

Così, per qualche giorno Valerio vendemmiò. Forse quelli furono i giorni più belli della sua vita.

 - Tra i vendemmiatori c’era una ragazza particolare. Nella zona la conoscevano in molti; la vedevano vagare per le strade secondarie, passava come scapestrata, una giramondo. Si fermava nelle case coloniche per bere, si accontentava di mangiare del pane con qualcos’altro raccapezzato dove capitava, viaggiava senza problemi nella cabina di un camion a cui aveva chiesto un passaggio, ma poi riappariva sempre nei soliti posti, come una visione. Capelli arruffati, era magra, tutta nervi e ben fatta; sorrideva poco e piuttosto che guardare l’interlocutore, mandava lampi. Si intuiva fosse davvero una zingara nell’anima. Ogni anno Anna si presentava da Gino per la vendemmia, alla fine prendeva la sua paga e poi, in silenzio come era venuta, scompariva di nuovo nel suo habitat. Se c’erano altre vendemmie in altri poderi, in giorni diversi, si offriva senza stancarsi. Era uno dei pochi lavori che voleva fare, insieme alla raccolta delle olive.

Valerio la notò fin dal primo giorno, aveva un viso piacevole e si spostava con le movenze armoniche di un gatto; anche i suoi occhi avevano qualcosa di felino. Non sapeva ancora che la gente la chiamasse davvero: “la gatta”. Ogni tanto si ritrovavano accanto a sedere durante la sosta. Si sorridevano appena senza dirsi un granché finché la ragazza un giorno gli chiese da dove venisse. Saputolo fece una smorfia: – Me lo sentivo che venivi di fuori... la gente di qua è più stronza... –

Per coloro che rimanevano al podere per la notte, non molti, c’era un capannone con brande e lenzuoli puliti. L’ultima sera fu lei che si avvicinò di nuovo al geometra: – Hai un fiammifero?... – Si era arrotolata una sigaretta con qualche difficoltà e si era guardata intorno.

– Mi spiace, non fumo... aspetta, ti porto un tizzone. – Il ragazzo aveva notato il fumo del camino ed entrò in casa chiedendo il permesso con qualche imbarazzo. La famiglia del contadino era ancora intorno alla tavola. Fece cenno di volersi avvicinare al fuoco. – ... vieni, vieni, Valerio. – Lo guardarono tutti incuriositi, i due figlioli specialmente che erano più giovani di lui. Studiavano a Empoli alle superiori, ma in quei giorni erano vendemmiatori anche loro. Il babbo ne aveva parlato a tavola, del modo in cui l’aveva incontrato e ingaggiato e ne provavano una sorta di sottile ammirazione.

– ... per la sigaretta dell’Anna... – borbottò il giovane, prelevando dal camino un legnetto ancora infiammato. Gino sorrise: – ... ah, la gatta?... – Anche i ragazzotti sorrisero mugolando qualcosa.

Uscì; Anna gli prese il tizzone dalle mani e poi insipirò una profonda boccata dalla sigaretta artigianale. – ne vuoi? – gli disse porgendogliela. Valerio se l’accostò alla bocca esitando.

– Vai ! tira, su, ti fa bene... – insistè la gatta, insolitamente sorridente. Il tiro gli andò di traverso e per un bel po’ non riuscì a fermare la tosse. Ancora rosso in viso, mentre la ragazza rideva le chiese: – Ma tu dove abiti? – Lei si fece seria e lo guardò con uno dei suoi lampi; poi si allontanò verso i filari delle viti. Ma fatti pochi passi, voltandosi, mormorò con voce rauca: – Dopo le vendemmie io vo in “Padule” –

Lo disse guardandolo negli occhi e con l’aria di chi si attende una spiegazione; ma al ragazzo, che avrebbe voluto aggiungere qualcosa, sul momento non gli venne nulla. Quella domanda che si era ingollato si disse che gliela avrebbe fatta la mattina seguente, ma lei, prima dell’alba era già sparita.

Rimase con un po’ di amaro in bocca, perché Anna gli piaceva. Valerio allora salutò Gino e si incamminò. Zaino e sacco a pelo in spalla, oltrepassato Vitolini si diresse in direzione del Montalbano. Sapeva che c’erano altri poderi da vendemmia nella piana ondulata, ma era attratto dai declivi di quel monte, altrettanto ricamato da vigne e filari.

Salendo, ancora nel caldo tepore settembrino, ammirava i colori dei poderi ben curati e le belle case coloniche, mentre quel dolore acuto per la perdita della sorella maggiore che gli aveva fatto da mamma e di suo padre, pur vivo tuttora, lo sentiva come ingannato e distratto dalla serenità di quel vedere.  

Fece altre due vendemmie, dopodichè, superato il valico del “Pinone”, incuriosito dalla descrizione fattagli da un operaio, volle arrivare fino a Carmignano. Qui visitò l’affresco del Pontormo e si permise un buon pranzo. Sceso per qualche chilometro verso Seano, e avvistata per la prima volta quella pianura lunga cosparsa di capannoni industriali e tutta fittamente abitata si grattò il capo e, dopo un istante di esitazione fece marcia indietro: – ... no, non fa per me. –

Tra quelle vigne, in quelle campagne aveva sentito di meno le sue bruciature. Ripensò ad Anna, alle sue parole mancate. Gli tornarono in mente i suoi occhi di gatta e quel suo misterioso programma: – Vo in “Padule” –

Passò prima a salutare Gino: – ...perché non ti fermi un po’ qui’...qualche lavoro te lo trovo, sei un buon lavoratore... – ... ti ringrazio, ora non posso, ma torno prima o poi.–

Non gli disse delle proprie intenzioni perché sicuramente, in qualche sua espressione, vi avrebbe letto la sua perplessità. Non volle chiedere un passaggio e in meno di tre ore di cammino svelto arrivò al “padule”. Il ”padule”di Fucecchio era stata zona paludosa e malsana. Adesso, completamente bonificata era importante area naturalistica punteggiata di poderi, boschi, fitti canneti, canali e stagni pieni di pesci, e molto, molto grande.

Una volta arrivato però si trovò subito al perso. Il geometra capì che trovare la “gatta” in quel posto era come cercare un ago nel pagliaio, così si rassegnò all’idea di aver fatto, come avrebbe detto Gino, una “bischerata”. Si trovava a Massarella, un paesino appena all’interno di quella zona. Vi comprò qualcosa da mangiare e poi cercò un luogo appartato per trascorrervi la notte.

Al mattino tuttavia, spinto dalla curiosità si volle addentrare ancor più dentro al “padule”. La natura pur nella vecchiaia dell’estate che non voleva morire, era rigogliosa. Trovò un sentiero segnato e tracciato all’interno di un bosco di querce e lecci che proseguiva poi a cielo aperto tra varie macchie di giunchi. Il sentiero prese a costeggiare un lungo stagno dove grandi ninfee gialle galleggiavano tra anatre e aironi eleganti. Il geometra si mise a sedere sulla curva di un albero contorto. Pensò che la sua vita avesse preso un certo verso e che lo stava assecondando. Per certi versi assomigliava a quel luogo, posto al confine tra una selva ostile e di selvatica bellezza, silenziosa e ricca di vita, e la civiltà, intesa come dimensione bonificata e artificiale, rumorosa e totalizzante.

 - D’un tratto trasalì; sentì un urlo strozzato e grida di donna. Sembravano provenire da un argine non lontano. Si alzò, posò lo zaino sotto all’albero e cominciò a correre in quella direzione. Le urla seguitavano disperate e, via via che si avvicinava, sembrò a Valerio di riconoscere quella voce. Dall’altra parte del canale la vide, era Anna, “la gatta” che stava per soccombere. L’uomo che le era sopra la teneva ferma appongiandovi il gomito sul collo con tutto il suo peso, e si era calato i pantaloni. C’era un ponticello di legno che univa i due argini, proprio in quel punto. L’uomo, probabilmente un contadino, un bruno tarchiato grosso di spalle, vedendo l’intruso che stava per attraversare il ponte si levò in piedi, si ricompose velocemente e tirò fuori un coltellaccio a serramanico: – Che voi?... che voi? – ripetè rivolgendosi minaccioso e ansioso. – ... vai via, sennò ti sbuzzo – Valerio si fermò con gli occhi sgranati: – Lascia stare quella ragazza, lasciala... – perché sennò?.. eh? dimmelo... icché tu mi fai? eh? –

Il geometra era un ragazzo pacifico, a scuola evitava sempre le baruffe tra compagni e non aveva mai fatto male a nessuno. Aveva paura di quell’uomo e di quel coltello e si doveva decidere. Anna, che intanto si era sollevata in ginocchio, stravolta, guardava atterrita.

Fu un attimo. Valerio notò che ai lati del sentiero basso che si immetteva salendo sul ponticello, c’erano delle pietre spigolose. Di scatto ne afferrò una e la scagliò verso quell’uomo, il quale non s’aspettava niente di simile. Immobile e a gambe larghe con ancora la cintura allentata il contadino fu preso in pieno. Si accasciò senza un gemito, mentre dalla fronte squarciata fuoriuscivano fiotti di sangue.

Anna gridò; già scossa per la violenza che stava per subire era terrorizzata. Valerio si guardò intorno; non c’era nessuno. Poi, impietrito, osservò quell’uomo che giaceva tra il proprio sangue già scuro spanto sulla terra smossa. Si chinò su di lui e gli sembrò che fosse morto. Ne afferrò il corpo facendolo rotolare e lo spinse giù per il canale che in quella stagione era quasi secco.

I due ragazzi si guardarono smarriti. Valerio avrebbe voluto chiederle perché lei si trovasse il quel posto ma non c’era tempo per le spiegazioni. La prese per la mano e corsero via. Recuperato lo zaino, mentre stavano facendo il sentiero di ritorno, incrociarono una coppia di mezz’età. Avevano l’aria, avendo un binocolo in mano, di essere due amanti di “bird-watching”. Si salutarono con un cenno, ma l’uomo dall’aspetto straniero posò lo sguardo sui pantaloni di Valerio che avevano delle macchie rosse. Si era sporcato con il sangue di quell’uomo e non se n’era accorto. Valerio vide quell’occhiata ma fece spallucce. Non era stata sua intenzione quella di ammazzarlo, sapeva essere una cosa grave, gli dispiaceva davvero, ma che altro avrebbe potuto fare in quel momento?

Camminavano silenziosi e svelti guardandosi ogni tanto intorno, ma lui avrebbe voluto chiedere alla “gatta” cosa ci stava facendo ai bordi di un canale, sola, così dopo qualche minuto lasciarono il sentiero inoltrandosi nel bosco. Si fermarono in una piccola radura circondata da macchie di ginepro e da bassi lecci e si misero a sedere tra vecchi tronchi e erba secca. Lei, abbandonata l’abituale postura da scapestrata giramondo che usava come una specie di corazza, aveva ancora gli occhi smarriti. Occhi da gatta, ma ugualmente spenti e impauriti. Mai le era capitata una violenza di quel genere.

– ... ma allora? ... che sei venuta a fare quaggiù? – le chiese. Si osservavano così da vicino per la prima volta. Durante il lavoro da Gino si erano scambiati qualche lunga occhiata, qualche parola ma niente di più, salvo la sera dell’ultimo giorno, quando Valerio era rimasto soffocato dalla “tirata”. Anna non rispose subito: – ... ti aspettavo... ero qua che ti aspettavo, sapevo che saresti venuto. – Gli occhi di gatta, lunghi e sottili, ripresero l’abituale luce.

Passarono la notte in quella radura. Il sacco a pelo era ampio e lei era molto magra. Non si era mai aperta in quel modo con nessuno; la sua vita era stata molto difficile e non aveva mai chiesto nulla ad altri, se non un po’ di lavoro, purché fosse all’aperto. Cresciuta insieme a una sorella più grande, morta da poco più di un anno, aveva preso poi la sua strada. – ... come una gatta selvatica. – aggiunse lui accarezzandola. Si amarono e si parlarono tutta la notte.

Al mattino, quasi dimentichi di aver gettato un morto sul fondo di un canale, tanto erano felici, arrivati a Massarella trovarono i carabinieri ad aspettarli. Il fratello dell’energumeno ne aveva ritrovato il corpo esanime ma ancora vivo nel fosso e i due stranieri, interrogati, avevano riferito di un giovane con le vesti insanguinate.

La vittima, peraltro conosciuta dalla gente del posto come uno psicotico di tipo violento, fu fatto passare da un avvocatone di parte come persona quasi innocua e malata che non avrebbe fatto del male a una mosca. L’omicidio fu considerato nella gamma dei delitti compresi tra l’eccesso di legittima difesa e il tentato omicidio.

Così il geometra, venuto in Toscana per fuggire dai suoi fantasmi, era stato condannato a trascorrere ancora in Toscana e precisamente nella Casa circondariale di Prato, “La Dogaia”, i suoi tre anni e mezzo di pena, poi ridotti a tre per buon comportamento, avendo già fatto i quattro mesi di carcere preventivo, in quanto soggetto da tenere sotto controllo.

Anna, che alla sentenza definitiva, piangendo, gli aveva promesso che non lo avrebbe mai abbandonato, per due anni mantenne la promessa andando puntualmente a trovarlo in carcere, ma ad un certo punto, improvvisamente, non si fece più viva. Nessuno, non avendo lei una residenza vera, riuscì mai a rintracciarla, neppure il cappellano del carcere.

Fosse, per contrasto, il ricordo del cappellano che parlava spesso di vita eterna oppure tutto il resto ad accendere quel proposito, quello di farla finita, non avrebbe saputo dire. Fatto sta che, con le lacrime agli occhi, cominciò a pensare in che modo avrebbe potuto uccidersi. – ... e se lo facessi adesso, che non c’è nessuno?... –

Valerio, preso da quel pensiero totalizzante e frastornato dalle reminiscenze del suo recente passato, pur sveglio e scosso da brividi di freddo, non si era accorto che intanto Ibrahim si era alzato per orinare. – Potevi pisciare anche un po’ più in là... accidenti ai marocchini. – mormorò.

Quella visione lo aveva distratto quel tanto da allontanarlo un po’ dai pensieri precedenti. La sua attenzione febbrile e insieme come incoscente adesso si era rivolta verso l’anziano nordafricano. Non sapeva dire perché avesse fatto coppia con Ibrahim. Era un buon diavolo, non faceva tante domande e ogni tanto si piegava verso oriente per le sue preghiere. All’occorrenza si aiutavano. Era un poveraccio che non si aspettava granché dalla vita. Anche lui aveva i suoi rospi; aveva sposato un’italiana che gli aveva dato due figlioli e tutti e tre adesso si vergognavano di lui. E la sera, anche durante il ramadam si addormentava ubriaco; non ne poteva fare a meno. Era già stato ricoverato due volte all’ospedale, ma la cirrosi non gli dava tregua. A volte, anche di notte, soffriva come una bestia per le violente coliche.

 - Iniziava ad albeggiare, sarebbe stata di nuovo una giornata gelida e dura. Quel febbraio era più freddo del solito, o forse gli pareva a lui. Uscito dalla “Dogaia” in aprile dell’anno precedente, avvilito e umiliato, non sapendo dove andare si era messo a vagare per il centro cittadino. Finiti i pochi soldi che l’amministrazione carceraria gli aveva riconosciuto era stato risucchiato da quell’ambiente di reietti. Inizialmente dormì con altre sette, otto persone, quasi tutti stranieri, in una casa abbandonata e fatiscente, ma presto quel “condominio” si dimostrò un inferno. Erano quasi tutti piccoli spacciatori, trans, prostitute, persone violente. Si abituò pian piano, aiutato anche da stagioni prima miti e poi calde, alla libertà del disagio solitario dei “senza tetto”. Ma adesso era veramente dura.

Dalla strada vicina cominciavano a scorrere le macchine. La gente andava al lavoro. Gli venne un groppo alla gola. Da due mesi, praticamente dall’avvento del freddo intenso, si chiedeva continuamente che cosa ci facesse in quella situazione, ma non sapeva reagire. Pareva quasi che il gelo della notte da una parte lo volesse scuotere dall’inerzia in cui era caduto, dall’altra ne annullasse la forza di volontà. In quel momento si avvicinò, fiutando, un cane tenuto al guinzaglio da un uomo ben avvolto da giaccone e cappello di lana che, accortosi dei due cenciosi giacigli sotto al terrazzo, si fermò un istante; guardò un po’, richiamò il cane e poi ripartì.

Si rimise a rimuginare. Della prigione si sforzava di non ricordare nulla. Avrebbe voluto rimuovere completamente quei due anni e mezzo. Era stato come un incubo, non tanto per il vitto o la cella angusta e la perdita della libertà. Dopotutto in carcere si mangiava e si dormiva molto meglio di quanto potesse fare ora. Era l’umiliazione. – ... che sofferenza per il mio papà... se adesso mi vedesse... con un magnaccio spacciatore e uno stupratore... quanto ha penato per me. – pensava spesso in cella.

Poi, dopo la scomparsa dell’Anna all’umiliazione si era aggiunta quella preoccupazione che presto era diventata acuto dolore: – È sicuramente morta di stenti o di malattia... sennò veniva, lei mi voleva bene. –

E a forza di compiangersi in quel modo, uscito di prigione si sentì come persona che non avesse un solo motivo per cui lottare. Aveva preso a vivere per forza d’inerzia senza un solo scopo, come un tappo di sughero che galleggi, sbattuto di qua e di là.

Per il pranzo i due andavano, ma non sempre, alla mensa La Pira, mentre alla sera passavano da quel loculo in cui i due si erano rintanati, i volontari della Ronda portando qualcosa di caldo da bere e da mangiare insieme all’occorrenza, a coperte e abiti pesanti. Durante il giorno ciondolavano di qua e di là, ognuno con il proprio zaino, guardati con diffidenza dalla gente. Qualcuno, come Valerio, si rifugiava nella Biblioteca Comunale al caldo, confidando nell’uso gratuito dei bagni. Con qualche sosta in certe chiese che non chiudevano il portone finivano la giornata.

 - Quel giorno stesso, si era ormai a metà febbraio, stavano facendo la fila per mangiare. Gli si accostò Andrea un dirigente della Mensa La Pira: – Di Biagio... ieri appena sei uscito è venuto a cercarti una persona; ha chiesto di te, sembrava una cosa urgente. Ha detto che sarebbe tornato oggi. – ... e chi era? – ...boh... non me l’ha detto. – Valerio mangiò con calma; osservava quei volontari che servivano al banco, che mettevano le mani tra gli avanzi per svuotare i vassoi, che pulivano bene i tavoli per gli ospiti, quasi fossero come pensò con amaro sarcasmo, persone normali e non miserabili straccioni come lui. Aspettò quasi fino alla chiusura, ma non venne nessuno e poi non ci pensò più. Era troppo freddo, c’era da sopravvivere fino alla sera quando, accanto al suo compagno di sventura avrebbe affrontato un’altra volta, con l’aiuto di un po’ di pessimo vino, i suoi fantasmi notturni. I quali, come e più della notte precedente, non tardarono ad apparire.

Vide arrivare, come atterrito, l’alba del nuovo giorno, sentì i primi rumori sulla strada, echi di passi, parole confuse di bambini. C’era una scuola non lontana. Saranno state le nove e mezzo, il magrebino stranamente dormiva ancora. Si alzò e poi si incamminò. La stazione centrale era la sua meta. Ormai aveva deciso, avrebbe aspettato sulla banchina che un treno partisse, un treno qualsiasi che lo avrebbe portato dove non avrebbe più sofferto.

Arrivato all’angolo del palazzo in costruzione sentì una voce: – ehi Valerio... Valerio! –

Il geometra si fermò un attimo, poi riprese a camminare; aveva un compito e non capiva che cosa volesse quel prete da lui. Era don Leonardo Basilissi vestito in borghese, il cappellano delle carceri: – Valerio!... – ripetè il cappellano accellerando anche lui il passo. – È da due giorni che ti cerco, ieri sono arrivato in ritardo alla Mensa e Said mi ha detto dove ti avrei trovato. – Poi riprese fiato, aveva fatto una corsa per arrivare fin lì e non era più tanto giovane.

– ... Anna è viva... e ti vuole vedere! – Valerio che intanto, imperterrito, aveva continuato ad allontanarsi si fermò di scatto. Ma non si voltò.

– Hai capito?... Anna ti vuole vedere! – L’uomo voltò allora la testa all’indietro. Aveva gli occhi sbarrati, fece per girarsi ma non ebbe la forza di fare alcun passo. Crollò in ginocchio come un sacco sgonfio. Don Leonardo, accorso, gli si mise accanto inginocchiato anche lui e lo abbracciò.

Valerio era incredulo, non sapeva se piangere o ridere. Si misero a sedere su un pacco di laterizi e il prete, anche lui commosso, gli dette le prime convulse spiegazioni.

Anna, un giorno di ottobre, non l’ultimo ma quello precedente era caduta da un ramo alto di un grosso olivo, sbattendo violentemente la testa contro un tronco a terra. Si trovava nella campagna di di Cerreto Guidi per la potatura e la raccolta delle olive. All’ospedale di Empoli fecero di tutto per salvarle vita; ci riuscirono ma poi rimase in coma profondo per nove mesi. Quando miracolosamente un giorno si svegliò, intanto era stata trasferita all’ospedale di Careggi, lei non ricordava nulla di nulla, neppure chi fosse. Non aveva documenti e nessuno era venuto a cercarla.

– E soltanto da dieci giorni che pian piano ha cominciato a ricordare. Mi hanno contattato ed eccomi qui. Piange e vuole te Valerio. –

L’uomo era bianco come un cencio e nel frattempo si era levato un vento gelido. Entrambi rabbrividivano, così entrarono in un bar, presero un cappuccino ma ci stettero poco. Il prete gli dette le informazioni necessarie e una busta con un po’ di soldi. Valerio, con il viso ancora rigato di lacrime, questa volta di gioia, l’abbracciò.

Riprese il cammino verso la stazione che aveva interrotto meno di un’ora prima. Il treno che tanto aveva immaginato come soluzione delle sue sofferenze, lo avrebbe portato dalla “gatta” . Gli balenò una facile battuta che lo fece un po’ sorridere, come da troppo tempo non gli succedeva: – ... i gatti hanno davvero nove vite... –

 

– fine -

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