IL LABIRINTO

IL LABIRINTO

IL LABIRINTO DI CRISTO

– Alle quindici e trenta, come avevo sperato, ero davanti alla porta di via Ghibellina, 36. Arrivato a Santa Maria Novella con un po’ di ritardo, mi ero affrettato e adesso stavo riprendendo fiato. Davanti a quel portone di vecchio mogano non c’era nessuno e il sole di fine giugno cominciava a picchiare; mi misi a sedere sullo scalino ma non ero impaziente.

La mia attività di scrittore mi aveva portato nella città di Dante in altre occasioni, ma quella volta non avrei avuto impegni importanti di lavoro se non, in quello stesso pomeriggio, la consegna di una versione cartacea all’editore Akros; per quel motivo avevo preceduto mia moglie di tre giorni, ma era una vacanza. Lei era nella commissione d’esami di terza media e aveva avuto da ridire di cotanta partenza anticipata; io invece avevo quasi cercato quel pretesto per aspirare un po’ di profumo di libertà.

In treno, mentre dal finestrino scorrevano le immagini della campagna toscana e i filari dei cipressi, mi era venuto in mente un fatto accaduto quand’ero ancora ragazzino e visitavo la città per la prima volta con la mia famiglia.

– Fabrizino, strofina... strofina forte il naso al porcellino... vai, non aver paura. – Ricordo che quella bocca mi atterriva e non lo volevo fare, allora il babbo mi sollevò, avevo sette anni e facevo la prima elementare, e mi costrinse a toccarlo. La monetina sulla lingua del cinghiale messa poi da lui finì davvero nella fessura. – ... bravo, hai visto? ... t’aspetta tanta fortuna amore mio. – esultò mamma Gina, strapazzandomi di baci. Ma io piansi e misi il muso per tutto il giorno.

Provo ancora irrazionale diffidenza nei confronti delle statue animalesche, forse anche perché, due settimane dopo quella vacanza che ricorderò per tutta la vita, i miei genitori rimasero entrambi vittime d’incidente stradale. Sono poi cresciuto con una zia, la zia Luigia a cui sarò grato per sempre e, tuttosommato la mia vita ha girato nel verso giusto.

Rimuginavo ancora quel ricordo mentre stavo osservando quel va e vieni di gente di tutti i colori; i turisti passavano a frotte, con il cappellino e con l’operatore turistico sbandierante il suo cartello.

– È lei il signor Mancini? – La vocina che richiamava la mia attenzione ancora protesa verso un gruppo di giapponesi sorridenti era di una donna sulla cinquantina, esile, un po’ scialba con indosso ancora il suo grembiule di cucina, e con un mazzo di chiavi in mano: – Benvenuto, venga, le faccio strada. – Il portone centrale dava su un landrone oscurato di piacevole frescura, dal quale attraverso una pesante porta di metallo a vetri si accedeva per ampie scale di pietra scura al primo piano. Qui la donna prese una chiave di tipo antico che fece girare con qualche difficoltà nella serratura con uno scandito rumore metallico. Era un bell’appartamento di un palazzo ottocentesco che, sul retro, dava su un cortile verde di piante e d’erba un po’ incolta.

– Lei è solo? – Chiese la signora. Le spiegai che sarebbe dovuta arrivare anche mia moglie, ma non subito. – Le auguro un buon soggiorno... se ha bisogno, chiami... – disse tentando un sorriso frettoloso. Mi accorsi troppo tardi che quella donna si era dimenticata di lasciarmi il mazzo delle chiavi, sicchè corsi giù per le scale: – ... signora, signora... le chiavi! – Fu un attimo; un piede non trovò l’aderenza dello scalino, una pietra consumata e scavata, e ruzzolai giù sbattendo anche un gomito contro la ferrea porta a vetri. Esitai ad alzarmi; la caviglia mi faceva male da morire e quando arrivai al portone e con fatica lo aprii, guardai subito a destra e poi a sinistra chiamando con un filo di voce, perché quello mi era rimasto, ma la donna si era dileguata tra la gente. C’era solo da tornare al piano, da dove avrei chiamato il numero telefonico di riferimento. Fu uno sforzo titanico arrivare alla porta dell’appartamento zoppicando e anche il gomito cominciava a dolere.

La porta però, nella concitazione della fretta si era chiusa e il cellulare, come mi accorsi subito sbigottito, era rimasto nello zaino. Mi misi le mani tra i capelli, ero smarrito e dolorante e non potei fare altro che accucciarmi sul cotto del pavimento ed appoggiarmi con la schiena alla parete dell’andito.

– E lei che ci fa qui? – fu la diffidente domanda della signora che, aprendo la porta dirimpetto, mi vide in quello stato. Poi si accorse che stavo male: – ... mi scusi, ma lei ha bisogno d’aiuto? – Sì signora... ho una caviglia distorta e sono rimasto fuori. – Le spiegai l’accaduto, così chiamò subito il 118 che accorse e mi portò al pronto soccorso.

Nell’attesa dell’autoambulanza mi aveva fatto usare il suo telefono: – ... sei sempre il solito distratto, amore; se manco io, ti perdi. – fu la reazione di Margherita. Purtroppo lei aveva soltanto l’indirizzo dove tre giorni dopo mi avrebbe dovuto raggiungere. I dati che mi aveva fornito Airbnb, compreso i numeri di telefono utili erano nel mio MacBook, anch’esso nello zaino.

Mi propose il telefono di un mio vecchio amico fiorentino, un antiquario affermato. Inoltre a Prato lei aveva una cugina con cui manteneva rapporti ancora stretti, così mi dette anche il suo, di numeri:

– Non si sa mai Fabrizio, se non trovi l’antiquario telefona ad Alessia, sarà contenta di darti una mano.... piuttosto, allora icchè fo?... – come icchè fo? – che domanda, non ci badare... certo che ti raggiungo domani... cosa puoi fare tu da solo... – fu la sua conclusione. A quella sarcastica presa in giro non ebbi voglia di ribattere; mi giravano già abbastanza: – Sì brava... poi ti aggiorno. –

– Uscii dal pronto soccorso di Santa Maria Nuova dopo qualche ora, zoppicante e affamato; dal taxi mi feci scaricare in piazza della Repubblica davanti al caffè Gilli dove estinsi la fame. Poi, comprato un telefonino di poco conto chiamai il dottor Settesoldi ma non mi rispose. Riprovai più volte ma niente. Non mi restava che ricorrere alla cugina Alessia ma, mentre ne digitavo il numero cambiai idea. – È bravissima e mi vuole bene ma è un po’ “entrante” – Mi ricordai del modo in cui mia moglie usava descriverla. A Prato con quel termine si usa disegnare una persona bonariamente invadente e la cugina lo era ancor di più, s’intende per affetto, impicciona e ficcanaso; vi rinunciai.

Invece volevo trovare il modo per entrare nell’appartamento di via Ghibellina; inoltre non capivo perché l’antiquario Settesoldi non rispondesse tuttora a telefono. Ormai era sera tardi così trovai una camera in un alberghetto sui lungarni, carissima.

Al mattino dopo, poiché avevo un cellulare di quelli poco intelligenti con il quale non potevo accedere a internet, mi decisi di tornare ancora zoppicando dalla mia dirimpettaia di via Ghibellina, confidando nella sua pazienza. Avevo la speranza che nel frattempo la mia padrona di casa, accortasi della dimenticanza fosse tornata indietro e magari avesse consegnato la chiave alla signora.

Di chiavi neanche l’ombra ma lei fu ancora molto gentile, mi fece accomodare e, mentre mi preparava un caffé formai il numero verde di Airbnb il quale però rimaneva costantemente occupato.

– Mi vanno proprio tutte male, signora... non riesco a parlare neppure con l’antiquario Settesoldi qui di Firenze, che conosco... speriamo almeno di rintracciare la padrona dell’appartamento. –

La donna che si era distratta per calmare il suo canino che mi stava noiando e annusando con pervicacia, si voltò di scatto: – Scusi, come ha detto?... può ridirmi quel nome? – ... che nome? intende l’antiquario? – Sì, come si chiama quel suo amico, come l’ha chiamato? – Settesoldi Enrico si chiama, perché? – La donna andò a prendere La Nazione; l’aveva lasciata aperta proprio alla cronaca cittadina: – Mi pareva, guardi... non è un nome tanto comune. –

Lessi il titolo: – Un noto antiquario ucciso a coltellate durante un furto. – Non riuscivo a realizzare finchè non lessi anche il “catenaccio” dell’articolo: – Il dottor Enrico Settesoldi trovato nel suo lussuoso negozio, in un lago di sangue. –

Mi dispiaceva davvero. Enrico era stato un amico, avevamo fatto insieme la facoltà di lettere e filosofia alla Sapienza; anzi, da studenti condividemmo per due anni lo stesso mini appartamento, anche se non avevamo proprio gli stessi interessi. Stavo leggendo d’un fiato l’articolo ed ero ancora incredulo quando trillò il mio stupido telefono: – Chi parla? – fece una voce forte. – Come sarebbe chi parla, lei chi è, chi gli ha dato il mio numero? – Ero meravigliato, avevo acquistato una Sim usa e getta e nessuno poteva saperlo.

– Sono il commisario Benedetti della Squadra Mobile, abbiamo trovato il suo numero tra le chiamate all’antiquario Settesoldi. Lei chi è? – In un lampo compresi: – Sì ho telefonato io, ho saputo solo da pochissimo che è stato ucciso. 

Spiegai come era andata e acconsentii a che mi venissero a prelevare per una deposizione. Ero costernato ma ci andai senza problemi; almeno ne avrei saputo qualcosa in più. Il commissario mi chiese anzitutto se lo conoscevo bene. – L’ho conosciuto bene, commissario; ma da anni lo frequentavo poco o niente. – Lo misi al corrente degli anni condivisi all’università senza entrare in particolari, poi gli dissi, ma non ricordo come facemmo ad entrarci, che ero scrittore di romanzi storici e la cosa lo incuriosì.

Mi chiese che cosa ne pensavo di questa brutta storia: – Mah... ne volessi fare un romanzo storico, proverei a collegare la cosa con uno dei tanti misteri della Firenze antica. – Mi guardò perplesso: – ... e perché mai?, per la presenza di oggetti di antiquariato? – Ero lievemente imbarazzato, l’avevo buttata lì senza una vera ragione, solo per istinto di narratore oppure per una reazione di tipo manieristica; tuttavia mormorai: – può anche darsi... –

Di una cosa quel poliziotto era perplesso; da una prima ricostruzione fatta dal suo commesso, dal prestigioso negozio non mancava nulla, l’assassino non era un ladro. Il che apriva il caso ad un ampio ventaglio di possibilità. Non c’erano segni di effrazioni, né erano state rilevate impronte digitali.

Saputo poi della disavventura delle mie chiavi, in pochi minuti fece rintracciare la donna con il grembiule togliendomi da quell’inghippo. – Grazie commissario, e se ha bisogno ancora di me, sono a sua disposizione. – Non dubiti... e non le perda di nuovo quelle chiavi, mi raccomando. – ... non le ho perse io, commissario... – ma mi interruppi vedendo il ghigno sorridente del funzionario. Era un bel tipo che, ogni tanto come ebbi modo di constatare in seguito, amava metterla sullo scherzo.

In taxi ripensai subito al motivo per cui avevo omesso un particolare; forse, anzi sicuramente come mi dissi in quel momento non aveva alcuna importanza, ma allora perché non gli avevo detto che il Settesoldi avesse tendenze omosessuali? È vero che all’epoca non dissi mai a zia Luigia, donna apprensiva e molto cattolica, che il mio compagno di appartamento fosse gay. Ritenni chissà, che avrebbe decisamente arricciato il naso ad esprimere la sua preoccupazione e il suo dissenso. A me, pur avendo personalmente gusti molto diversi, non importava molto; d’altra parte con me era sempre stato corretto. Mi dava più fastidio il suo carattere debole, incline allo scoraggiamento; più volte mi toccò a motivarlo nel proseguimento dello studio che gli era ostico.

– Margherita, non importa che tu parta... fai tranquillamente il tuo lavoro con gli esami... ho tutto risolto e il piede va bene... – ... e perché non vuoi che venga prima... mi nascondi qualcosa, eh?... – come vuoi cicciona, non ho niente da nascondere... piuttosto la sai la brutta notizia? C’è sul giornale a Roma? il Settesoldi è stato accoltellato. – ... nooo, ma che dici? – Margherita era colpita e chiese particolari. Poi concordò che non fosse il caso di sconvolgere la commissione: – Arrivo dopo domani, ma te... comportati bene eh? – concluse ridendo. Noi facevamo sempre tutto insieme e amavo con sincerità mia moglie, ma in quel momento sentivo di essere contento di stare un po’ per conto mio.

Zoppicavo ancora ma volli andare alla fontana del Porcellino. Dal giorno di quell’episodio infantile, ci ero passato frettolosamente una volta o due, ma senza mai fermarmi.

Mi misi a sedere su uno scalino lì non distante. Nonostante la presenza di gente curiosa che vi sostava davanti, mi sforzai di isolarmi per rivivere quel ricordo lontano, avvolto nella nebbia del tempo.

Fui distratto dalla voce di un ragazzino; poteva avere la stessa mia età di allora: – Guarda, qui a Firenze c’è anche la testa di un toro... guarda... – Poi si rivolse verso il gruppo degli adulti: – babbo, si va a vedere anche il toro? – urlò mentre mostrava all’amico la pagina della guida turistica. Capii dai commenti che gli avrebbero dato retta, avviandosi verso la facciata della cattedrale.

Li seguii pian piano a distanza; anch’io ero incuriosito dalla testa di toro. Anche se il mio lavoro mi portava a ricercare certi particolari di fatti storici che mi ispirassero, non avevo mai fatto troppo caso a quella strana scultura posizionata sul lato sinistro della cattedrale ad una discreta altezza. Il motivo di quella presenza insolita era sempre stata oggetto di varie illazioni.

Come lessi su internet, finalmente consultabile con il mio smartphone recuperato, il sarcasmo dei fiorentini prediligeva da sempre la versione del fornaio cornuto. Pareva che quella testa fosse stata messa proprio lì per vendetta dal carpentiere amante della moglie del fornaio, il quale li aveva denunciati e fatti condannare come adulteri.

Sentii vibrare nella tasca l’I-phone; ero entrato nella cattedrale e avevo tolto la suoneria. Lessi sul display: Commissario Benedetti. Avevo anche pagato il biglietto ma mi affrettai ad uscire. Mi chiedeva di tornare al commissariato con urgenza. Ad un controllo più accurato si era scoperto la scomparsa di un oggetto che, oltre ad essere prezioso, era particolarissimo.

Il commesso, un uomo molto alto, magro e bruno, aveva un viso particolare, allungato e ossuto, con la poderosa mascella inferiore sporgente. Inoltre ostentava, cosa molto singolare al giorno d’oggi, due folti favoriti sulle guance alla maniera ottocentesca. Disse che il pezzo mancante fosse un piccolo dipinto cinquecentesco, parte di un polittico raffigurante nell’insieme il dodicesimo canto dell’inferno dantesco. Quel dipinto era, o ne era stato fino a quel momento, l’unica parte rimasta. Le altre parti erano state trafugate molto tempo prima al museo Ermitage di Pietroburgo, però ne esisteva la foto.

– Ce la fa vedere? – chiese il Benedetti all’uomo che era venuto di sua iniziativa al commissariato ad esporre la scoperta. – Certo, eccola qui. – rispose con voce bassa e profonda.

L’uomo, nonostante la stagione estiva, portava un severo abito di lana pettinata completo di gilet e tutto di color antracite, meno la cravatta regimental rossa e blu. Osservandolo mi venne di sorridere; nonostante i favoriti, mi ricordava la figura di Learch, il maggiordomo della famiglia Addams. Tuttavia, per qualche istante, ebbi anche la sensazione di aver già visto da qualche parte quella strana figura, ma pur frugando nella memoria non ne venni a capo.

– Il commesso estrasse dalla sua cartella di cuoio nero e consunto una foto rettangolare che il Settesoldi usava mostrare insieme al dipinto superstite. Il polittico, pur mancante della prima parte, quella adesso rubata, mostrava in tutta la sua liricità il VII cerchio dell’inferno dove il divino poeta aveva immaginato esser punite le persone violenti e lussuriose. Mentre il dipinto mancante, la cui riproduzione l’uomo serioso mostrò aprendo una lussuosa brochure, raffigurava il Minotauro, il mostro metà uomo e metà toro, messo a guardia di quel cerchio infernale. La pittura ad olio era scura e piccola di dimensione.

– Non capisco... ma è solo una mia valutazione personale, eh intendiamoci... diciamo che qualcuno ha commissionato il furto, va bene... ma che godimento ne troverà guardando questo quadretto, eh? – mormorò il commissario mentre dava un’occhiata di sbieco all’uomo con i favoriti, e piegando la bocca in un mezzo sorriso. – ... ammesso che non sia costretto a tenerlo nascosto nel caveau di una banca. – aggiunse infine.

Il commesso lo guardò in modo strano; pareva che dissentisse ma non aprì bocca. Ma poi il Benedetti rincarò la dose: – Se non fosse per l’assassinio del signor Settesoldi, di cui sono profondamente rammaricato, signor? ... – Lapo Barbolani di Montauto, per servirvi... signor commissario. – rispose il commesso, facendo un leggerissimo accenno di inchino. – Ecco, signor Barbolani, direi, con tutto il rispetto, che questa gente ha fatto una gran bischerata... ne conviene dottor Mancini?... ha un senso una trama come questa? eh?... ha senso uccidere una persona per questo mezzo toro? – Esitai un po’ per pensare alla risposta, ma non ebbi il tempo di proferire alcunché.

– Il dottor Settesoldi gli attribuiva un grande valore sentimentale, per quanto io abbia più volte personalmente constatato... – replicò invece al posto mio il lungo commesso con una voce che mi sembrò diventata più tenorile, più nervosa – ... una volta rifiutò perfino una grossa offerta... – soggiunse, mentre guardava il commissario con occhi fermi. Dopodiché l’uomo chiese il permesso di andarsene dicendo che aveva da fare una commissione urgente.

Non sapevo il perché ma il Benedetti teneva alla mia opinione. – Come lo vede... ehm... questo commesso, sempre dal suo punto di vista di romanziere, Mancini? – Usava questa formula e io stavo al gioco volentieri. Pensavo, con un po’ di pudore, che tutto questo mi potesse venire utile per un nuovo lavoro. Ritenni di parlargli dell’antiquario e della sua omosessualità: – Sa, magari non serve a niente, ma ho voluto dirglielo... riguardo al commesso non mi è sfuggita l’occhiata che le ha dato mentre diceva della grossa offerta. – Lo ha visto anche lei eh?... questo qui sa più di quello che sembra. – concluse scrollando le spalle.

Rimanemmo in silenzio, poi quasi a cambiare argomento aggiunsi: – sa che questa è la giornata dei tori? – Gli raccontai della testa bovina sulla facciata di Santa Maria del Fiore e della versione popolare riguardo al fornaio cornuto.

– Chi sa se le due storie non abbiano qualcosa in comune... – mormorò il poliziotto, sorridendo di un sorriso storto, malizioso, molto fiorentino, o pratese; anche mia moglie pensai, a volte aveva quell’espressione ambigua e divertita.

– La sera dopo aver cenato, ero sulla spalletta del Ponte Santa Trinita a frescheggiare e a riflettere. Davanti avevo le luci del Ponte Vecchio e sentivo il brusio delle voci delle persone accalcate tra i suoi negozi. Stavo rimuginando su quel sorriso storto, sullo sguardo del commesso, al carpentiere e alla sua amante.

In piazza della Signoria, sempre stupenda nonostante la ressa dei turisti, mi accomodai a sedere per un gelato e aprii il Mac. Lessi che i Barbolani di Montauto erano una famiglia aristocratica tra le più antiche. – Il nostro LeArch ha sangue nobile, si vede... sarà di un ramo decaduto. –

Era una deformazione professionale; lo portavo quasi sempre con me nello zainetto. Una fissazione, come diceva invece Margherita. Squillò il telefono, era proprio lei: – Che stai facendo Andrea?... ti controllo sai? – disse accompagnandosi con una sonora risata. La voglia di libertà e di solitudine che avevo reclamato per me come un adolescente, fu presto confusa da quella voce e dal quel riso: fosse stata lì l’avrei abbracciata e baciata.

Non avevamo figli, non erano venuti. Dicevamo di essere ugualmente felici, avevamo tanti interessi, ma nel fondo sentivamo entrambi qualche scricchiolio e la vacanza, senza dirselo, speravamo potesse servire anche per aggiustare qualcosa: – Ma che rompi anche quest’ora eh?... sto mangiando un gelato, un buon gelato – le dissi invece. – Sei uno stronzo... senti, ti ho mandato una foto. Sai mi hanno colpito molto quelle pugnalate al povero Settesoldi. Ho letto sul Messaggero che la sua attività non andava tanto bene, lo sapevi? –

No, non lo sapevo ed ero meravigliato. – Ma che foto mi hai mandato? – È una dell’università, l’ho fotografata, ho pensato che ti facesse piacere rivederla; siete un bel gruppo e tu eri molto più bellino. – Rise; poi riferì del suo esame e infine salutò.

Aprii whatsapp e la trovai. Per la verità era un gruppone, forse in occasione di una cena; poi lo vidi. Ecco dove l’avevo già visto. Lì non aveva quei ridicoli favoriti e quasi sorrideva; ma era lui, Lapo Barbolani di Montauto. Non seguiva con noi i medesimi corsi, sennò l’avrei ricordato meglio, ma era accanto al Settesoldi e gli teneva la vita con il braccio. Enrico invece si appoggiava a lui con una mano sulla spalla.

– ... quindi non era un comune commesso, Mancini. Presumibilmente era o era stato il suo compagno. Questo non è in contraddizione con quanto abbiamo appena rilevato. A proposito, io mi sto fidando di lei, visto che mi è stato di aiuto, ma lei non faccia il bischero, eh? – Gli dissi che poteva dormire tranquillo e che avevo a cuore la scoperta dell’assassino. Quel mattino mi ero subito diretto in via della Fortezza, al commissariato; mi pareva importante riferire quella precisazione.

In effetti, come proseguì a dire il Benedetti, l’impresa commerciale del Settesoldi, aldilà delle apparenze e delle ricche brochures, era in stato quasi fallimentare. La versione ufficiale era che avesse fatto dei grossi acquisti sbagliati, oggetti non vendibili; c’era anche da supporre che l’antiquario fosse coinvolto in una rete di traffico di opere d'arte, non sarebbe stata una novità, era una tentazione ricorrente nel mondo dell’antiquariato. – Tuttavia questa è solo una delle tante piste da seguire. – E il ruolo in questa storia di LeArch... scusi, volevo dire del Barbolani? – chiesi allora.

– Di che LeArch parla Mancini? – In realtà aveva capito e sogghignò divertito: – Riguardo al Barbolani, e questo è certo, oltre che suo compagno come direbbe lei, era stato anche suo socio. Aveva firmato delle fidiussioni e ciò, a quanto pare lo rendeva nervoso. Riuscì a liberarsene, uscì dalla società ma rimase suo dipendente, ben pagato; forse perché sapeva troppe cose.

Rimanevano tanti interrogativi, aggiunseChi lo ha ucciso, il motivo delle tante coltellate, il significato del furto del Minotauro. Era stato quel furto il motivo accidentale dell’assassinio, o era stata la concorrenza spietata nel traffico di oggetti d’arte, o una vendetta?

– Quella notte non riuscii a dormire bene, tanta era l’agitazione e tanto era il caldo, nonostante le mura spesse dell’appartamento e le finestre spalancate. Era un giugno anomalo, mai si erano registrate quelle temperature all’inizio dell’estate. Sognai una testa di toro.

Verso le undici del giorno seguente, dopo una visita al Museo del Bargello che non avevo mai visto, mi affacciai al commissariato. Il piantone mi fece passare subito in sala d’aspetto. Il Benedetti era occupato e dopo mezz’ora ero ancora lì e sfogliavo la rivista della Polizia. La foto d’epoca della Volante in copertina era molto bella. Era un’alfa Romeo Giulietta, con colori bianco e azzurro e la pantera nera disegnata sui lati. Non c’entrava nulla, però mi venne in mente il commissario; me lo figuravo alla guida ma non sapevo nulla della sua vita privata: – ... eppure anche lui ne avrà una, con i problemi di tutti, con le sue idee. – Era persona riservata ma allo stesso tempo sapeva essere spiritoso. In quel momento passò proprio lui; mi vide con la coda dell’occhio e fece un passo indietro: – Mancini, ha dormito qui stanotte? È sempre qui... la faremo detective, le piacerebbe?... venga con me. – Lo seguii nel suo ufficio.

– C’è un fatto nuovo; un testimone, un vicino di casa asserisce che il morto fosse coinvolto in riti esoterici, ma non è sicuro. Forse riti massonici; lo scoprì una volta per caso e non vuole che si faccia il suo nome, per ora. – Il commissario mi chiese se sapessi qualcosa a riguardo di tali pratiche occulte. Gli dissi che ero in parte informato sugli ambienti segreti e le sette misteriche, ma non più di tanto e inoltre non avevo mai avuto esperienze dirette.

Mi meravigliava il fatto che mi mettesse al corrente con così tanta libertà. Seppi soltanto dopo qualche mese che il Benedetti, in seguito delle nostre conversazioni, avesse fatto cercare in libreria alcuni miei romanzi e si era messo a leggerli, a cominciare da: “Per filo e per Segno” il mio best seller; ma senza dirmi nulla. In seguito seppi anche un’altra cosa ben più significativa; il commissario, sessantenne, vedovo e a fine carriera aveva un figlio della mia stessa età, tetraplegico. Lo teneva in casa con l’assistenza di un infermiere professionista e con lui trascorreva tutto il suo tempo libero. Aveva preferito non ricoverarlo in una qualche struttura.

– ... la cosa è un po’ intrecciata. – gli dissi appena mi fece accomodare. – Fosse un romanzo, a questo punto non saprei come chiuderlo. – Davvero?... io confidavo invece nella sua immaginazione. Sa, conta molto nel nostro lavoro l’immaginazione... o l’intuito che ne è parente stretto. –

 

– Quel discorso mi colpì e mi punse nell’orgoglio. Tornai a casa, cioè nella casa della donna con il grembio e mi misi al computer. Buttai giù un complesso incipit dove tutti i vari elementi della storia avevano il loro posto, cercando di non tradire la cifra del mio stile, ma non riuscivo ad andare avanti. C’erano dei tasselli mancanti a cui la limitata fantasia non riusciva di sopperire.

Uscii, come soffocato dalla mia impotenza e mi recai in una libreria specializzata, sperando di trovare qualche testo che mi regalasse un’idea. Un impiegato, un uomo anziano con dei lunghi capelli bianchi e occhiali spessi, mi indicò con fare frettoloso alcuni libri. Trascorsi qualche tempo a leggere e ad annotare certe cose che, come potei constatare, la ricerca elettronica non offriva. Per non trascurare nulla cercai di collegare, tra l’altro, i riti in questione e il furto del Minotauro.

Nulla di preciso ma ne scaturì un’ipotesi intrigante; il quadro rubato poteva avere un significato simbolico e la sua scomparsa poteva aver scatenato la rabbia di qualcuno. Stavo per uscire da quella libreria molto sui generis con una buona idea letteraria, ma tutto sommato con niente di concreto, quando il vecchio dalla capigliatura candida mi porse furtivo un biglietto. Feci per interloquire ma lui si allontanò subito senza dare nessuna spiegazione. Sul foglio c’era semplicemente annotato il nome di una chiesa. Perplesso, dopo qualche passo mi misi a sedere all’ombra di un palazzo di via Cavour su uno scalino. Seppi, con Google Map, che si trattasse di una chiesa sconsacrata del cinquecento e situata in aperta campagna sulle pendici del Monte Morello. Le visite, essendo di proprietà privata, erano precluse. Ero incerto se avvertire o no il commissario, ma decisi di no; era un indizio misterioso ma molto vago e temevo di fargli perdere del tempo.

Vi arrivai con un taxi in una ventina di minuti; il caldo del primo pomeriggio era asfissiante, le pietre calcaree di quell’inizio di costa montana ribollivano di calore e le cicale frinivano in modo ossessivo sulle rade piante. Mi ricordai di quanto avevo letto di quegli insetti. Quel suono era emesso soltanto dal maschio con il solo scopo dell’accoppiamento; mi chiesi come ne avessero così tanta voglia con quel caldo.

La chiesa, che appariva sconnessa e trascurata in mezzo ad un prato incolto, aveva il portale chiuso ma non sprangato. Con una spinta più decisa si aprì. Richiusa con cura la porta, all’interno vidi un ambiente tutto diverso. Alcuni candelabri che trovai accesi ancora per poco, con le fiammelle tremolanti ormai arrivate alla fine del moccolo, illuminavano incerti alcuni affreschi sbiaditi. Raffiguravano scene bibliche e simboli che, grazie al mio studio accellerato in materia, riconobbi come simil esoterici.

Ero senza fiato. Avvertii come un senso di sacralità e allo stesso tempo di inquietudine, come fossi entrato in un luogo proibito; gli occhi che provenivano dalla luce accecante del pomeriggio, si stavano abituando all’oscurità. Dietro l’abside, accanto a un grosso dipinto più dozzinale c’era una porticina che conduceva quasi subito ad un passaggio sotterraneo. Non senza un certo timore mi addentrai nel buio, armato solo dalla torcia elettrica dell’I-phone. Pensai che ero un incosciente ma ormai ero in ballo. Giunsi infine in una grande sala con un altare al centro. Era una cripta molto infossata rispetto al livello della chiesa. Sul muro dietro l’altare, notai incredulo una nicchia che conteneva proprio il piccolo dipinto rubato, quello del Minotauro. Accanto, attaccata al muro, c’era invece, così mi pareva, una riproduzione fatta da una moderna copisteria di un antico affresco. Questi raffigurava un labirinto circolare con in mezzo, la figura di Cristo.

Improvvisamente sentii un rumore di passi avvicinarsi. Mi nascosi dietro una spessa colonna ma ero impaurito come non lo ero mai stato. Apparvero due figure; una era quella di Lapo Barbolani di Montauto o LeArch, l’altra non la conoscevo. Trattenni il respiro e, a tuttoggi non mi spiego ancora come in quel frangente sia riuscito a dominarmi a tal punto. Parlarono a lungo e di quello che dissero, come se la memoria si incidesse a fuoco, non avrei dimenticato neppure una parola.

Finalmente i due figuri tornarono sui loro passi. Lasciai passare del tempo fino a che percepii silenzio assoluto; dal mio ingresso in quella chiesa era trascorsa più di un’ora. Fuori non c’era nessuno, solo in lontananza sentii il rumore di una macchina agricola. Accompagnato dal canto delle cicale che mi pareva adesso più esausto e, ringraziando il mio pur saltuario jogging, alternando passo svelto a corsa, in quasi un’ora arrivai, sudato matido, all’ospedale di Careggi dove sostava un provvidenziale taxi.

– Salii d’un balzo le fresche scale di pietra scura del mio palazzo e, dopo una bevuta degna di un cammello, estrassi dallo zainetto il Mac. Non avevo niente da inventare e finii svelto; la realtà, come si dice spesso a sproposito superava, questa volta davvero, la fantasia.

– Commissario devo farle leggere quanto ho scritto. – Ma se sono già le sei e mezzo Mancini... che fretta c’è; so che scrive bene, ma lo posso fare domani. – No, commissario, è importante, vuole che venga a casa sua? – E va bene... vengo io da lei. –

Il mio appartamento era accogliente e fresco. Benedetti era stanco e non lo nascose. Si sdraiò sulla poltrona di pelle allungando le gambe e, cominciando a sorseggiare il Fernet con ghiaccio che gli avevo preparato, con una mano teneva sui ginocchi il mio computer aperto su ciò che avevo scritto.

Ad un certo punto appoggiò il suo bicchiere e sollevò la schiena, guardandomi con aria interrogativa.

– E allora? gliel’hanno già detto che scrive bene, no? ... e la conclusione... – Ma non lo feci finire. Guardi che quello che ha letto non l’ho inventato... è tutto vero. – Come sarebbe a dire? –

Così gli raccontai tutto, dal libraio canuto alla conversazione carpita pericolosamente.

– Ma lei è pazzo... ha rischiato molto, lo sa... – Mi guardò meravigliato e per un istante rimase come assorto, poi d’un tratto si alzò: – Bisogna provvedere subito per il fermo dei due soggetti... vuol venire con me?... si ricordi che dovrà testimoniare. – Tutto si svolse nella sera stessa.

– Il nobile decaduto, che confessò dopo una settimana di strigenti interrogatori, era stato l’autore materiale del delitto. Si disse che nelle numerose coltellate si intravedesse l’ombra della gelosia, il sentimento tradito di un amore interrotto e tuttora vivo nel commesso, ma ciò non cambiava nulla nella sostanza.

La persona anch’essa arrestata, che aveva accompagnato il Barbolani nella cripta della chiesa dismessa era un egiziano, un personaggio pericoloso che trafficava nel mondo dei reperti antichi. Aveva preteso dal Benedetti il pagamento anticipato, una cifra molto importante per un lotto prestigioso di oggetti di valore, oggetti però intercettati dalla polizia egiziana. A quanto pare il Settesoldi esigendo la restituzione del denaro lo aveva minacciato e ciò aveva provocato la sua condanna.

Insieme a tutto questo, il mio antico compagno di università era anche stretto per la gola dal default finanziario. Da tempo Enrico non pagava i vecchi debiti contratti regolarmente con i fornitori e la banca gli aveva chiuso i rubinetti. Lo avevo conosciuto bene; era una persona di talento ma che nelle difficoltà annaspava, perdeva la lucidità e finiva per affogare.

Si disse che il commesso, sodale da tempo con l’egiziano, avesse simulato il furto del dipinto per sviare le indagini, ma non era esattamente così, o non era solo per quello; il Minotauro lì dipinto rappresentava veramente il simbolo demoniaco venerato da quella setta. Il Settesoldi, dopo un periodo di appartenenza a quel sodalizio, non tollerando la presenza dell’egiziano agli stessi riti, non voleva più che il dipinto fosse tenuto lì, sebbene per brevi periodi.

– ... lo abbiamo trovato ancora nella nicchia come lei stesso ha descritto. – diceva il commissario. – Le cose non sono sempre così come le vediamo – Sì, e vero, si mischiano tra loro come in un caleidoscopio a confondere realtà diverse. – aggiunsi.

– E il labirinto, Mancini, come si spiega? – Così com’è, con l’immagine di Cristo al centro che invita a percorrere un simbolico cammino verso la salvezza, è un’immagine riscontrata solo in due chiese nel mondo, due chiese templari. In questi riti invece gli adepti ponevano il Minotauro al posto di Cristo, per affermarne la supremazia come principe delle tenebre. –

Gli spiegai ancora che il labirinto in quanto tale e in particolare quel labirinto circolare fosse un archetipo posseduto da ogni civiltà del passato, compreso quella cretese. Proprio a Creta era nata la leggenda del crudele Minotauro, nato dall’unione tra la moglie di Minosse, re di Creta e un toro bianco, bellissimo e poi rinchiuso nel labirinto: – È una leggenda complessa, non la voglio annoiare. – Certo che lei sa un sacco di cose... – Non ci badi, sono tutte cose raccattate... piuttosto... ma il vecchio con i capelloni? – Lo abbiamo cercato, ma il titolare del negozio dice che è scomparso... eppure ero convinto che, avendola scambiata per un simpatizzante del demonio, l’avesse semplicemente indirizzata nel posto giusto. – concluse con il suo solito sogghigno divertito il commissario Benedetti.

Da quel giorno non ho più avuto modo di parlare con lui a quattr’occhi. Storcendo il suo solito sorriso, mi salutò con un cenno in occasione della mia deposizione giurata. Me lo ricordo ancora come una delle persone migliori che abbia mai incontrato.

La mattina seguente andai al binario tre a prendere Margherita. Anche la sua freccia Rossa era in leggero ritardo. Mi abbracciò con un trasporto che non mi aspettavo – Allora? come sei stato senza di me, eh? – Poi con le sue mani piccole mi strinse la faccia: – Fatti vedere, fatti vedere... ti sei annoiato eh?... dimmi la verità. – disse ancora scrutandomi negli occhi; prima di darmi un umido bacio. Arianna era venuta di nuovo a portare a Teseo il filo della vita.

– fine –

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