GERARDO

GERARDO

 SENZATETTO

– Gino Guarducci aveva una voce tenorile ben impostata. Cantò il “Credo” in gregoriano dispiegando tutta la sua potenza e slungando il collo scarno come volesse far arrivare il suo canto ancora più vicino al cielo. L’assemblea non era numerosa ma partecipe e un bell’organo accompagnava il canto. Alcuni guardavano, incantati ma assorti, le numerose fiammelle appese e disposte sopra l’altare a fare corona al celebrante, un prete giovane dai capelli corti che indossava la “pianeta”, mentre altri seguivano il libretto con il canone latino. Sullo sfondo una grande immagine dai colori vivaci di Rupnik rendeva a quella piccola chiesa un’aura di modernità a contrasto con il rito Romano antico che si stava celebrando. Il vescovo concedeva a quella parrocchia la celebrazione della Messa Tridentina una volta alla settimana e il Guarducci quel giorno non volle mancare. La solenne liturgia gli dava una bella soddisfazione e tra sé gli venne di pensare: – Vuoi mettere questa... con quelle Messe scialbe... ... non c’è confronto. –

La chiesa, finita la Messa si era presto svuotata, e lui non aveva nessuna voglia di tornare a casa. Si accostò a due donne che si erano trattenute in fondo chiesa a chiacchierare a voce bassa: – Scusate signore, sapete se c’è questa sera qualche riunione in questa parrocchia?... sapete, un ritrovo, qualcosa per scambiarsi delle idee, qualche esperienza... io avrei tanto da raccontare. –

Le donne lo guardarono incuriosite. – Sono andato in pensione da poco, sa... – aggiunse rivolgendosi a quella delle due che gli sembrava più attenta. Intimamente si aspettava che gli chiedessero qualcosa del motivo di quella confidenza, ma risposero che no, non credevano ci fosse nulla del genere. Si genuflesse e uscì, facendosi un ampio segno di croce.

– Incerto sul da farsi si diresse al bar Bagianni, come faceva ogni tanto. Si sedette al banco, ordinò un Crodino e, vedendo che non c’era quasi nessuno si rivolse a voce alta al barista: – Te l’avevo detto no, che andavo in pensione, vero?... ecco, ci sono da un mese... – L’uomo non parve scomporsi e lui riprese: – ho lavorato alla Misericordia per quarant’anni e ho avuto le mie brave soddisfazioni, lo sai Maurizio? –

Il banconiere allora si avvicinò e, appoggiato il gomito sul banco e il viso sulla mano, lo guardò perplesso: – Di che soddisfazioni parli? o non hai sempre detto che facevi il becchino? –

Gino dette una scrollatina spalle: – ... che ti credi? era un lavoro importante... ti sembra poco scavare una fossa precisa, diritta? Solo io manovravo l’escavatore senza fare danni... mi ringraziavano i parenti, lo sai?... per il rispetto, la serietà e per la tumulazione fatta come si deve... – ... certo, di sicuro il morto non si doveva lamentare... – sogghignò il barman Maurizio mentre cominciava a ripulire il bancone; tra mezz’ora avrebbe chiuso. Gino pagò e si apprestò ad uscire, malinconico; lo traversò un’uggia al pensiero di quel vecchio e di quella camera ammobiliata. Anche quella sera avrebbe finito la giornata come al solito guardando la tivu.

Il Guarducci, in pensione da lavoro da un mese, scapolo e quasi solo al mondo, divideva un trilocale vicino alla stazione ferroviaria con un vecchio che non gli piaceva; tant’è, lo stipendio di prima e adesso a maggior ragione la pensione erano quelli che erano, dovendo bastare anche alla retta di sua sorella affetta di Parkinson, per la RSA. Si era dovuto adattare; con quel tipo non andava d’accordo salvo che per il gatto di casa. Romeo gliel’avevano regalato ancora cucciolo i vicini di ballatoio già battezzato in quel modo, e tutti e due se ne contendevano l’affetto.

– Il tempo era improvvisamente cambiato; aveva smesso di piovere e si era alzato un vento gelido che gli sfrusciava contro il bavero del giubbotto. Camminava a testa bassa e, svoltato l’angolo, alla fermata del bus dove sostava un grappolo di persone infreddolite, si scontrò con un passante che andava nella direzione opposta. – Oooh, ma che ha nella testa! – brontolò l’uomo che, barcollante, per poco non cadde per terra. Gino con voce rauca mormorò: – Mi dispiace signore.. è che... ero soprapensiero... vede, sono andato in pensione da un mese. – ... e allora?, stia più attento, no? – gli rispose l’uomo indispettito, prima di riprendere svelto la sua strada.

Al Dopo Lavoro Ferroviario, vicino al suo trilocale diviso con quel vecchio che non gli piaceva, c’era la società Bocciofila, un ampio salone con due campi di Bocce, molto frequentato. Lo scontro con il passante lo aveva come scosso, così decise che non fosse ancora l’ora di rientrare e vi si diresse. C’era entrato sì e no due, tre volte, perché il gioco delle bocce non gli piaceva, però si ricordava che tante di quelle persone non giocavano ma guardavano giocare, seduti sulle panche.

Su una di quelle panche c’era anche Angiolino un suo antico compagno di scuola, accanto ad altri due della medesima età con cui stava discutendo. Discutevano bonariamente di politica; Angiolino difendeva la sinistra, gli altri erano per la destra. Gino, dopo averli ascoltati, accennò di voler dire qualcosa anche lui, ma dalla gola ancora infreddolita gli venne solo un borbottìo. – Come hai detto? – domandò dei due quello con i baffi. Gino si schiarì la gola e torse la bocca in un sorriso: – Io non m’intendo di politica ma a me è andata bene... m’hanno mandato in pensione sapete... trenta giorni fa. – Ma che c’entra, tutti si va in pensione. – disse quello con i baffi. – ... ma lo sai quante ritenute t’hanno fatto pagare per la tua pensione? eh, lo sai?... non te l’hanno fatto il conto... – ... lo so, ma io ci stavo bene... ho fatto per quarant’anni l’operatore cimiteriale... – ah, ah, ah... tu vuoi dire il becchino? E come facevi a starci bene in mezzo ai morti? – chiese sarcastico il medesimo tipo con i baffi. I tre ripresero con l’argomento di prima, ignorando ciò a cui Gino stava tanto a cuore.

Il fatto è che l’avere abbandonato il suo lavoro gli era stato doloroso. Il cimitero era come il suo habitat; se glielo avessero consentito ci avrebbe anche dormito di notte. La cura delle tombe, dei vialetti, delle siepi era diventata la sua ossessione e il suo orgoglio. Al Cimitero Monumentale della Misericordia si sentiva come il padrone di casa; accoglieva la salma con riguardo e predisponeva tutto con cura. Se la tomba, dopo qualche mese tendeva a deformarsi per il cedimento naturale del terreno, faceva di tutto per sistemarla per quanto fosse possibile. Sostava compiaciuto davanti a certe cappelle gentilizie aggraziate di arcate ogivali e da pilastri neogotici. Spesso, finito il suo turno, si tratteneva in silenzio nella grande cappella pubblica, quella dedicata al Santissimo Redentore, di cui aveva la chiave.

Ora tutto ciò gli mancava; realizzava, sentendone un acuto disagio, che il traguardo della pensione era stato per lui come una perdita. Dopo pochi giorni aveva cominciato a percepire sensazioni di inutilità e di vuoto e adesso, in qualche modo, cercava di confondere quei sentimenti che, con il passare del tempo erano diventati sempre più dolorosi. E non era sufficiente per compensare quel vuoto, la sua passione per il canto gregoriano.

Aveva frequentato per lunghi anni la Cappella Musicale della Cattedrale, ma ultimamente se ne era staccato; pensava che adesso la chiesa cercando di rincorrere il mondo, stesse trascurando il canto gregoriano a favore di certe brutte melodie moderne. La scoperta della Messa settimanale con il Rito Romano Antico in quella piccola parrocchia gli aveva fatto enorme piacere.

Stava così pensando alle sue cose mentre gli altri tre pensionati, imperterriti, seguitavano a discorrere di Prodi e Berlusconi. Infine si alzò e prese lentamente ad allontanarsi quando si sentì chiamare da Angiolino: – Ehi Guido... ma dove vai?, aspettami vengo via anch’io. –

Fecero un po’ di strada insieme. – Ti vedo strano, non t’interessa per niente la politica? – Guido avrebbe voluto dirgli che più della cosa pubblica gli mancava il lavoro, il suo lavoro, ma non lo disse; d’altra parte lui non si era mostrato per niente interessato alle sue parole: – No, no, sono solo stanco, andrò a letto presto, m’è preso sonno Angiolino... buona notte. –

Poco dopo, quando vide il compagno di scuola ormai uscito dalla propria visuale, fece dietro front; non voleva che gli potesse chiedere come mai non si stesse dirigendo verso casaGli era venuto in mente di far visita a Gerardo, un senza tetto di sua conoscenza di origine moldava.

Gerardo era grande e grosso e aveva fatto il muratore fino a pochi anni prima ma adesso, anziano e quasi sempre malaticcio, nessuno lo chiamava più per qualche misero lavoro, sicchè si contentava di chiedere l’elemosina all’uscita delle Messe alla parrocchia di Santa Maria della Pace. Sotto le logge della stessa chiesa, lui ed altri come lui ogni sera distendevano il loro giaciglio.

La loro era diventata un’amicizia, un’amicizia strana nata tra i viali del cimitero; ma non lo vedeva da un po’. A Gerardo nei giorni di sole invernale o in primavera piaceva girellare tra quei vialetti; si soffermava davanti a certe tombe, magari colpito dall’espressione particolare di qualche defunto, commentava tra sé, tra l’ammirazione e il dispiacere l’avvenenza di certe giovani donne, si mostrava costernato davanti alle tombe dei bambini. Poi si sedeva su una panchina, ma non era triste; diceva che nel cimitero si sentiva bene.

Guido ci ragionava volentieri; avvertiva sintonia con quell’uomo più che con tante altre persone, le cosidette persone normali. Lo portava tra le tombe indicandogli, delle ultime tumulazioni, ciò che lo aveva colpito di più: – Pensa Gerardo... i nipoti di questa signora parlavano di sport mentre con la pala escavatrice riempivo la fossa... guarda quest’uomo ancora giovane; ho sentito che è morto per un tumore e che ha sofferto. Non voglio giudicare nessuno, chissà come sono andate le cose... ma la vedova non era certo sofferente e pareva aver tanta fretta... boh... –

Gerardo prima annuiva attento, diceva brevemente la sua, mai una cosa banale, ma poi volgeva lo sguardo nel vuoto; non era proprio un chiacchierone. A lui tuttavia, quando era meno melanconico, piaceva parlare della propria vita da giovane quando faceva il taglialegna nelle foreste della Moldavia e dell’Ucraina. Gli raccontò almeno tre o quattro volte, in maniera sempre uguale, di quando un giorno ebbe ad incontrare un orso a tu per tu, e di come fosse riuscito ad uscirne incolume: – Quell’orso sento adesso che vive in me... anch’io sono un vecchio orso... – concludeva sorridendo.

Guido viveva i momenti più piacevoli quando il moldavo, con la sua voce da basso, intonava certi canti religiosi in greco antico. Lui era di religione ortodossa e quei canti, al Guarducci che ricambiava da par suo con qualche brano del “Jubilate Deo”, gli erano completamente sconosciuti e lo affascinavano. Tra gli assorti visitatori del cimitero, e qualcuno rallentava anche il passo per osservare meglio quella strana coppia seduta sotto i pini del parcheggio, non avendo il Guarducci l’incoscienza di cantare sia pur sommessamente tra le tombe, alcuni sorridevano, altri inarcavano la fronte, perplessi.

Quella sera invece avrebbe voluto parlargli del suo stato d’animo, così inquieto e dolente come non mai. Ne aveva proprio bisogno. Sapeva che lui lo avrebbe ascoltato. Gerardo non aveva istruzione e non era un logorroico, ma almeno era persona che sapeva ascoltare.

Non lo vedeva da dieci giorni, da quando un mercoledì mattina, ed era una novità perché in passato nei giorni feriali lui era occupato dal lavoro, lo aveva portato in un bar a fare colazione. Ma il moldavo quella volta non mangiò quasi nulla, disse che non si sentiva troppo bene.

– Guido, arrivato in vista delle logge, buttò subito lo sguardo a quei monticelli che sembravano fatti di cenci, ma che invece celavano, rinvoltati per il freddo, degli esseri umani. Adesso aveva le mani vuote, ma altre volte non aveva mancato di portare con sé qualcosa di caldo e qualche dolce e non solo per Gerardo.

Il vento aveva cessato di soffiare ma in compenso aveva ripreso a piovere gocce lente e gelate. – Non mi ci sono ancora abituato a vederli così... con questo freddo. – pensò l’ex operatore cimiteriale. – Io creperei dopo qualche giorno... – Lui ci rimuginava ogni tanto; più di una volta era stato sul punto di invitarlo a dormire a casa sua, ma poi cambiava idea; il suo coinquilino, quella persona spiacevole come spesso gli veniva di definirlo, non l’avrebbe permesso. Ma subito dopo l’assaliva il dubbio che quella fosse in realtà un’utile e provvidenziale scusante: – Mi ritengo un cristiano, giudico gli altri quando in chiesa invece di cantare o pregare parlottano, mi sgolo con il “Te Deum”... e poi... –

Immerso in quei pensieri inquieti si era intanto avvicinato all’angolo dove abitualmente il moldavo sistemava il suo precario giaciglio. L’anziano senza tetto non dormiva molto, ma se l’avesse trovato già addormentato, non l’avrebbe svegliato. Al posto suo ne trovò un altro; lo conosceva, era un marocchino, si chiamava Said. L’uomo, coricato su un fianco si accorse della sua presenza e si girò dalla sua parte: – Tu sei Gino, vero? – mormorò piano, poi fece silenzio, guardandolo. Il Guarducci ebbe la strana sensazione di un’attesa, come di un qualcosa che lo riguardasse.

– Gerardo è nelle mani di Dio, Allah Akbar. – Gino capì subito che cosa voleva dire, ma non se lo aspettava. Le gambe gli si fecero molli e sentì il bisogno di accucciarsi sui talloni: – Come è successo?... quando? – Tre giorni fa... era già abbastanza tardi e lui non si alzava... lo sai che alle sette e mezzo bisogna fare pulito qui... era già rigido, penso che sia morto durante la notte, ma non di freddo... era ben coperto. ­–

Sul momento rimase muto e interdetto, poi si riprese e lo ringraziò pur non sapendo bene di che cosa. Forse del senso di solidale umanità che l’arabo gli aveva saputo trasmettere in quelle poche parole; non riuscì a nascondergli i propri occhi fattisi lucidi.

– Era ormai tardi e a casa vi trovò il vecchio coinquilino che, ancora alzato si stava facendo una camomilla. Il gatto che sembrava dormisse nel suo angolo si alzò di scatto e gli andò incontro strisciandosi sulle caviglie.

Non sentiva nessuna fame ed era esausto, quindi si avviò per andare a letto ma prima di chiudere la porta della sua camera, come se la morte del senza tetto, dal profondo del suo mistero gli avesse singolarmente smussato certe insignificanti e vecchie croste, con voce calma salutò: – Buonanotte Ezio. – L’uomo ebbe un impercettibile moto di sorpresa ma poi si volse verso di lui: – Buonanotte Gino –

Non era cosa comune per loro darsi la buonanotte e, prima di cadere nelle braccia di Morfeo considerò quella cosa come una sorta di lenitivo al suo malessere. In quella giornata aveva subìto male l’indifferenza della gente e solo alla fine di essa, insieme al dolore per la perdita dell’amico, aveva scorto alcuni barlumi di umanità, non solo nel marocchino ma anche in quel vecchio.

– Al mattino seguente Guido seppe che il corpo di Gerardo era stato tumulato nel cimitero comunale a spese dell’amministrazione. L’uomo aveva documenti con sé e il permesso di soggiorno prorogato di anno in anno in forza del suo vecchio mestiere di muratore quindi, sulla povera tomba ancora fresca di terra smossa vi trovò scritto il suo vero nome: Ion Munteanu.

La giornata era di un bel sole freddo e splendente e nei pressi vi aveva trovato una seggiolina di quelle ripiegabili, così vi sostò a lungo, contemplando ciò che era rimasto del suo amico. Sotto alla spartana croce di legno vi aveva deposto un vaso con dei fiori freschi.

– Certo che alla Misericordia tu ci stavi meglio Gerardo... ma non è poi tanto male... guarda, il sole è lo stesso... – Dopotutto il suo amico non era mai stato di troppe parole e la conversazione si stava sviluppando quasi nello stesso modo di sempre. Mormorava a voce bassa, non volendo attirare troppo l’attenzione; quel quadro era fatto di tombe fresche e vi sostavano diversi visitatori.

Gli parlò allora del vero motivo della visita della sera precedente sotto le logge della chiesa “Della Pace”. Si accorse tuttavia che il suo malessere, quel fantasma che in quel mese lo aveva fatto star male, dal momento in cui aveva avviato ad argomentarne le cause e gli effetti, sicuro che Gerardo lo stava ascoltando, stava facendo dei passi indietro.

Il giorno successivo ritornò alla tomba di Ion Munteanu ancora più sollevato. Il giorno dopo ancora gli sembrò di vedere le cose con altri occhi, occhi positivi di chi non dovesse più guardare al passato, ma al futuro, un futuro di speranza. Si convinse che quello sguardo nuovo fosse frutto dell’ascolto saggio di Gerardo e di certe sue concise parole di sapienza, il cui suono grave di moldavo gli pareva di sentire nel profondo del cuore.

– Allora, non importandogli di essere osservato, slungando il collo magro come volesse far arrivare il suo canto fino al cielo, non resistè alla voglia di intonare l’antico canto di esultanza: – ... Exsultet iam angelica turba caelorum... –

  – fine –

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