CASA DI PIETRA

CASA DI PIETRA

 CASA DI PIETRA

– Castagneti, case di pietra, ponti di pietra. Questa era Rasora in quegli anni in cui niente pareva mutare se non le stagioni che si rincorrevano. Generazioni simili l’una all’altra e consuetudini immobili da secoli. L’appennino tra le valli bolognesi e toscane, pievi e santuari, un’economia povera, di quello che a Goethe era apparso come un “curioso lembo di mondo”

In quel borgo di pietra senza tempo, in quella casa fumante affacciata alla radura, la famiglia di Giuseppe Nucci. L’orto dava scarso sostentamento e anche se le castagne provvedevano a smorzare il disagio della fame, le femmine Nucci erano magre e sottili. La più grande, Luana, era la più pallida e la più bella. Era una bellezza malinconica che non aveva tempo di considerarsi in alcun modo.

Ci voleva del tempo per fare il bucato, stenderlo al sole, pulire la casa, accudire alle poche galline insieme alle sorelle più piccole. Con la mamma malata era tutto sulle sue spalle da tempo e la domenica sarebbe trascorsa in fretta. – Tra un mese potrò fare di nuovo il bucato. – pensò malinconica; prima dell’alba l’avrebbero accompagnata a Ca’ di Landino.

Non era sicura di aver fatto bene e anche Umberto, il suo “moroso” aveva storto la bocca, ma che altro poteva fare? Suo padre, pur affetto da una forma leggera di silicosi come tanti che avevano lavorato alla “Direttissima” era partito per la Corsica e di lui era arrivata solo una letteruccia.

– Alba, mi hanno detto che starò via quattro mesi... poi torno. – aveva detto quella mattina triste d’inverno prima di partire. Poi si era rivolto alla maggiore: – Luana... – ma non gli era riuscito di finire la frase; gli occhi gli si erano fatti lucidi. Padre e figlia si intendevano a sguardi, così lei aveva annuito commossa.

Il mestiere di carbonaio era duro e, come altri carbonai, sapeva che doveva adattarsi a partire per posti lontani come la Maremma o il Casentino. In Corsica no, non ci era mai stato, avevano detto che lo avrebbero pagato bene. Ma dopo un anno era ancora là.

In casa non c’era più una lira e da settimane non si comprava un po’ di magro per fare il lesso. Nella broda la mamma faceva galleggiare qualche sopravissuto fagiolo insieme alle patate; ma che pena le due magre sorelline.

Era passato il Pazzaglia di Castiglione, una specie di sensale, dicendo che a Prato cercavano una donna di servizio per una famiglia di industriali: – Te la senti Luana? Potrai sfamare le tue sorelle e una volta al mese hai diritto a tre giorni. – Lei e mamma Alba ci avevano pensato tutta una notte e, pensandoci avevano pianto. Ora era venuto il momento.

L’acconto che la famiglia benestante le aveva mandato attraverso il Pazzaglia era stato un viatico che le fece sopportare meglio quel sacrificio. Era ancora buio quando abbracciò forte la sua mamma che fece di tutto per non farsi vedere in lacrime e poi baciò le due sorelline ancora immerse nel sonno.

L’uomo durante il breve viaggio alla stazione le fece delle raccomandazioni: – ... loro sono dei signori veramente squisiti, sono sicuro che non mi farai fare una brutta figura. –

Così, scesa dalla Giardinetta Fiat del sensale, sola, entrò nella stazione. Luana Nucci che in vita sua aveva appena visto Castiglion de’ Pepoli, Lagaro e Montepiano una volta, non aveva ancora diciott’anni anni e un mondo affatto nuovo la stava aspettando.

Fu accolta, all’imbocco delle scale, come da un gelido abbraccio, un enorme e freddo vento che risaliva dalla galleria sottostante trecento metri. La ripida discesa per la stazione sotterranea “delle Precedenze” era lunghissima, pareva non finire mai; per quasi un’ora fu come scendere nelle viscere della terra e ne ebbe una sensazione mai sentita prima, un qualcosa che le stringeva l’animo e le opprimeva il giovane petto. Una donna che, come lei, aveva da prendere la Littorina per Prato le disse che il numero degli scalini fosse maggiore di 1800: – Davvero è la prima volta che vai a Prato?... uuuh che confusione a Prato! –

Il treno su cui infine salirono in pochi, ripartì subito. Si accucciò appoggiando la testa al vetro umido. Buio quasi completo; solo delle linee bianche che zigzagavano in quel buio e qualche luce elettrica qua e là. Ripensò alla sua casa di pietra grigia.

La luce del giorno di un’alba ancora noiosa le apparve improvvisa. Alla stazione di Vernio raggiunta in meno di mezz’ora salirono molte persone, quasi tutti uomini che si recavamo al lavoro. Davano l’impressione di conoscersi e parlavano tra di loro nel modo che ricordava aver sentito a Montepiano, un paese non lontano da Rasora dove vi aveva trascorsa una domenica di sole con la sua famiglia; un ricordo molto dolce. Suo padre Beppino aveva insistito per portarle tutte alla festa di quel paese.

Due uomini, attratti dalla sua freschezza e dal suo aspetto di nuovo e di spaesato le si misero vicino sbirciandola, poi uno di essi le si rivolse con qualche parola galante. Quella pronuncia così diversa le piaceva, così, rispondendo ad una sua battuta, la ragazza rise.

A Vaiano salì una donna che teneva in braccio un bambino ancora in fasce e che stava cominciando ad allattare. Quando il treno con qualche scossa si mosse, il bambino che era mezzo addormentato, prese a piangere.

Monti che non conosceva correvano a lato del treno spartendosi in altre valli e vallette. Gente che viaggiava con lei, i due uomini essendo già scesi, volti sconosciuti e assorti, che solo di rado la guardavano distrattamente.

Ad un tratto si ricordò del foglio con l’indirizzo che le aveva dato il Pazzaglia e lo trasse fuori dalla scollatura: Cav. Nesti Ugo, via Del Palco, 41. Ne ridisse a voce bassa il nome e poi lo sillabò lentamente come se ne volesse estrarne il senso. Intanto le case si venivano raffittendo; parevano serrarsi addosso al convoglio come a frenarne la corsa.

Sobbalzando di nuovo e fischiando, il treno si fermò infine alla Stazione centrale della città. Qualcuno aveva aperto lo sportello ed altri, sulla banchina, si erano messi in disparte per farla scendere.

Scesa gli scalini del vagone toccò infine quel marciapiede che l’avrebbe condotta verso una nuova vita; le tremolavano le gambe. Fuori l’aria, insieme all’odore penetrante di ruote oliate e di rotaie aveva una frizzante dolcezza. Era un inizio d’estate insolitamente fresco anche in quella città.

Glielo aveva detto il Pazzaglia; da Piazza Stazione avrebbe dovuto andare verso la montagna e poi seguendo la strada principale camminare verso sinistra per almeno venti minuti; da lì avrebbe dovuto chiedere.

Aveva una valigia leggera, era giovane e quello che andava osservando durante il tragitto non le dispiaceva; case signorili, bei giardini e persone ben vestite. La villa al numero 41, anch’essa circondata da un giardino ben curato, le sembrò molto bella.

La aprì la signora in persona, a cui Luana apparve come una ragazzina disadorna ma dal volto ravviato e dolce, e che la guardava incerta: – sììì, che desidera? ­– scusi, è questa la casa del signor Nesti? – Luana spiccicava le parole a fatica, ma quando pronuciò il nome del Pazzaglia, la signora capì e la fece entrare.

– Erano ormai trascorsi quasi due mesi da quel giorno e soltanto tre settimane avanti, facendo il viaggio a ritroso, aveva rivisto la sua famiglia e la sua casa di pietra. Quei tre giorni e mezzo, a parte gli angosciosi 1800 scalini erano stati molto belli.

Ricordava che in quella terza domenica di agosto a Rasora c’era stato un avvenimento importante. Tutti gli abitanti di quel paese ma proprio tutti, si erano ritrovati davanti ad un’austera costruzione a due tetti, anch’essa in pietra, per inaugurare la “Casa del Popolo”. La festa, dopo qualche discorso del sindaco di Castiglion de’ Pepoli e la benedizione del parroco si era protratta fino a sera tardi a forza di infiniti valzer e di mazurche, al ritmo della fisarmonica, di chitarre e un contrabasso. La gente di montagna, ma anche quella di città, dopo la fame e i disagi della guerra ancora nella memoria di tutti, aveva voglia di divertirsi con la “filuzzi” come si chiamava allora il ballo liscio bolognese.

Luana, dopo aver accompagnato la mamma e le sorelline a casa, era tornata sul luogo della festa. Qui aveva ballato a lungo con Umberto. Si conoscevano fin da bambini e subito dopo la guerra, ogni mattina andavano a scuola insieme prendendosi per mano. Per tutti era scontato che si volessero bene e che in futuro avrebbero formato una famiglia. Umberto non era contento del lavoro di lei come donna di servizio: – ... ma quel padrone com’è?... dimmelo eh... se ti da qualche fastidio, vengo là e... –

Fece il gesto minaccioso con il pugno, ma i suoi occhi erano allegri. Scoppiarono a ridere tutti e due. Poi, dopo l’ennesimo valzer scomparvero dietro un boschetto. Facevano l’amore da un po’ tempo e si sarebbero sposati, dicevano, quando Umberto che lavorava come ferroviere, sarebbe stato trasferito alla stazione di San Benedetto Val di Sambro. Suo padre era stato una delle novantanove vittime dello scavo della grande galleria. Prima della guerra la miseria era stata grande e la gente andava a lavorare alla “Direttissima” per necessità, non essendoci altre possibilità di lavoro al di fuori dell’emigrazione e della povera agricoltura di quelle montagne. Così per lui, la direzione delle ferrovie aveva avuto un occhio di riguardo. Al mattino dopo il ferroviere con la sua moto Guzzi di cui andava fiero, l’avrebbe accompagnata a Ca’ di Landino.

– Adesso, arrivata ormai a metà settembre, Luana Nucci ripensava alla sua circostanza. Non poteva dire di trovarsi male. La signora era stata molto comprensiva e le aveva spiegato con pazienza quali erano i suoi compiti. Aveva poco tempo per sé, a parte il sabato pomeriggio libero. Lei mangiava per conto suo in camera dopo aver cucinato, servito a tavola, sparecchiato e rigovernato.

Ma era una famiglia strana. Si ricordava del giorno del suo arrivo; il signor Nesti era fuori Prato e in casa c’erano solo i due figli con i quali fece conoscenza. La figlia minore di tredici anni si era tenuta molto sulle sue e le sorrise appena. Anche il figliolo di diciassette anni le fece una sgradevole impressione; ben in carne, alto e un po’ ringobbito per la sua età, all’inizio fece fatica a guardarla. Ma poi durante quello stesso giorno e ancor più nei giorni seguenti Luana non cessò di sentire di esserne osservata.

La prima notte non era riuscita a prender sonno facilmente; si sentiva sola con la sua stanchezza fisica, dalla quale i pensieri che faticava a seguire, scaturivano spezzettati. E quando finalmente ne fu vinta sognò suo padre Beppino tutto nero e triste in mezzo a un grande campo di carbone.

– Ormai si era ambientata, svolgeva bene le sue incombenze e la signora ne era contenta. Il padrone, il cavalier Nesti con cui aveva scambiato, sì e no, qualche parola, stava poco in casa. L’industriale tessile aveva la manìa delle camice bianche ben inamidate, il solo compito che non le piaceva.

Ma era la presenza di Augusto, questo era il nome del ragazzo che, nelle prime settimane l’aveva resa spesso inquieta. Seppe che rendeva nervosi anche i suoi genitori specialmente il padre che non sopportava la sua vagabondaggine. È vero che aveva dei “problemi di nervi”, ma aveva abbandonato la scuola l’anno prima e non si decideva a cominciarne un’altra: – Non t’è piaciuto il Cicognini eh?... a fare i cannelli ti metterei! – un giorno sentì urlare in questo modo il Nesti.

Alla fine degli anni ’50 durante i quali si svolgeva questa storia, i “problemi di nervi” erano incompresi e confusi con altri tipi di fragilità o di difetti, come quello di non aver voglia di lavorare o di studiare. In realtà il ragazzo soffriva molto, non sapendo neppur lui a che cosa dovesse il piacere per la sua sofferenza. Luana, la cui camera si trovava nello stesso corridoio di quelle dei figlioli e attigua a quella del maschio, sentiva a volte dei singhiozzi.

– ... lo sai icchè si fa?... tu vieni in fabbrica con me, te lo fo garbare io il Nicastro. – gli diceva ancora il suo babbo alterato. – ... ma via, Nello, ci sta pensando, vero Augusto che tu ci stai pensando? – perorava la signora per lui.

Il ragazzo aveva accennato di voler andare al “Nicastro”, ma ormai le iscrizioni erano chiuse e lui, quando non se ne andava in giro con il “motom”, passava le giornate in camera sua a sfogliare giornalini e riviste. Usciva di rado avendo poche amicizie, e di sera tardi. Mangiava a tutte l’ore e Luana se lo ritrovava d’un tratto in cucina senza averlo sentito arrivare. In silenzio apriva il frigorifero nuovo e beveva “a boccia” il latte, guardandola sottecchi. Oppure la fissava da dietro con insistenza e senza dir nulla.

Ad Augusto, da quando era arrivata lei gli si era aperto un mondo nuovo che si accompagnava e si intrecciava in un confuso connubio con i suoi soliti fantasmi. La sua vita sessuale da maturo adolescente che si era alimentata fino a quel momento di qualche giornaletto un po’ spinto nascosto tra i libri di scuola, adesso traeva nuove ispirazioni dalla presenza di Luana. Il goffo grembiule di canapa stretto alla vita della ragazza che pure aveva un corpo snello, non riusciva a nasconderne le aggraziate sinuosità. Lei faceva finta di nulla ma ne sentiva benissimo addosso lo sguardo, e ne avvertiva allo stesso tempo un vago disgusto e un filo di indefinibile eccitazione.

Da quando era a servizio in quella casa mangiava bene e le forme della ragazza s’erano rese più sciolte, acquistandone più grazia. La signora le aveva comprato un vestitino o due, semplici ma meno dimessi del suo e, dopo meno di due mesi, un leggero ritoccarsi, un istintivo conformarsi alla sua bellezza naturale la facevano più donna.

– A volte, sentendo girare la chiave nella porta di casa, durante il primo sonno si risvegliava. Rimaneva a occhi spalancati nell’oscurità seguendo il cauto avvicinarsi di Augusto alla porta della propria camera e poi i suoi passi nella stessa stanza. Dava immagine ai rumori che vi udiva, raffigurandoselo confusamente mentre entrava sotto le lenzuola e poi mentre si girava più volte facendo cigolare in modo strano il suo letto, e in quei momenti le si affacciavano i ricordi di Umberto, il ragazzo del circolo di Rasora, i suoi baci, le sue carezze. Ma dopo i rumori si smorzavano e finivano di spengersi nel buio, e con il silenzio le ritornava il sonno, un sonno liscio e profondo.

Una mattina Augusto dopo la solita e avida boccata di latte, dopo aver chiuso il grosso frigo, vanto in quegli anni di poche famiglie, le si accostò con un’altra bottiglia ancora intonsa: – Ne vuoi un po’? –

Le sorrise; era la prima volta che le si rivolgeva. Lei arrossì, meravigliandosene, e si fermò un istante dall’attività di quel momento levando lo sguardo sul ragazzo. La cipolla tagliata fine sul tagliere le aveva inumidito gli occhi, come fosse commossa. Le venne da ridere mentre tentava di asciugarseli con il grembiulino di cotone.

Il ragazzo rise anche lui e nel farlo scoprì dei denti bianchissimi che Luana non aveva ancora visti in quel modo. Pensò che insieme alla sua leggera pinguedine Augusto non avesse alcun altro tipo di bruttezza; anzi i suoi occhi ridenti, benché piccoli, illuminandolo lo rendevano dolce e piacevole. Rispose che aveva già fatto colazione così riprese, ancora con un leggero sorriso rimastole come stampato, ad ondeggiare la mezza luna sul tagliere. Lui si trattenne un po’ lì in silenzio, poi uscendo come incerto si fermò; voltandosi fece un lungo respiro, come a rattenere l’odore del soffritto che aveva cominciato a sfrigolare. Infine la salutò: – Ciao Luana... – Ciao – rispose la ragazza mentre girava il mestolo; e gli dette una prolungata occhiata.

Adesso la presenza di Augusto non la rendeva più inquieta come nei primi giorni, anzi, ne provava come un moto di simpatia. Dopotutto erano coetanei, lui più giovane di sette mesi, e ne aveva scorto negli occhi come un lampo di disperata inquietudine.

Invece il cavalier Ugo ne era sempre più esasperato: – ... teee, tu hai le spalle tonde... guarda il tu’cugino; passa tutto il giorno in fabbrica... e va anche dai clienti... ma icchè t’avrai in codesta testa! –

La signora che, davanti al marito lo difendeva minimizzando, poiché ne scorgeva la malinconia andava in camera sua per cercare di scuoterlo: – ... se non vuoi più studiare ma perché non vai a dare una mano a tuo cugino in ufficio come dice il babbo? – Ma lui pareva non sopportare più quei discorsi, tantomeno quelli fatti da lei.

Oppure, come quella sera di ottobre, vedendolo più sofferente del solito: – Amore, perché domani non fai una girata in bicicletta o non vai a piedi su verso il Chiesino di Cavagliano? – Il ragazzo le si rivoltò contro con rabbia sorda e le disse di lasciarlo in pace.

Luana dalla sua camera sentì tutto e gli fece pena. Dormì male come non le era più ricapitato dalla prima sera; si voltava e rivoltava nel letto portandosi ora da una parte ora dall’altra; e quell’affondare e l’agitarsi tra le lenzuola le dette per la prima volta l’impressione di stare imparando come fosse complicata la vita. Nel cuore della notte risentì quei singhiozzi, questa volta così alti da svegliarla dal suo sonno leggero. Si mise a sedere per ascoltare meglio, ma poi tornò a sdraiarsi. Si appiattì sotto le lenzuola per sottrarsi ai rumori e allo sgomento che le procuravano. Pensieri presero a sfilarle dinanzi al chiarore tenue del proprio abat jour; ogni pensiero s’animava come quando da bambina dava colore a tutte le fantasie che le passavano per la mente. Ascoltava il proprio respiro e si accorse che in quei colori Umberto era assente; alla fine si alzò. Uscì scalza nel corridoio e accostò un orecchio alla porta di Augusto. I singhiozzi erano accompagnati da un tenue gemito.

– Augusto, Augusto... che cos’hai? hai bisogno di qualcosa? – Mormorò piano la ragazza chinandosi. La porta non era chiusa a chiave e si era decisa. Lui era disteso bocconi e non l’aveva sentita entrare; fece uno scossone e la guardò come inebetito. Si girò supino appoggiando il capo alla spalliera; faticava a credere a ciò che stava vedendo: – sei te?... sei proprio te? – Fece il gesto di stenderle la mano e lei che si era rialzata gliela prese per qualche istante: – Ho sentito i lamenti... – esitò. – Vuoi che vada a farti qualcosa di caldo? –

Lui non rispose. Aveva sognato tante volte, nelle sue lubriche immaginazioni delle prime settimane, immaginazioni che via via si erano fatte più tenere, di trovarsi solo con lei come in quel momento, ma adesso il solo effetto che suscitava la sua presenza era la vergogna di mostrarsi in quel modo.

Si girò dall’altra parte affondando il viso in un’inesplicabile pianto appena sommesso. Luana non sapeva che cosa fare; esitò ma poi si sedette appena sulla sponda del letto e gli fece una carezza sui capelli che aveva ricci e mori.

Fu pervasa da un’imprevista tenerezza, infine si alzò e tornò in camera sua, ma non riuscì a riprendere sonno. Riconobbe, ripensando agli ultimi giorni trascorsi in quella casa di aver provato un misterioso pudore ad ogni sguardo col quale egli le si rivolgeva, un pudore dolce e ignaro. Ricacciò quei pensieri.

Il giorno seguente notò che il ragazzo avesse un aspetto meno sofferente. Quando gli porse il piatto a pranzo il suo viso era disteso e chiaro. Durante quella settimana le sorrise più volte e la seguiva con lo sguardo.

– Una sera, non ancora addormentata, sentì un fruscìo alla porta; d’acchito pensò al gatto di casa che si strusciava qua e là, ma poi uno scricchiolare levissimo la fece di nuovo trasalire; al fruscìo si unì una voce bisbigliata e roca: – Luana... Luana... – Riconobbe la voce e sbiancò; andò alla porta socchiudendola ma lasciando la catenella che ne impedisse l’apertura: – che vuoi Augusto? – aprimi, ti prego... aprimi. –

Era confusa, non si aspettava che sarebbe arrivato a bussare alla sua porta di notte; al contempo ricordava la pena che aveva provato per i suoi singhiozzi. Mise addosso la vestaglia e lo aprì.

Augusto entrò barcollante e le si mise in ginocchio: – Luana, aiutami, non ne posso più – Lei prima guardò fuori del corridoio e poi chiuse la porta. Augusto da quella posizione le abbracciò le gambe chinando la sua testa ricciuta sui piccoli piedi, poi fece il gesto di volerglieli baciare.

– Ma che fai? – disse piano atterrita. D’istinto lo spinse via, facendolo cadere disteso sul pavimento. Augusto non fiatò; gemendo pareva voler rimanere per sempre in quella posizione: – ... quella carezza Luana... – mormorò. – perché allora?... io ti amo Luana... – Augusto esci subito o mi metto a urlare... esci! – Perentoria gli aprì la porta e lui che era venuto ad elemosinare una carezza, come barcollando, se ne uscì a mani vuote.

Appena Luana rimase sola quella sua indignazione si spense. Provò invece un senso che sapeva di qualche delizia, ma segreta.

– Il giorno dopo Augusto non osò neppure guardarla. Era triste, così corrucciato da parere che si sentisse molto male. Disse di non aver fame e si sedette in un angolo del divano da dove, a capo chino, non si mosse per un bel pezzo. I suoi genitori stavano discutendo d’altro e non ci fecero caso, e poi erano rassegnati ai suoi sbalzi d’umore. Poi lui aggrottò la fronte come assalito da un dolore fortissimo e cominciò a stropicciarsi ripetutatamente gli occhi.

Mentre stava sparecchiando, Luana che lo osservava sottecchi ebbe chiaro che quella infatuazione non fosse uno scherzo; capì che Augusto già molto fragile di suo, a causa della sua presenza si stava ammalando per davvero, e ne ebbe come un senso di colpa e di timore.

Decise che avrebbe trovato il momento di parlargli seriamente; gli avrebbe detto che no, che non è possibile. Gli avrebbe anche detto che lei voleva bene a Umberto. Nella sua voce ci sarebbe stata una forza alla quale difficilmente avrebbe potuto sottrarsi e lui si sarebbe scosso da quella fissazione. – Sì... per il suo bene... –

Allo stesso tempo sentiva che l’atteggiamento del ragazzo la riempisse di una sottile soddisfazione. Ma si tranquillizzava pensando che non ci fosse nulla di male nella consapevolezza di esser bella e desiderabile, tanto più, ne era sicura, che quella tensione sarebbe cessata presto, una volta si fosse spiegata bene.

– Quella stessa notte, piuttosto sul tardi temendo di esser sentita dalla sorella della cui fanciullesca malignità sentiva di dover diffidare, con le unghie bussò pianissimo alla porta del giovane Nesti. Così piano che dovè riprovare altre due volte. Alla fine Augusto, ancora tra il sonno ma meravigliatissimo, aprì. – ... Sssssc... – fece la ragazza facendo anche cenno con il dito. Lui era a quasi nudo ma la fece subito entrare non nascondendo la sua confusa gioia nel vederla. Lei vedendolo discinto in quel modo provò un’intima ma piacevole vergogna. Pur scossa da quegli incerti brividi riprese il controllo di sé e decise di non mettere tempo in mezzo: – Senti Augusto, sono venuto per fare chiarezza... – attaccò.

Lui intanto si era messo la maglietta e le mostrò la sponda del letto come per invitarla a sedere. Il volto di lui, che era stato così sofferente in tutto quel giorno sembrava trasfigurato; pareva a poco a poco distendersi come colto da un improvviso benessere. Lei indugiò, ma poi si sedette: – Vado via subito... oggi non ho trovato il modo di dirtelo... –

Sentì il bisogno di giustificarsi, parlava con enorme fatica; riprese fiato: – ... ma tu devi smetterla Augusto... io a Rasora ho un fidanzato... capito? – Lui la guardava ma pareva non sentisse. – Hai capito Augusto? – ripetè questa volta alzandosi e portando le braccia alla vita per ravviarsi la cintura.

Luana, pensando di aver detto quanto le premeva di dire ritenne fosse il momento di avviarsi verso la porta, ma non si mosse. Era come impietrita e come stupita del batticuore che non le dava tregua. Improvvisamente, ebbe l’idea che bastasse abbandonarsi a quel pericolo per immergersi in una felicità che avrebbe estinto tutti quei turbamenti. La soverchiavano un bisogno e un desiderio pauroso.

Augusto che si era alzato anche lui, sentiva il suo respiro affannoso, ne individuò il colmo del giovane petto sotto la vestaglia, guardò le braccia che sollevandosi mostravano lo scavo bianco dell’ascella e l’ombra d’una leggera pelugine. Allora le posò le mani sui fianchi, le aprì la vestaglia. Non osava carezzarla, rimase a guardarla per qualche istante lasciandosi sopraffarre dall’emozione, fino a quando non si sciolsero in un abbraccio tremante. Lei, con un trasalimento inaspettato ad ogni respiro, sentiva il turgore della propria carne rispondere al contatto delle sue dita, mentre le loro labbra scivolavano le une sulle altre, umide e fresche.

Si amarono tutta la notte e parlarono. Sottovoce si dissero tutto di loro stessi, della felicità di lui, di quanto gli paresse di essere come in paradiso. Della meraviglia di lei che non credeva di amarlo così; di quanto quel sentimento che aveva cercato di reprimere fosse sgorgato per forza propria, tanto gli pareva adesso così grande che mai avrebbe potuto soffocarlo.

Nei momenti di silenzio si ascoltò; stupori inaspettati s’allargavano in lei di mano in mano che le ore passavano. Ogni tanto non poteva fare a meno di pensare a Umberto ma poi, vinta dalla tenerezza per quel ragazzo che aveva giudicato strano e che invece adesso vedeva con altri occhi, tornava a sussultare presa da un piacere carnale che sentiva essere, e ciò la inquietava un po’, come vergognoso e profondo.

– Nei giorni seguenti faticavano per non far trasparire la loro gioia, ed ogni notte giacevano insieme, appiccicati ed esausti, l’uno nelle braccia dell’altro. Lei si accorse ancor più, accedendo ai tormentati meandri del suo animo, della sensibilità eccessiva di questo ragazzo. Tutto lo poteva far felice purché fosse autentico, e tutto lo feriva a cominciare dall’ipocrisia. Luana seppe con meraviglia che la signora Nesti aveva una relazione con l’amministratore dell’azienda, più giovane e meno rozzo del cavalier Ugo. Augusto lo aveva scoperto per caso e ciò aveva contribuito in modo determinante ad alterare il suo delicato equilibrio: – ... anche il babbo deve aver qualche donnetta, ma non ne sono sicuro... – aggiunse poi con un filo d’amarezza. Per lui però era l’insopportabile ambiguità della mamma che lo feriva di più; era come un doloroso tradimento nei confronti dell’idea materna coltivata in lui fin dalla tenera infanzia.

Luana ed Augusto, non potendo continuare in quel modo, dormendo poco e con la paura di essere scoperti, abbreviarono e diradarono i loro incontri, fino a che alla ragazza toccò, con combattuto dispiacere, di tornare a Rasora, ma con una settimana di ritardo.

Umberto che si aspettava di vederla la settimana precedente non c’era. Aveva una missione di lavoro a Bologna e Luana tirò un sospiro di sollievo. Suo padre non aveva ancora dato notizie sicure di sé; in compenso, grazie al suo lavoro le due sorelle e anche la mamma avevano ripreso un buon aspetto e, a parte il rincrescimento per la sua lontananza non meno di quella di Beppino, erano contente.

Passò un altro mese e poi un altro ancora durante il quale Augusto, a parte la gioia intima e nascosta che lo faceva aspettare con trepidazione la sera e poi la notte, meravigliava i suoi genitori. Non passava più rabbuiato le sue giornate rinchiuso in camera, tantomeno sciogliendosi in pianti e singhiozzi sommessi, mangiava meno a tutte l’ore, non camminava più curvo. Sorrideva perfino al signor Nesti non riuscendo ancora a fare altrettanto con la sua mamma; comunque sembrava un altro.

Un certo giorno chiese al babbo che avrebbe voluto, anche lui come il cugino Duccio, venire in fabbrica. – Sei sicuro Augusto?... non mi pare il vero... – Lo guardò con un misto di contentezza e insieme di diffidenza, ma nei giorni a seguire ebbe a dissipare i suoi dubbi. Era puntuale, si sforzava di ambientarsi e di capire il meccanismo di quei commerci e infine dava il suo contributo. I genitori erano al settimo cielo: – Hai visto Ugo... icchè ti dicevo... il nostro Augusto gli è bravo... tu vedrai... ti darà soddisfazione... –

– A Rasora quel sabato Luana ebbe il coraggio di parlarne a Umberto; gli disse subito che aveva il cuore occupato da un altro amore. – Me lo sentivo... me lo sentivo... quel vecchio porco... lo ammazzo! – Il giovane era infuriato e non la lasciava parlare. – Non è vecchio, ha più o meno la nostra età Umberto... – riuscì infine a dire Luana, singhiozzando. Umberto la guardava meravigliato: – ... e che cos’ha questo più di me, eh? dimmelo... dimmelo. –

Non gli venivano le lacrime e urlava. Urlava che non era giusto, che lei gli apparteneva. La ragazza non osava guardarlo negli occhi e piangeva in silenzio senza replicare. Poi lui tacque e, calciando con rabbia certi rami secchi sparsi per la strada come a scacciare quel dolore, si allontanò a capo chino. Furono giorni tristi, sentendosi dilaniata e dispiaciuta, ma sentiva con certezza che era Augusto il suo amore e la sua passione.

Tornata a Prato l’improvvisa e inaspettata bufera. O meglio lei si aspettava succedesse qualcosa del genere prima o poi; la sorella da tempo li guardava in modo strano. Luana non sempre portava a tavola le pietanze, a volte lo faceva la signora. Diceva che la ragazza non ce la facesse a far tutto da sé; anzi invitava la figliola a dare una mano anche lei: – Deanna, potresti almeno sparecchiare... che ci vuole. – È vero Deannina, ormai sei una donnina... – rimarcava il signor Nesti.

Luana sapendo di lei quanto non avrebbe dovuto sapere, si stupiva di come i due coniugi, di fronte ai figlioli apparissero concordi, benchè non avesse mai notato tra loro un minimo gesto d’affetto.

Ma quella “donnina” frequentava certe sue amiche le cui famiglie avevano ben tre persone di servizio; non le piaceva di far la serva ma, ogni tanto e di malavoglia, doveva sottostare a quell’invito e ne dava la colpa a “quella”. E poi se n’era accorta. La sua camera confinava con quella del fratello e una notte, di solito dormiva tantissimo, si svegliò per una certa uggia alla pancia. Sentì dei lievi sussurri e dei gemiti soffocati. Uscì scalza nel corridoio e appoggiò l’orecchio alla porta; aveva già una certa malizia e capì. Un giorno, dopo aver sparecchiato con più stizza del solito, lo disse alla mamma.

– Ed io che mi fidavo di te... ti abbiamo accolto come una figliola... ma che cosa speravi... – I due coniugi furono concordi nella decisione. Il mattino seguente Luana era sulla banchina della Stazione Centrale ad aspettare per l’ultima volta la Littorina diretta a Bologna. Rispetto all’andata aveva un piccola valigia in più che benevolmente la signora le aveva concesso per infilare i due vestitini regalati e qualche altro effetto personale.

Nessuno di quella casa lo avrebbe forse mai saputo, ma Luana aveva ben altro bagaglio da riportare a casa che non quelle povere cose. Ci stava pensando da vari giorni e anche a Rasora, durante il burrascoso litigio con Umberto, quel pensiero l’aveva seguita continuamente. Adesso ne era quasi sicura. A meno di un miracolo stava portando in grembo l’inizio di una creatura nuova. La creatura che era anche quella di Augusto, il suo fragile amore che non sapeva nulla, né di ciò, né dell’improvviso e crudele benservito. Egli da giorni era a Milano dove aveva accompaganto Duccio ad una esposizione.

– Gli diranno che mi hanno trovato a rubare o che ho cercato di picchiare Deanna... sono abituati a dire bugie, specialmente la signora. – pensava avvilita mentre il treno stava imboccando la Grande Galleria inoltrandosi nel ventre scuro della montagna. Il rumore cupo e amplificato delle rotaie le parve allora pauroso, come paurosa le sembrava che sarebbe stata la sua vita da quel giorno in poi. Pensò, con le lacrime agli occhi che le scendevano copiose, che mai avrebbe cercato Augusto, che mai avrebbe mendicato il suo amore se lui stesso non l’avesse cercata.

Allora sì, la paura che aveva intravisto avrebbe ceduto il posto alla felicità. La sua fantasia galoppava; suppose che, se Augusto l’avesse cercata i suoi l’avrebbero potuto come ripudiare e scacciare di casa. Allora sì che sarebbero stati felici insieme e per sempre nella sua casa di pietra. Augusto che amava le cose autentiche l’avrebbe abbellita e ammodernata ma senza rinunciare alla semplice bellezza di quella costruzione in pietra grigia, alla freschezza dei prati intorno, perfino agli stalli degli animali. Il loro bambino vi sarebbe cresciuto felice.

In quegli istanti il treno si fermava sbuffando, interrompendo quel sogno, alla stazione delle “Precedenze”.

L’aver fatto i 1800 scalini appena due giorni prima anche se in discesa, la colpiva. Pur all’oscuro del proprio destino, le pareva di essere arrivata lei stessa come su un binario scambiatore, uno quei binari da cui dipende la direzione della propria vita.

– Dopo sette mesi nacque Giuseppe. Gli volle mettere lo stesso nome di suo padre Beppino che non era più tornato a casa. In Corsica aveva contratto la malaria ed era stato sepolto nel cimitero di un oscuro villaggio dell’entroterra. Quel bambino finalmente illuminava di gioia la sua vita. La sua gioia era però corrotta di dolorosa malinconia e i mesi trascorsi dal giorno del suo ritorno erano stati duri.

Il Pazzaglia venne apposta da Castiglione per rimproverarla e umilarla: – ... invece d’andér d’acord... hai rovinato tutto... vai a fare la puttanella con quel fiôl... mica è tanto normale lo sai... stâg pôc bän ... –

– Am in dspiés – si scusava allora un’avvilita Luana; ma in cuor suo non si sentiva in colpa. Continuò ad attendere notizie di Augusto inutilmente e a lungo; ogni giorno si aspettava di vederlo apparire alla porta della sua casa di pietra, ma non apparve mai.

Saprà dopo molto tempo dalla ragazza di Lagaro che l’aveva sostituita, che Augusto al ritorno da Milano, sembrava come impazzito. Disperato aveva urlato per giorni e giorni, fino a che sfinito e abbrutito anche nell’aspetto, si era rintanato di nuovo nella sua camera dove si era chiuso in un profondo mutismo.

La signora ne aveva dato la colpa a Luana che, a suo dire, aveva approfittato dell’ingenuità del povero Augusto solo per interesse. Adesso, dopo un lungo periodo di inutili cure in una costosa clinica privata, Augusto sembrava star meglio. Lo vedevano passeggiare con lo sguardo vuoto ma tranquillo, nel vasto parco alberato chiuso da un alto muro di cinta, all’Ospedale Psichiatrico di San Salvi.

Nessuno nel paese di Rasora mancò di rispetto a Luana, tantomeno Umberto che, dopo la nascita del bambino prese sovente ad accompagnarla dalla Casa del Popolo dove Luana aveva trovato lavoro, fino a casa.

Si conoscevano fin da bambini, e fin da bambini erano andati a scuola insieme prendendosi per mano.

– fine –

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