CASA DI PIETRA

CASA DI PIETRA

 CASA DI PIETRA

– Castagneti, case di pietra, ponti di pietra. Questa era Rasora in quegli anni in cui niente pareva mutare se non le stagioni che si rincorrevano. Generazioni simili l’una all’altra e consuetudini immobili da secoli. L’appennino tra le valli bolognesi e toscane, pievi e santuari, un’economia povera, di quello che a Goethe era apparso come un “curioso lembo di mondo”

In quel borgo di pietra senza tempo, in quella casa fumante affacciata alla radura, la famiglia di Giuseppe Nucci. L’orto dava scarso sostentamento e anche se le castagne provvedevano a smorzare il disagio della fame, le femmine Nucci erano magre e sottili. La più grande, Luana, era la più pallida e la più bella. Era una bellezza malinconica che non aveva tempo di considerarsi in alcun modo.

Ci voleva del tempo per fare il bucato, stenderlo al sole, pulire la casa, accudire alle poche galline insieme alle sorelle più piccole. Con la mamma malata era tutto sulle sue spalle da tempo e la domenica sarebbe trascorsa in fretta. – Tra un mese potrò fare di nuovo il bucato. – pensò malinconica; prima dell’alba l’avrebbero accompagnata a Ca’ di Landino.

Non era sicura di aver fatto bene e anche Umberto, il suo “moroso” aveva storto la bocca, ma che altro poteva fare? Suo padre, pur affetto da una forma leggera di silicosi come tanti che avevano lavorato alla “Direttissima” era partito per la Corsica e di lui era arrivata solo una letteruccia.

– Alba, mi hanno detto che starò via quattro mesi... poi torno. – aveva detto quella mattina triste d’inverno prima di partire. Poi si era rivolto alla maggiore: – Luana... – ma non gli era riuscito di finire la frase; gli occhi gli si erano fatti lucidi. Padre e figlia si intendevano a sguardi, così lei aveva annuito commossa.

Il mestiere di carbonaio era duro e, come altri carbonai, sapeva che doveva adattarsi a partire per posti lontani come la Maremma o il Casentino. In Corsica no, non ci era mai stato, avevano detto che lo avrebbero pagato bene. Ma dopo un anno era ancora là.

In casa non c’era più una lira e da settimane non si comprava un po’ di magro per fare il lesso. Nella broda la mamma faceva galleggiare qualche sopravissuto fagiolo insieme alle patate; ma che pena le due magre sorelline.

Era passato il Pazzaglia di Castiglione, una specie di sensale, dicendo che a Prato cercavano una donna di servizio per una famiglia di industriali: – Te la senti Luana? Potrai sfamare le tue sorelle e una volta al mese hai diritto a tre giorni. – Lei e mamma Alba ci avevano pensato tutta una notte e, pensandoci avevano pianto. Ora era venuto il momento.

L’acconto che la famiglia benestante le aveva mandato attraverso il Pazzaglia era stato un viatico che le fece sopportare meglio quel sacrificio. Era ancora buio quando abbracciò forte la sua mamma che fece di tutto per non farsi vedere in lacrime e poi baciò le due sorelline ancora immerse nel sonno.

L’uomo durante il breve viaggio alla stazione le fece delle raccomandazioni: – ... loro sono dei signori veramente squisiti, sono sicuro che non mi farai fare una brutta figura. –

Così, scesa dalla Giardinetta Fiat del sensale, sola, entrò nella stazione. Luana Nucci che in vita sua aveva appena visto Castiglion de’ Pepoli, Lagaro e Montepiano una volta, non aveva ancora diciott’anni anni e un mondo affatto nuovo la stava aspettando.

Fu accolta, all’imbocco delle scale, come da un gelido abbraccio, un enorme e freddo vento che risaliva dalla galleria sottostante trecento metri. La ripida discesa per la stazione sotterranea “delle Precedenze” era lunghissima, pareva non finire mai; per quasi un’ora fu come scendere nelle viscere della terra e ne ebbe una sensazione mai sentita prima, un qualcosa che le stringeva l’animo e le opprimeva il giovane petto. Una donna che, come lei, aveva da prendere la Littorina per Prato le disse che il numero degli scalini fosse maggiore di 1800: – Davvero è la prima volta che vai a Prato?... uuuh che confusione a Prato! –

Il treno su cui infine salirono in pochi, ripartì subito. Si accucciò appoggiando la testa al vetro umido. Buio quasi completo; solo delle linee bianche che zigzagavano in quel buio e qualche luce elettrica qua e là. Ripensò alla sua casa di pietra grigia.

La luce del giorno di un’alba ancora noiosa le apparve improvvisa. Alla stazione di Vernio raggiunta in meno di mezz’ora salirono molte persone, quasi tutti uomini che si recavamo al lavoro. Davano l’impressione di conoscersi e parlavano tra di loro nel modo che ricordava aver sentito a Montepiano, un paese non lontano da Rasora dove vi aveva trascorsa una domenica di sole con la sua famiglia; un ricordo molto dolce. Suo padre Beppino aveva insistito per portarle tutte alla festa di quel paese.

Due uomini, attratti dalla sua freschezza e dal suo aspetto di nuovo e di spaesato le si misero vicino sbirciandola, poi uno di essi le si rivolse con qualche parola galante. Quella pronuncia così diversa le piaceva, così, rispondendo ad una sua battuta, la ragazza rise.

A Vaiano salì una donna che teneva in braccio un bambino ancora in fasce e che stava cominciando ad allattare. Quando il treno con qualche scossa si mosse, il bambino che era mezzo addormentato, prese a piangere.

Monti che non conosceva correvano a lato del treno spartendosi in altre valli e vallette. Gente che viaggiava con lei, i due uomini essendo già scesi, volti sconosciuti e assorti, che solo di rado la guardavano distrattamente.

Ad un tratto si ricordò del foglio con l’indirizzo che le aveva dato il Pazzaglia e lo trasse fuori dalla scollatura: Cav. Nesti Ugo, via Del Palco, 41. Ne ridisse a voce bassa il nome e poi lo sillabò lentamente come se ne volesse estrarne il senso. Intanto le case si venivano raffittendo; parevano serrarsi addosso al convoglio come a frenarne la corsa.

Sobbalzando di nuovo e fischiando, il treno si fermò infine alla Stazione centrale della città. Qualcuno aveva aperto lo sportello ed altri, sulla banchina, si erano messi in disparte per farla scendere.

Scesa gli scalini del vagone toccò infine quel marciapiede che l’avrebbe condotta verso una nuova vita; le tremolavano le gambe. Fuori l’aria, insieme all’odore penetrante di ruote oliate e di rotaie aveva una frizzante dolcezza. Era un inizio d’estate insolitamente fresco anche in quella città.

Glielo aveva detto il Pazzaglia; da Piazza Stazione avrebbe dovuto andare verso la montagna e poi seguendo la strada principale camminare verso sinistra per almeno venti minuti; da lì avrebbe dovuto chiedere.

Aveva una valigia leggera, era giovane e quello che andava osservando durante il tragitto non le dispiaceva; case signorili, bei giardini e persone ben vestite. La villa al numero 41, anch’essa circondata da un giardino ben curato, le sembrò molto bella.

La aprì la signora in persona, a cui Luana apparve come una ragazzina disadorna ma dal volto ravviato e dolce, e che la guardava incerta: – sììì, che desidera? ­– scusi, è questa la casa del signor Nesti? – Luana spiccicava le parole a fatica, ma quando pronuciò il nome del Pazzaglia, la signora capì e la fece entrare.

– Erano ormai trascorsi quasi due mesi da quel giorno e soltanto tre settimane avanti, facendo il viaggio a ritroso, aveva rivisto la sua famiglia e la sua casa di pietra. Quei tre giorni e mezzo, a parte gli angosciosi 1800 scalini erano stati molto belli.

Ricordava che in quella terza domenica di agosto a Rasora c’era stato un avvenimento importante. Tutti gli abitanti di quel paese ma proprio tutti, si erano ritrovati davanti ad un’austera costruzione a due tetti, anch’essa in pietra, per inaugurare la “Casa del Popolo”. La festa, dopo qualche discorso del sindaco di Castiglion de’ Pepoli e la benedizione del parroco si era protratta fino a sera tardi a forza di infiniti valzer e di mazurche, al ritmo della fisarmonica, di chitarre e un contrabasso. La gente di montagna, ma anche quella di città, dopo la fame e i disagi della guerra ancora nella memoria di tutti, aveva voglia di divertirsi con la “filuzzi” come si chiamava allora il ballo liscio bolognese.

Luana, dopo aver accompagnato la mamma e le sorelline a casa, era tornata sul luogo della festa. Qui aveva ballato a lungo con Umberto. Si conoscevano fin da bambini e subito dopo la guerra, ogni mattina andavano a scuola insieme prendendosi per mano. Per tutti era scontato che si volessero bene e che in futuro avrebbero formato una famiglia. Umberto non era contento del lavoro di lei come donna di servizio: – ... ma quel padrone com’è?... dimmelo eh... se ti da qualche fastidio, vengo là e... –

Fece il gesto minaccioso con il pugno, ma i suoi occhi erano allegri. Scoppiarono a ridere tutti e due. Poi, dopo l’ennesimo valzer scomparvero dietro un boschetto. Facevano l’amore da un po’ tempo e si sarebbero sposati, dicevano, quando Umberto che lavorava come ferroviere, sarebbe stato trasferito alla stazione di San Benedetto Val di Sambro. Suo padre era stato una delle novantanove vittime dello scavo della grande galleria. Prima della guerra la miseria era stata grande e la gente andava a lavorare alla “Direttissima” per necessità, non essendoci altre possibilità di lavoro al di fuori dell’emigrazione e della povera agricoltura di quelle montagne. Così per lui, la direzione delle ferrovie aveva avuto un occhio di riguardo. Al mattino dopo il ferroviere con la sua moto Guzzi di cui andava fiero, l’avrebbe accompagnata a Ca’ di Landino.

– Adesso, arrivata ormai a metà settembre, Luana Nucci ripensava alla sua circostanza. Non poteva dire di trovarsi male. La signora era stata molto comprensiva e le aveva spiegato con pazienza quali erano i suoi compiti. Aveva poco tempo per sé, a parte il sabato pomeriggio libero. Lei mangiava per conto suo in camera dopo aver cucinato, servito a tavola, sparecchiato e rigovernato.

Ma era una famiglia strana. Si ricordava del giorno del suo arrivo; il signor Nesti era fuori Prato e in casa c’erano solo i due figli con i quali fece conoscenza. La figlia minore di tredici anni si era tenuta molto sulle sue e le sorrise appena. Anche il figliolo di diciassette anni le fece una sgradevole impressione; ben in carne, alto e un po’ ringobbito per la sua età, all’inizio fece fatica a guardarla. Ma poi durante quello stesso giorno e ancor più nei giorni seguenti Luana non cessò di sentire di esserne osservata.

La prima notte non era riuscita a prender sonno facilmente; si sentiva sola con la sua stanchezza fisica, dalla quale i pensieri che faticava a seguire, scaturivano spezzettati. E quando finalmente ne fu vinta sognò suo padre Beppino tutto nero e triste in mezzo a un grande campo di carbone.

– Ormai si era ambientata, svolgeva bene le sue incombenze e la signora ne era contenta. Il padrone, il cavalier Nesti con cui aveva scambiato, sì e no, qualche parola, stava poco in casa. L’industriale tessile aveva la manìa delle camice bianche ben inamidate, il solo compito che non le piaceva.

Ma era la presenza di Augusto, questo era il nome del ragazzo che, nelle prime settimane l’aveva resa spesso inquieta. Seppe che rendeva nervosi anche i suoi genitori specialmente il padre che non sopportava la sua vagabondaggine. È vero che aveva dei “problemi di nervi”, ma aveva abbandonato la scuola l’anno prima e non si decideva a cominciarne un’altra: – Non t’è piaciuto il Cicognini eh?... a fare i cannelli ti metterei! – un giorno sentì urlare in questo modo il Nesti.

Alla fine degli anni ’50 durante i quali si svolgeva questa storia, i “problemi di nervi” erano incompresi e confusi con altri tipi di fragilità o di difetti, come quello di non aver voglia di lavorare o di studiare. In realtà il ragazzo soffriva molto, non sapendo neppur lui a che cosa dovesse il piacere per la sua sofferenza. Luana, la cui camera si trovava nello stesso corridoio di quelle dei figlioli e attigua a quella del maschio, sentiva a volte dei singhiozzi.

– ... lo sai icchè si fa?... tu vieni in fabbrica con me, te lo fo garbare io il Nicastro. – gli diceva ancora il suo babbo alterato. – ... ma via, Nello, ci sta pensando, vero Augusto che tu ci stai pensando? – perorava la signora per lui.

Il ragazzo aveva accennato di voler andare al “Nicastro”, ma ormai le iscrizioni erano chiuse e lui, quando non se ne andava in giro con il “motom”, passava le giornate in camera sua a sfogliare giornalini e riviste. Usciva di rado avendo poche amicizie, e di sera tardi. Mangiava a tutte l’ore e Luana se lo ritrovava d’un tratto in cucina senza averlo sentito arrivare. In silenzio apriva il frigorifero nuovo e beveva “a boccia” il latte, guardandola sottecchi. Oppure la fissava da dietro con insistenza e senza dir nulla.

Ad Augusto, da quando era arrivata lei gli si era aperto un mondo nuovo che si accompagnava e si intrecciava in un confuso connubio con i suoi soliti fantasmi. La sua vita sessuale da maturo adolescente che si era alimentata fino a quel momento di qualche giornaletto un po’ spinto nascosto tra i libri di scuola, adesso traeva nuove ispirazioni dalla presenza di Luana. Il goffo grembiule di canapa stretto alla vita della ragazza che pure aveva un corpo snello, non riusciva a nasconderne le aggraziate sinuosità. Lei faceva finta di nulla ma ne sentiva benissimo addosso lo sguardo, e ne avvertiva allo stesso tempo un vago disgusto e un filo di indefinibile eccitazione.

Da quando era a servizio in quella casa mangiava bene e le forme della ragazza s’erano rese più sciolte, acquistandone più grazia. La signora le aveva comprato un vestitino o due, semplici ma meno dimessi del suo e, dopo meno di due mesi, un leggero ritoccarsi, un istintivo conformarsi alla sua bellezza naturale la facevano più donna.

– A volte, sentendo girare la chiave nella porta di casa, durante il primo sonno si risvegliava. Rimaneva a occhi spalancati nell’oscurità seguendo il cauto avvicinarsi di Augusto alla porta della propria camera e poi i suoi passi nella stessa stanza. Dava immagine ai rumori che vi udiva, raffigurandoselo confusamente mentre entrava sotto le lenzuola e poi mentre si girava più volte facendo cigolare in modo strano il suo letto, e in quei momenti le si affacciavano i ricordi di Umberto, il ragazzo del circolo di Rasora, i suoi baci, le sue carezze. Ma dopo i rumori si smorzavano e finivano di spengersi nel buio, e con il silenzio le ritornava il sonno, un sonno liscio e profondo.

Una mattina Augusto dopo la solita e avida boccata di latte, dopo aver chiuso il grosso frigo, vanto in quegli anni di poche famiglie, le si accostò con un’altra bottiglia ancora intonsa: – Ne vuoi un po’? –

Le sorrise; era la prima volta che le si rivolgeva. Lei arrossì, meravigliandosene, e si fermò un istante dall’attività di quel momento levando lo sguardo sul ragazzo. La cipolla tagliata fine sul tagliere le aveva inumidito gli occhi, come fosse commossa. Le venne da ridere mentre tentava di asciugarseli con il grembiulino di cotone.

Il ragazzo rise anche lui e nel farlo scoprì dei denti bianchissimi che Luana non aveva ancora visti in quel modo. Pensò che insieme alla sua leggera pinguedine Augusto non avesse alcun altro tipo di bruttezza; anzi i suoi occhi ridenti, benché piccoli, illuminandolo lo rendevano dolce e piacevole. Rispose che aveva già fatto colazione così riprese, ancora con un leggero sorriso rimastole come stampato, ad ondeggiare la mezza luna sul tagliere. Lui si trattenne un po’ lì in silenzio, poi uscendo come incerto si fermò; voltandosi fece un lungo respiro, come a rattenere l’odore del soffritto che aveva cominciato a sfrigolare. Infine la salutò: – Ciao Luana... – Ciao – rispose la ragazza mentre girava il mestolo; e gli dette una prolungata occhiata.

Adesso la presenza di Augusto non la rendeva più inquieta come nei primi giorni, anzi, ne provava come un moto di simpatia. Dopotutto erano coetanei, lui più giovane di sette mesi, e ne aveva scorto negli occhi come un lampo di disperata inquietudine.

Invece il cavalier Ugo ne era sempre più esasperato: – ... teee, tu hai le spalle tonde... guarda il tu’cugino; passa tutto il giorno in fabbrica... e va anche dai clienti... ma icchè t’avrai in codesta testa! –

La signora che, davanti al marito lo difendeva minimizzando, poiché ne scorgeva la malinconia andava in camera sua per cercare di scuoterlo: – ... se non vuoi più studiare ma perché non vai a dare una mano a tuo cugino in ufficio come dice il babbo? – Ma lui pareva non sopportare più quei discorsi, tantomeno quelli fatti da lei.

Oppure, come quella sera di ottobre, vedendolo più sofferente del solito: – Amore, perché domani non fai una girata in bicicletta o non vai a piedi su verso il Chiesino di Cavagliano? – Il ragazzo le si rivoltò contro con rabbia sorda e le disse di lasciarlo in pace.

Luana dalla sua camera sentì tutto e gli fece pena. Dormì male come non le era più ricapitato dalla prima sera; si voltava e rivoltava nel letto portandosi ora da una parte ora dall’altra; e quell’affondare e l’agitarsi tra le lenzuola le dette per la prima volta l’impressione di stare imparando come fosse complicata la vita. Nel cuore della notte risentì quei singhiozzi, questa volta così alti da svegliarla dal suo sonno leggero. Si mise a sedere per ascoltare meglio, ma poi tornò a sdraiarsi. Si appiattì sotto le lenzuola per sottrarsi ai rumori e allo sgomento che le procuravano. Pensieri presero a sfilarle dinanzi al chiarore tenue del proprio abat jour; ogni pensiero s’animava come quando da bambina dava colore a tutte le fantasie che le passavano per la mente. Ascoltava il proprio respiro e si accorse che in quei colori Umberto era assente; alla fine si alzò. Uscì scalza nel corridoio e accostò un orecchio alla porta di Augusto. I singhiozzi erano accompagnati da un tenue gemito.

– Augusto, Augusto... che cos’hai? hai bisogno di qualcosa? – Mormorò piano la ragazza chinandosi. La porta non era chiusa a chiave e si era decisa. Lui era disteso bocconi e non l’aveva sentita entrare; fece uno scossone e la guardò come inebetito. Si girò supino appoggiando il capo alla spalliera; faticava a credere a ciò che stava vedendo: – sei te?... sei proprio te? – Fece il gesto di stenderle la mano e lei che si era rialzata gliela prese per qualche istante: – Ho sentito i lamenti... – esitò. – Vuoi che vada a farti qualcosa di caldo? –

Lui non rispose. Aveva sognato tante volte, nelle sue lubriche immaginazioni delle prime settimane, immaginazioni che via via si erano fatte più tenere, di trovarsi solo con lei come in quel momento, ma adesso il solo effetto che suscitava la sua presenza era la vergogna di mostrarsi in quel modo.

Si girò dall’altra parte affondando il viso in un’inesplicabile pianto appena sommesso. Luana non sapeva che cosa fare; esitò ma poi si sedette appena sulla sponda del letto e gli fece una carezza sui capelli che aveva ricci e mori.

Fu pervasa da un’imprevista tenerezza, infine si alzò e tornò in camera sua, ma non riuscì a riprendere sonno. Riconobbe, ripensando agli ultimi giorni trascorsi in quella casa di aver provato un misterioso pudore ad ogni sguardo col quale egli le si rivolgeva, un pudore dolce e ignaro. Ricacciò quei pensieri.

Il giorno seguente notò che il ragazzo avesse un aspetto meno sofferente. Quando gli porse il piatto a pranzo il suo viso era disteso e chiaro. Durante quella settimana le sorrise più volte e la seguiva con lo sguardo.

– Una sera, non ancora addormentata, sentì un fruscìo alla porta; d’acchito pensò al gatto di casa che si strusciava qua e là, ma poi uno scricchiolare levissimo la fece di nuovo trasalire; al fruscìo si unì una voce bisbigliata e roca: – Luana... Luana... – Riconobbe la voce e sbiancò; andò alla porta socchiudendola ma lasciando la catenella che ne impedisse l’apertura: – che vuoi Augusto? – aprimi, ti prego... aprimi. –

Era confusa, non si aspettava che sarebbe arrivato a bussare alla sua porta di notte; al contempo ricordava la pena che aveva provato per i suoi singhiozzi. Mise addosso la vestaglia e lo aprì.

Augusto entrò barcollante e le si mise in ginocchio: – Luana, aiutami, non ne posso più – Lei prima guardò fuori del corridoio e poi chiuse la porta. Augusto da quella posizione le abbracciò le gambe chinando la sua testa ricciuta sui piccoli piedi, poi fece il gesto di volerglieli baciare.

– Ma che fai? – disse piano atterrita. D’istinto lo spinse via, facendolo cadere disteso sul pavimento. Augusto non fiatò; gemendo pareva voler rimanere per sempre in quella posizione: – ... quella carezza Luana... – mormorò. – perché allora?... io ti amo Luana... – Augusto esci subito o mi metto a urlare... esci! – Perentoria gli aprì la porta e lui che era venuto ad elemosinare una carezza, come barcollando, se ne uscì a mani vuote.

Appena Luana rimase sola quella sua indignazione si spense. Provò invece un senso che sapeva di qualche delizia, ma segreta.

– Il giorno dopo Augusto non osò neppure guardarla. Era triste, così corrucciato da parere che si sentisse molto male. Disse di non aver fame e si sedette in un angolo del divano da dove, a capo chino, non si mosse per un bel pezzo. I suoi genitori stavano discutendo d’altro e non ci fecero caso, e poi erano rassegnati ai suoi sbalzi d’umore. Poi lui aggrottò la fronte come assalito da un dolore fortissimo e cominciò a stropicciarsi ripetutatamente gli occhi.

Mentre stava sparecchiando, Luana che lo osservava sottecchi ebbe chiaro che quella infatuazione non fosse uno scherzo; capì che Augusto già molto fragile di suo, a causa della sua presenza si stava ammalando per davvero, e ne ebbe come un senso di colpa e di timore.

Decise che avrebbe trovato il momento di parlargli seriamente; gli avrebbe detto che no, che non è possibile. Gli avrebbe anche detto che lei voleva bene a Umberto. Nella sua voce ci sarebbe stata una forza alla quale difficilmente avrebbe potuto sottrarsi e lui si sarebbe scosso da quella fissazione. – Sì... per il suo bene... –

Allo stesso tempo sentiva che l’atteggiamento del ragazzo la riempisse di una sottile soddisfazione. Ma si tranquillizzava pensando che non ci fosse nulla di male nella consapevolezza di esser bella e desiderabile, tanto più, ne era sicura, che quella tensione sarebbe cessata presto, una volta si fosse spiegata bene.

– Quella stessa notte, piuttosto sul tardi temendo di esser sentita dalla sorella della cui fanciullesca malignità sentiva di dover diffidare, con le unghie bussò pianissimo alla porta del giovane Nesti. Così piano che dovè riprovare altre due volte. Alla fine Augusto, ancora tra il sonno ma meravigliatissimo, aprì. – ... Sssssc... – fece la ragazza facendo anche cenno con il dito. Lui era a quasi nudo ma la fece subito entrare non nascondendo la sua confusa gioia nel vederla. Lei vedendolo discinto in quel modo provò un’intima ma piacevole vergogna. Pur scossa da quegli incerti brividi riprese il controllo di sé e decise di non mettere tempo in mezzo: – Senti Augusto, sono venuto per fare chiarezza... – attaccò.

Lui intanto si era messo la maglietta e le mostrò la sponda del letto come per invitarla a sedere. Il volto di lui, che era stato così sofferente in tutto quel giorno sembrava trasfigurato; pareva a poco a poco distendersi come colto da un improvviso benessere. Lei indugiò, ma poi si sedette: – Vado via subito... oggi non ho trovato il modo di dirtelo... –

Sentì il bisogno di giustificarsi, parlava con enorme fatica; riprese fiato: – ... ma tu devi smetterla Augusto... io a Rasora ho un fidanzato... capito? – Lui la guardava ma pareva non sentisse. – Hai capito Augusto? – ripetè questa volta alzandosi e portando le braccia alla vita per ravviarsi la cintura.

Luana, pensando di aver detto quanto le premeva di dire ritenne fosse il momento di avviarsi verso la porta, ma non si mosse. Era come impietrita e come stupita del batticuore che non le dava tregua. Improvvisamente, ebbe l’idea che bastasse abbandonarsi a quel pericolo per immergersi in una felicità che avrebbe estinto tutti quei turbamenti. La soverchiavano un bisogno e un desiderio pauroso.

Augusto che si era alzato anche lui, sentiva il suo respiro affannoso, ne individuò il colmo del giovane petto sotto la vestaglia, guardò le braccia che sollevandosi mostravano lo scavo bianco dell’ascella e l’ombra d’una leggera pelugine. Allora le posò le mani sui fianchi, le aprì la vestaglia. Non osava carezzarla, rimase a guardarla per qualche istante lasciandosi sopraffarre dall’emozione, fino a quando non si sciolsero in un abbraccio tremante. Lei, con un trasalimento inaspettato ad ogni respiro, sentiva il turgore della propria carne rispondere al contatto delle sue dita, mentre le loro labbra scivolavano le une sulle altre, umide e fresche.

Si amarono tutta la notte e parlarono. Sottovoce si dissero tutto di loro stessi, della felicità di lui, di quanto gli paresse di essere come in paradiso. Della meraviglia di lei che non credeva di amarlo così; di quanto quel sentimento che aveva cercato di reprimere fosse sgorgato per forza propria, tanto gli pareva adesso così grande che mai avrebbe potuto soffocarlo.

Nei momenti di silenzio si ascoltò; stupori inaspettati s’allargavano in lei di mano in mano che le ore passavano. Ogni tanto non poteva fare a meno di pensare a Umberto ma poi, vinta dalla tenerezza per quel ragazzo che aveva giudicato strano e che invece adesso vedeva con altri occhi, tornava a sussultare presa da un piacere carnale che sentiva essere, e ciò la inquietava un po’, come vergognoso e profondo.

– Nei giorni seguenti faticavano per non far trasparire la loro gioia, ed ogni notte giacevano insieme, appiccicati ed esausti, l’uno nelle braccia dell’altro. Lei si accorse ancor più, accedendo ai tormentati meandri del suo animo, della sensibilità eccessiva di questo ragazzo. Tutto lo poteva far felice purché fosse autentico, e tutto lo feriva a cominciare dall’ipocrisia. Luana seppe con meraviglia che la signora Nesti aveva una relazione con l’amministratore dell’azienda, più giovane e meno rozzo del cavalier Ugo. Augusto lo aveva scoperto per caso e ciò aveva contribuito in modo determinante ad alterare il suo delicato equilibrio: – ... anche il babbo deve aver qualche donnetta, ma non ne sono sicuro... – aggiunse poi con un filo d’amarezza. Per lui però era l’insopportabile ambiguità della mamma che lo feriva di più; era come un doloroso tradimento nei confronti dell’idea materna coltivata in lui fin dalla tenera infanzia.

Luana ed Augusto, non potendo continuare in quel modo, dormendo poco e con la paura di essere scoperti, abbreviarono e diradarono i loro incontri, fino a che alla ragazza toccò, con combattuto dispiacere, di tornare a Rasora, ma con una settimana di ritardo.

Umberto che si aspettava di vederla la settimana precedente non c’era. Aveva una missione di lavoro a Bologna e Luana tirò un sospiro di sollievo. Suo padre non aveva ancora dato notizie sicure di sé; in compenso, grazie al suo lavoro le due sorelle e anche la mamma avevano ripreso un buon aspetto e, a parte il rincrescimento per la sua lontananza non meno di quella di Beppino, erano contente.

Passò un altro mese e poi un altro ancora durante il quale Augusto, a parte la gioia intima e nascosta che lo faceva aspettare con trepidazione la sera e poi la notte, meravigliava i suoi genitori. Non passava più rabbuiato le sue giornate rinchiuso in camera, tantomeno sciogliendosi in pianti e singhiozzi sommessi, mangiava meno a tutte l’ore, non camminava più curvo. Sorrideva perfino al signor Nesti non riuscendo ancora a fare altrettanto con la sua mamma; comunque sembrava un altro.

Un certo giorno chiese al babbo che avrebbe voluto, anche lui come il cugino Duccio, venire in fabbrica. – Sei sicuro Augusto?... non mi pare il vero... – Lo guardò con un misto di contentezza e insieme di diffidenza, ma nei giorni a seguire ebbe a dissipare i suoi dubbi. Era puntuale, si sforzava di ambientarsi e di capire il meccanismo di quei commerci e infine dava il suo contributo. I genitori erano al settimo cielo: – Hai visto Ugo... icchè ti dicevo... il nostro Augusto gli è bravo... tu vedrai... ti darà soddisfazione... –

– A Rasora quel sabato Luana ebbe il coraggio di parlarne a Umberto; gli disse subito che aveva il cuore occupato da un altro amore. – Me lo sentivo... me lo sentivo... quel vecchio porco... lo ammazzo! – Il giovane era infuriato e non la lasciava parlare. – Non è vecchio, ha più o meno la nostra età Umberto... – riuscì infine a dire Luana, singhiozzando. Umberto la guardava meravigliato: – ... e che cos’ha questo più di me, eh? dimmelo... dimmelo. –

Non gli venivano le lacrime e urlava. Urlava che non era giusto, che lei gli apparteneva. La ragazza non osava guardarlo negli occhi e piangeva in silenzio senza replicare. Poi lui tacque e, calciando con rabbia certi rami secchi sparsi per la strada come a scacciare quel dolore, si allontanò a capo chino. Furono giorni tristi, sentendosi dilaniata e dispiaciuta, ma sentiva con certezza che era Augusto il suo amore e la sua passione.

Tornata a Prato l’improvvisa e inaspettata bufera. O meglio lei si aspettava succedesse qualcosa del genere prima o poi; la sorella da tempo li guardava in modo strano. Luana non sempre portava a tavola le pietanze, a volte lo faceva la signora. Diceva che la ragazza non ce la facesse a far tutto da sé; anzi invitava la figliola a dare una mano anche lei: – Deanna, potresti almeno sparecchiare... che ci vuole. – È vero Deannina, ormai sei una donnina... – rimarcava il signor Nesti.

Luana sapendo di lei quanto non avrebbe dovuto sapere, si stupiva di come i due coniugi, di fronte ai figlioli apparissero concordi, benchè non avesse mai notato tra loro un minimo gesto d’affetto.

Ma quella “donnina” frequentava certe sue amiche le cui famiglie avevano ben tre persone di servizio; non le piaceva di far la serva ma, ogni tanto e di malavoglia, doveva sottostare a quell’invito e ne dava la colpa a “quella”. E poi se n’era accorta. La sua camera confinava con quella del fratello e una notte, di solito dormiva tantissimo, si svegliò per una certa uggia alla pancia. Sentì dei lievi sussurri e dei gemiti soffocati. Uscì scalza nel corridoio e appoggiò l’orecchio alla porta; aveva già una certa malizia e capì. Un giorno, dopo aver sparecchiato con più stizza del solito, lo disse alla mamma.

– Ed io che mi fidavo di te... ti abbiamo accolto come una figliola... ma che cosa speravi... – I due coniugi furono concordi nella decisione. Il mattino seguente Luana era sulla banchina della Stazione Centrale ad aspettare per l’ultima volta la Littorina diretta a Bologna. Rispetto all’andata aveva un piccola valigia in più che benevolmente la signora le aveva concesso per infilare i due vestitini regalati e qualche altro effetto personale.

Nessuno di quella casa lo avrebbe forse mai saputo, ma Luana aveva ben altro bagaglio da riportare a casa che non quelle povere cose. Ci stava pensando da vari giorni e anche a Rasora, durante il burrascoso litigio con Umberto, quel pensiero l’aveva seguita continuamente. Adesso ne era quasi sicura. A meno di un miracolo stava portando in grembo l’inizio di una creatura nuova. La creatura che era anche quella di Augusto, il suo fragile amore che non sapeva nulla, né di ciò, né dell’improvviso e crudele benservito. Egli da giorni era a Milano dove aveva accompaganto Duccio ad una esposizione.

– Gli diranno che mi hanno trovato a rubare o che ho cercato di picchiare Deanna... sono abituati a dire bugie, specialmente la signora. – pensava avvilita mentre il treno stava imboccando la Grande Galleria inoltrandosi nel ventre scuro della montagna. Il rumore cupo e amplificato delle rotaie le parve allora pauroso, come paurosa le sembrava che sarebbe stata la sua vita da quel giorno in poi. Pensò, con le lacrime agli occhi che le scendevano copiose, che mai avrebbe cercato Augusto, che mai avrebbe mendicato il suo amore se lui stesso non l’avesse cercata.

Allora sì, la paura che aveva intravisto avrebbe ceduto il posto alla felicità. La sua fantasia galoppava; suppose che, se Augusto l’avesse cercata i suoi l’avrebbero potuto come ripudiare e scacciare di casa. Allora sì che sarebbero stati felici insieme e per sempre nella sua casa di pietra. Augusto che amava le cose autentiche l’avrebbe abbellita e ammodernata ma senza rinunciare alla semplice bellezza di quella costruzione in pietra grigia, alla freschezza dei prati intorno, perfino agli stalli degli animali. Il loro bambino vi sarebbe cresciuto felice.

In quegli istanti il treno si fermava sbuffando, interrompendo quel sogno, alla stazione delle “Precedenze”.

L’aver fatto i 1800 scalini appena due giorni prima anche se in discesa, la colpiva. Pur all’oscuro del proprio destino, le pareva di essere arrivata lei stessa come su un binario scambiatore, uno quei binari da cui dipende la direzione della propria vita.

– Dopo sette mesi nacque Giuseppe. Gli volle mettere lo stesso nome di suo padre Beppino che non era più tornato a casa. In Corsica aveva contratto la malaria ed era stato sepolto nel cimitero di un oscuro villaggio dell’entroterra. Quel bambino finalmente illuminava di gioia la sua vita. La sua gioia era però corrotta di dolorosa malinconia e i mesi trascorsi dal giorno del suo ritorno erano stati duri.

Il Pazzaglia venne apposta da Castiglione per rimproverarla e umilarla: – ... invece d’andér d’acord... hai rovinato tutto... vai a fare la puttanella con quel fiôl... mica è tanto normale lo sai... stâg pôc bän ... –

– Am in dspiés – si scusava allora un’avvilita Luana; ma in cuor suo non si sentiva in colpa. Continuò ad attendere notizie di Augusto inutilmente e a lungo; ogni giorno si aspettava di vederlo apparire alla porta della sua casa di pietra, ma non apparve mai.

Saprà dopo molto tempo dalla ragazza di Lagaro che l’aveva sostituita, che Augusto al ritorno da Milano, sembrava come impazzito. Disperato aveva urlato per giorni e giorni, fino a che sfinito e abbrutito anche nell’aspetto, si era rintanato di nuovo nella sua camera dove si era chiuso in un profondo mutismo.

La signora ne aveva dato la colpa a Luana che, a suo dire, aveva approfittato dell’ingenuità del povero Augusto solo per interesse. Adesso, dopo un lungo periodo di inutili cure in una costosa clinica privata, Augusto sembrava star meglio. Lo vedevano passeggiare con lo sguardo vuoto ma tranquillo, nel vasto parco alberato chiuso da un alto muro di cinta, all’Ospedale Psichiatrico di San Salvi.

Nessuno nel paese di Rasora mancò di rispetto a Luana, tantomeno Umberto che, dopo la nascita del bambino prese sovente ad accompagnarla dalla Casa del Popolo dove Luana aveva trovato lavoro, fino a casa.

Si conoscevano fin da bambini, e fin da bambini erano andati a scuola insieme prendendosi per mano.

– fine –

GERARDO

GERARDO

 SENZATETTO

– Gino Guarducci aveva una voce tenorile ben impostata. Cantò il “Credo” in gregoriano dispiegando tutta la sua potenza e slungando il collo scarno come volesse far arrivare il suo canto ancora più vicino al cielo. L’assemblea non era numerosa ma partecipe e un bell’organo accompagnava il canto. Alcuni guardavano, incantati ma assorti, le numerose fiammelle appese e disposte sopra l’altare a fare corona al celebrante, un prete giovane dai capelli corti che indossava la “pianeta”, mentre altri seguivano il libretto con il canone latino. Sullo sfondo una grande immagine dai colori vivaci di Rupnik rendeva a quella piccola chiesa un’aura di modernità a contrasto con il rito Romano antico che si stava celebrando. Il vescovo concedeva a quella parrocchia la celebrazione della Messa Tridentina una volta alla settimana e il Guarducci quel giorno non volle mancare. La solenne liturgia gli dava una bella soddisfazione e tra sé gli venne di pensare: – Vuoi mettere questa... con quelle Messe scialbe... ... non c’è confronto. –

La chiesa, finita la Messa si era presto svuotata, e lui non aveva nessuna voglia di tornare a casa. Si accostò a due donne che si erano trattenute in fondo chiesa a chiacchierare a voce bassa: – Scusate signore, sapete se c’è questa sera qualche riunione in questa parrocchia?... sapete, un ritrovo, qualcosa per scambiarsi delle idee, qualche esperienza... io avrei tanto da raccontare. –

Le donne lo guardarono incuriosite. – Sono andato in pensione da poco, sa... – aggiunse rivolgendosi a quella delle due che gli sembrava più attenta. Intimamente si aspettava che gli chiedessero qualcosa del motivo di quella confidenza, ma risposero che no, non credevano ci fosse nulla del genere. Si genuflesse e uscì, facendosi un ampio segno di croce.

– Incerto sul da farsi si diresse al bar Bagianni, come faceva ogni tanto. Si sedette al banco, ordinò un Crodino e, vedendo che non c’era quasi nessuno si rivolse a voce alta al barista: – Te l’avevo detto no, che andavo in pensione, vero?... ecco, ci sono da un mese... – L’uomo non parve scomporsi e lui riprese: – ho lavorato alla Misericordia per quarant’anni e ho avuto le mie brave soddisfazioni, lo sai Maurizio? –

Il banconiere allora si avvicinò e, appoggiato il gomito sul banco e il viso sulla mano, lo guardò perplesso: – Di che soddisfazioni parli? o non hai sempre detto che facevi il becchino? –

Gino dette una scrollatina spalle: – ... che ti credi? era un lavoro importante... ti sembra poco scavare una fossa precisa, diritta? Solo io manovravo l’escavatore senza fare danni... mi ringraziavano i parenti, lo sai?... per il rispetto, la serietà e per la tumulazione fatta come si deve... – ... certo, di sicuro il morto non si doveva lamentare... – sogghignò il barman Maurizio mentre cominciava a ripulire il bancone; tra mezz’ora avrebbe chiuso. Gino pagò e si apprestò ad uscire, malinconico; lo traversò un’uggia al pensiero di quel vecchio e di quella camera ammobiliata. Anche quella sera avrebbe finito la giornata come al solito guardando la tivu.

Il Guarducci, in pensione da lavoro da un mese, scapolo e quasi solo al mondo, divideva un trilocale vicino alla stazione ferroviaria con un vecchio che non gli piaceva; tant’è, lo stipendio di prima e adesso a maggior ragione la pensione erano quelli che erano, dovendo bastare anche alla retta di sua sorella affetta di Parkinson, per la RSA. Si era dovuto adattare; con quel tipo non andava d’accordo salvo che per il gatto di casa. Romeo gliel’avevano regalato ancora cucciolo i vicini di ballatoio già battezzato in quel modo, e tutti e due se ne contendevano l’affetto.

– Il tempo era improvvisamente cambiato; aveva smesso di piovere e si era alzato un vento gelido che gli sfrusciava contro il bavero del giubbotto. Camminava a testa bassa e, svoltato l’angolo, alla fermata del bus dove sostava un grappolo di persone infreddolite, si scontrò con un passante che andava nella direzione opposta. – Oooh, ma che ha nella testa! – brontolò l’uomo che, barcollante, per poco non cadde per terra. Gino con voce rauca mormorò: – Mi dispiace signore.. è che... ero soprapensiero... vede, sono andato in pensione da un mese. – ... e allora?, stia più attento, no? – gli rispose l’uomo indispettito, prima di riprendere svelto la sua strada.

Al Dopo Lavoro Ferroviario, vicino al suo trilocale diviso con quel vecchio che non gli piaceva, c’era la società Bocciofila, un ampio salone con due campi di Bocce, molto frequentato. Lo scontro con il passante lo aveva come scosso, così decise che non fosse ancora l’ora di rientrare e vi si diresse. C’era entrato sì e no due, tre volte, perché il gioco delle bocce non gli piaceva, però si ricordava che tante di quelle persone non giocavano ma guardavano giocare, seduti sulle panche.

Su una di quelle panche c’era anche Angiolino un suo antico compagno di scuola, accanto ad altri due della medesima età con cui stava discutendo. Discutevano bonariamente di politica; Angiolino difendeva la sinistra, gli altri erano per la destra. Gino, dopo averli ascoltati, accennò di voler dire qualcosa anche lui, ma dalla gola ancora infreddolita gli venne solo un borbottìo. – Come hai detto? – domandò dei due quello con i baffi. Gino si schiarì la gola e torse la bocca in un sorriso: – Io non m’intendo di politica ma a me è andata bene... m’hanno mandato in pensione sapete... trenta giorni fa. – Ma che c’entra, tutti si va in pensione. – disse quello con i baffi. – ... ma lo sai quante ritenute t’hanno fatto pagare per la tua pensione? eh, lo sai?... non te l’hanno fatto il conto... – ... lo so, ma io ci stavo bene... ho fatto per quarant’anni l’operatore cimiteriale... – ah, ah, ah... tu vuoi dire il becchino? E come facevi a starci bene in mezzo ai morti? – chiese sarcastico il medesimo tipo con i baffi. I tre ripresero con l’argomento di prima, ignorando ciò a cui Gino stava tanto a cuore.

Il fatto è che l’avere abbandonato il suo lavoro gli era stato doloroso. Il cimitero era come il suo habitat; se glielo avessero consentito ci avrebbe anche dormito di notte. La cura delle tombe, dei vialetti, delle siepi era diventata la sua ossessione e il suo orgoglio. Al Cimitero Monumentale della Misericordia si sentiva come il padrone di casa; accoglieva la salma con riguardo e predisponeva tutto con cura. Se la tomba, dopo qualche mese tendeva a deformarsi per il cedimento naturale del terreno, faceva di tutto per sistemarla per quanto fosse possibile. Sostava compiaciuto davanti a certe cappelle gentilizie aggraziate di arcate ogivali e da pilastri neogotici. Spesso, finito il suo turno, si tratteneva in silenzio nella grande cappella pubblica, quella dedicata al Santissimo Redentore, di cui aveva la chiave.

Ora tutto ciò gli mancava; realizzava, sentendone un acuto disagio, che il traguardo della pensione era stato per lui come una perdita. Dopo pochi giorni aveva cominciato a percepire sensazioni di inutilità e di vuoto e adesso, in qualche modo, cercava di confondere quei sentimenti che, con il passare del tempo erano diventati sempre più dolorosi. E non era sufficiente per compensare quel vuoto, la sua passione per il canto gregoriano.

Aveva frequentato per lunghi anni la Cappella Musicale della Cattedrale, ma ultimamente se ne era staccato; pensava che adesso la chiesa cercando di rincorrere il mondo, stesse trascurando il canto gregoriano a favore di certe brutte melodie moderne. La scoperta della Messa settimanale con il Rito Romano Antico in quella piccola parrocchia gli aveva fatto enorme piacere.

Stava così pensando alle sue cose mentre gli altri tre pensionati, imperterriti, seguitavano a discorrere di Prodi e Berlusconi. Infine si alzò e prese lentamente ad allontanarsi quando si sentì chiamare da Angiolino: – Ehi Guido... ma dove vai?, aspettami vengo via anch’io. –

Fecero un po’ di strada insieme. – Ti vedo strano, non t’interessa per niente la politica? – Guido avrebbe voluto dirgli che più della cosa pubblica gli mancava il lavoro, il suo lavoro, ma non lo disse; d’altra parte lui non si era mostrato per niente interessato alle sue parole: – No, no, sono solo stanco, andrò a letto presto, m’è preso sonno Angiolino... buona notte. –

Poco dopo, quando vide il compagno di scuola ormai uscito dalla propria visuale, fece dietro front; non voleva che gli potesse chiedere come mai non si stesse dirigendo verso casaGli era venuto in mente di far visita a Gerardo, un senza tetto di sua conoscenza di origine moldava.

Gerardo era grande e grosso e aveva fatto il muratore fino a pochi anni prima ma adesso, anziano e quasi sempre malaticcio, nessuno lo chiamava più per qualche misero lavoro, sicchè si contentava di chiedere l’elemosina all’uscita delle Messe alla parrocchia di Santa Maria della Pace. Sotto le logge della stessa chiesa, lui ed altri come lui ogni sera distendevano il loro giaciglio.

La loro era diventata un’amicizia, un’amicizia strana nata tra i viali del cimitero; ma non lo vedeva da un po’. A Gerardo nei giorni di sole invernale o in primavera piaceva girellare tra quei vialetti; si soffermava davanti a certe tombe, magari colpito dall’espressione particolare di qualche defunto, commentava tra sé, tra l’ammirazione e il dispiacere l’avvenenza di certe giovani donne, si mostrava costernato davanti alle tombe dei bambini. Poi si sedeva su una panchina, ma non era triste; diceva che nel cimitero si sentiva bene.

Guido ci ragionava volentieri; avvertiva sintonia con quell’uomo più che con tante altre persone, le cosidette persone normali. Lo portava tra le tombe indicandogli, delle ultime tumulazioni, ciò che lo aveva colpito di più: – Pensa Gerardo... i nipoti di questa signora parlavano di sport mentre con la pala escavatrice riempivo la fossa... guarda quest’uomo ancora giovane; ho sentito che è morto per un tumore e che ha sofferto. Non voglio giudicare nessuno, chissà come sono andate le cose... ma la vedova non era certo sofferente e pareva aver tanta fretta... boh... –

Gerardo prima annuiva attento, diceva brevemente la sua, mai una cosa banale, ma poi volgeva lo sguardo nel vuoto; non era proprio un chiacchierone. A lui tuttavia, quando era meno melanconico, piaceva parlare della propria vita da giovane quando faceva il taglialegna nelle foreste della Moldavia e dell’Ucraina. Gli raccontò almeno tre o quattro volte, in maniera sempre uguale, di quando un giorno ebbe ad incontrare un orso a tu per tu, e di come fosse riuscito ad uscirne incolume: – Quell’orso sento adesso che vive in me... anch’io sono un vecchio orso... – concludeva sorridendo.

Guido viveva i momenti più piacevoli quando il moldavo, con la sua voce da basso, intonava certi canti religiosi in greco antico. Lui era di religione ortodossa e quei canti, al Guarducci che ricambiava da par suo con qualche brano del “Jubilate Deo”, gli erano completamente sconosciuti e lo affascinavano. Tra gli assorti visitatori del cimitero, e qualcuno rallentava anche il passo per osservare meglio quella strana coppia seduta sotto i pini del parcheggio, non avendo il Guarducci l’incoscienza di cantare sia pur sommessamente tra le tombe, alcuni sorridevano, altri inarcavano la fronte, perplessi.

Quella sera invece avrebbe voluto parlargli del suo stato d’animo, così inquieto e dolente come non mai. Ne aveva proprio bisogno. Sapeva che lui lo avrebbe ascoltato. Gerardo non aveva istruzione e non era un logorroico, ma almeno era persona che sapeva ascoltare.

Non lo vedeva da dieci giorni, da quando un mercoledì mattina, ed era una novità perché in passato nei giorni feriali lui era occupato dal lavoro, lo aveva portato in un bar a fare colazione. Ma il moldavo quella volta non mangiò quasi nulla, disse che non si sentiva troppo bene.

– Guido, arrivato in vista delle logge, buttò subito lo sguardo a quei monticelli che sembravano fatti di cenci, ma che invece celavano, rinvoltati per il freddo, degli esseri umani. Adesso aveva le mani vuote, ma altre volte non aveva mancato di portare con sé qualcosa di caldo e qualche dolce e non solo per Gerardo.

Il vento aveva cessato di soffiare ma in compenso aveva ripreso a piovere gocce lente e gelate. – Non mi ci sono ancora abituato a vederli così... con questo freddo. – pensò l’ex operatore cimiteriale. – Io creperei dopo qualche giorno... – Lui ci rimuginava ogni tanto; più di una volta era stato sul punto di invitarlo a dormire a casa sua, ma poi cambiava idea; il suo coinquilino, quella persona spiacevole come spesso gli veniva di definirlo, non l’avrebbe permesso. Ma subito dopo l’assaliva il dubbio che quella fosse in realtà un’utile e provvidenziale scusante: – Mi ritengo un cristiano, giudico gli altri quando in chiesa invece di cantare o pregare parlottano, mi sgolo con il “Te Deum”... e poi... –

Immerso in quei pensieri inquieti si era intanto avvicinato all’angolo dove abitualmente il moldavo sistemava il suo precario giaciglio. L’anziano senza tetto non dormiva molto, ma se l’avesse trovato già addormentato, non l’avrebbe svegliato. Al posto suo ne trovò un altro; lo conosceva, era un marocchino, si chiamava Said. L’uomo, coricato su un fianco si accorse della sua presenza e si girò dalla sua parte: – Tu sei Gino, vero? – mormorò piano, poi fece silenzio, guardandolo. Il Guarducci ebbe la strana sensazione di un’attesa, come di un qualcosa che lo riguardasse.

– Gerardo è nelle mani di Dio, Allah Akbar. – Gino capì subito che cosa voleva dire, ma non se lo aspettava. Le gambe gli si fecero molli e sentì il bisogno di accucciarsi sui talloni: – Come è successo?... quando? – Tre giorni fa... era già abbastanza tardi e lui non si alzava... lo sai che alle sette e mezzo bisogna fare pulito qui... era già rigido, penso che sia morto durante la notte, ma non di freddo... era ben coperto. ­–

Sul momento rimase muto e interdetto, poi si riprese e lo ringraziò pur non sapendo bene di che cosa. Forse del senso di solidale umanità che l’arabo gli aveva saputo trasmettere in quelle poche parole; non riuscì a nascondergli i propri occhi fattisi lucidi.

– Era ormai tardi e a casa vi trovò il vecchio coinquilino che, ancora alzato si stava facendo una camomilla. Il gatto che sembrava dormisse nel suo angolo si alzò di scatto e gli andò incontro strisciandosi sulle caviglie.

Non sentiva nessuna fame ed era esausto, quindi si avviò per andare a letto ma prima di chiudere la porta della sua camera, come se la morte del senza tetto, dal profondo del suo mistero gli avesse singolarmente smussato certe insignificanti e vecchie croste, con voce calma salutò: – Buonanotte Ezio. – L’uomo ebbe un impercettibile moto di sorpresa ma poi si volse verso di lui: – Buonanotte Gino –

Non era cosa comune per loro darsi la buonanotte e, prima di cadere nelle braccia di Morfeo considerò quella cosa come una sorta di lenitivo al suo malessere. In quella giornata aveva subìto male l’indifferenza della gente e solo alla fine di essa, insieme al dolore per la perdita dell’amico, aveva scorto alcuni barlumi di umanità, non solo nel marocchino ma anche in quel vecchio.

– Al mattino seguente Guido seppe che il corpo di Gerardo era stato tumulato nel cimitero comunale a spese dell’amministrazione. L’uomo aveva documenti con sé e il permesso di soggiorno prorogato di anno in anno in forza del suo vecchio mestiere di muratore quindi, sulla povera tomba ancora fresca di terra smossa vi trovò scritto il suo vero nome: Ion Munteanu.

La giornata era di un bel sole freddo e splendente e nei pressi vi aveva trovato una seggiolina di quelle ripiegabili, così vi sostò a lungo, contemplando ciò che era rimasto del suo amico. Sotto alla spartana croce di legno vi aveva deposto un vaso con dei fiori freschi.

– Certo che alla Misericordia tu ci stavi meglio Gerardo... ma non è poi tanto male... guarda, il sole è lo stesso... – Dopotutto il suo amico non era mai stato di troppe parole e la conversazione si stava sviluppando quasi nello stesso modo di sempre. Mormorava a voce bassa, non volendo attirare troppo l’attenzione; quel quadro era fatto di tombe fresche e vi sostavano diversi visitatori.

Gli parlò allora del vero motivo della visita della sera precedente sotto le logge della chiesa “Della Pace”. Si accorse tuttavia che il suo malessere, quel fantasma che in quel mese lo aveva fatto star male, dal momento in cui aveva avviato ad argomentarne le cause e gli effetti, sicuro che Gerardo lo stava ascoltando, stava facendo dei passi indietro.

Il giorno successivo ritornò alla tomba di Ion Munteanu ancora più sollevato. Il giorno dopo ancora gli sembrò di vedere le cose con altri occhi, occhi positivi di chi non dovesse più guardare al passato, ma al futuro, un futuro di speranza. Si convinse che quello sguardo nuovo fosse frutto dell’ascolto saggio di Gerardo e di certe sue concise parole di sapienza, il cui suono grave di moldavo gli pareva di sentire nel profondo del cuore.

– Allora, non importandogli di essere osservato, slungando il collo magro come volesse far arrivare il suo canto fino al cielo, non resistè alla voglia di intonare l’antico canto di esultanza: – ... Exsultet iam angelica turba caelorum... –

  – fine –

IL LABIRINTO

IL LABIRINTO

IL LABIRINTO DI CRISTO

– Alle quindici e trenta, come avevo sperato, ero davanti alla porta di via Ghibellina, 36. Arrivato a Santa Maria Novella con un po’ di ritardo, mi ero affrettato e adesso stavo riprendendo fiato. Davanti a quel portone di vecchio mogano non c’era nessuno e il sole di fine giugno cominciava a picchiare; mi misi a sedere sullo scalino ma non ero impaziente.

La mia attività di scrittore mi aveva portato nella città di Dante in altre occasioni, ma quella volta non avrei avuto impegni importanti di lavoro se non, in quello stesso pomeriggio, la consegna di una versione cartacea all’editore Akros; per quel motivo avevo preceduto mia moglie di tre giorni, ma era una vacanza. Lei era nella commissione d’esami di terza media e aveva avuto da ridire di cotanta partenza anticipata; io invece avevo quasi cercato quel pretesto per aspirare un po’ di profumo di libertà.

In treno, mentre dal finestrino scorrevano le immagini della campagna toscana e i filari dei cipressi, mi era venuto in mente un fatto accaduto quand’ero ancora ragazzino e visitavo la città per la prima volta con la mia famiglia.

– Fabrizino, strofina... strofina forte il naso al porcellino... vai, non aver paura. – Ricordo che quella bocca mi atterriva e non lo volevo fare, allora il babbo mi sollevò, avevo sette anni e facevo la prima elementare, e mi costrinse a toccarlo. La monetina sulla lingua del cinghiale messa poi da lui finì davvero nella fessura. – ... bravo, hai visto? ... t’aspetta tanta fortuna amore mio. – esultò mamma Gina, strapazzandomi di baci. Ma io piansi e misi il muso per tutto il giorno.

Provo ancora irrazionale diffidenza nei confronti delle statue animalesche, forse anche perché, due settimane dopo quella vacanza che ricorderò per tutta la vita, i miei genitori rimasero entrambi vittime d’incidente stradale. Sono poi cresciuto con una zia, la zia Luigia a cui sarò grato per sempre e, tuttosommato la mia vita ha girato nel verso giusto.

Rimuginavo ancora quel ricordo mentre stavo osservando quel va e vieni di gente di tutti i colori; i turisti passavano a frotte, con il cappellino e con l’operatore turistico sbandierante il suo cartello.

– È lei il signor Mancini? – La vocina che richiamava la mia attenzione ancora protesa verso un gruppo di giapponesi sorridenti era di una donna sulla cinquantina, esile, un po’ scialba con indosso ancora il suo grembiule di cucina, e con un mazzo di chiavi in mano: – Benvenuto, venga, le faccio strada. – Il portone centrale dava su un landrone oscurato di piacevole frescura, dal quale attraverso una pesante porta di metallo a vetri si accedeva per ampie scale di pietra scura al primo piano. Qui la donna prese una chiave di tipo antico che fece girare con qualche difficoltà nella serratura con uno scandito rumore metallico. Era un bell’appartamento di un palazzo ottocentesco che, sul retro, dava su un cortile verde di piante e d’erba un po’ incolta.

– Lei è solo? – Chiese la signora. Le spiegai che sarebbe dovuta arrivare anche mia moglie, ma non subito. – Le auguro un buon soggiorno... se ha bisogno, chiami... – disse tentando un sorriso frettoloso. Mi accorsi troppo tardi che quella donna si era dimenticata di lasciarmi il mazzo delle chiavi, sicchè corsi giù per le scale: – ... signora, signora... le chiavi! – Fu un attimo; un piede non trovò l’aderenza dello scalino, una pietra consumata e scavata, e ruzzolai giù sbattendo anche un gomito contro la ferrea porta a vetri. Esitai ad alzarmi; la caviglia mi faceva male da morire e quando arrivai al portone e con fatica lo aprii, guardai subito a destra e poi a sinistra chiamando con un filo di voce, perché quello mi era rimasto, ma la donna si era dileguata tra la gente. C’era solo da tornare al piano, da dove avrei chiamato il numero telefonico di riferimento. Fu uno sforzo titanico arrivare alla porta dell’appartamento zoppicando e anche il gomito cominciava a dolere.

La porta però, nella concitazione della fretta si era chiusa e il cellulare, come mi accorsi subito sbigottito, era rimasto nello zaino. Mi misi le mani tra i capelli, ero smarrito e dolorante e non potei fare altro che accucciarmi sul cotto del pavimento ed appoggiarmi con la schiena alla parete dell’andito.

– E lei che ci fa qui? – fu la diffidente domanda della signora che, aprendo la porta dirimpetto, mi vide in quello stato. Poi si accorse che stavo male: – ... mi scusi, ma lei ha bisogno d’aiuto? – Sì signora... ho una caviglia distorta e sono rimasto fuori. – Le spiegai l’accaduto, così chiamò subito il 118 che accorse e mi portò al pronto soccorso.

Nell’attesa dell’autoambulanza mi aveva fatto usare il suo telefono: – ... sei sempre il solito distratto, amore; se manco io, ti perdi. – fu la reazione di Margherita. Purtroppo lei aveva soltanto l’indirizzo dove tre giorni dopo mi avrebbe dovuto raggiungere. I dati che mi aveva fornito Airbnb, compreso i numeri di telefono utili erano nel mio MacBook, anch’esso nello zaino.

Mi propose il telefono di un mio vecchio amico fiorentino, un antiquario affermato. Inoltre a Prato lei aveva una cugina con cui manteneva rapporti ancora stretti, così mi dette anche il suo, di numeri:

– Non si sa mai Fabrizio, se non trovi l’antiquario telefona ad Alessia, sarà contenta di darti una mano.... piuttosto, allora icchè fo?... – come icchè fo? – che domanda, non ci badare... certo che ti raggiungo domani... cosa puoi fare tu da solo... – fu la sua conclusione. A quella sarcastica presa in giro non ebbi voglia di ribattere; mi giravano già abbastanza: – Sì brava... poi ti aggiorno. –

– Uscii dal pronto soccorso di Santa Maria Nuova dopo qualche ora, zoppicante e affamato; dal taxi mi feci scaricare in piazza della Repubblica davanti al caffè Gilli dove estinsi la fame. Poi, comprato un telefonino di poco conto chiamai il dottor Settesoldi ma non mi rispose. Riprovai più volte ma niente. Non mi restava che ricorrere alla cugina Alessia ma, mentre ne digitavo il numero cambiai idea. – È bravissima e mi vuole bene ma è un po’ “entrante” – Mi ricordai del modo in cui mia moglie usava descriverla. A Prato con quel termine si usa disegnare una persona bonariamente invadente e la cugina lo era ancor di più, s’intende per affetto, impicciona e ficcanaso; vi rinunciai.

Invece volevo trovare il modo per entrare nell’appartamento di via Ghibellina; inoltre non capivo perché l’antiquario Settesoldi non rispondesse tuttora a telefono. Ormai era sera tardi così trovai una camera in un alberghetto sui lungarni, carissima.

Al mattino dopo, poiché avevo un cellulare di quelli poco intelligenti con il quale non potevo accedere a internet, mi decisi di tornare ancora zoppicando dalla mia dirimpettaia di via Ghibellina, confidando nella sua pazienza. Avevo la speranza che nel frattempo la mia padrona di casa, accortasi della dimenticanza fosse tornata indietro e magari avesse consegnato la chiave alla signora.

Di chiavi neanche l’ombra ma lei fu ancora molto gentile, mi fece accomodare e, mentre mi preparava un caffé formai il numero verde di Airbnb il quale però rimaneva costantemente occupato.

– Mi vanno proprio tutte male, signora... non riesco a parlare neppure con l’antiquario Settesoldi qui di Firenze, che conosco... speriamo almeno di rintracciare la padrona dell’appartamento. –

La donna che si era distratta per calmare il suo canino che mi stava noiando e annusando con pervicacia, si voltò di scatto: – Scusi, come ha detto?... può ridirmi quel nome? – ... che nome? intende l’antiquario? – Sì, come si chiama quel suo amico, come l’ha chiamato? – Settesoldi Enrico si chiama, perché? – La donna andò a prendere La Nazione; l’aveva lasciata aperta proprio alla cronaca cittadina: – Mi pareva, guardi... non è un nome tanto comune. –

Lessi il titolo: – Un noto antiquario ucciso a coltellate durante un furto. – Non riuscivo a realizzare finchè non lessi anche il “catenaccio” dell’articolo: – Il dottor Enrico Settesoldi trovato nel suo lussuoso negozio, in un lago di sangue. –

Mi dispiaceva davvero. Enrico era stato un amico, avevamo fatto insieme la facoltà di lettere e filosofia alla Sapienza; anzi, da studenti condividemmo per due anni lo stesso mini appartamento, anche se non avevamo proprio gli stessi interessi. Stavo leggendo d’un fiato l’articolo ed ero ancora incredulo quando trillò il mio stupido telefono: – Chi parla? – fece una voce forte. – Come sarebbe chi parla, lei chi è, chi gli ha dato il mio numero? – Ero meravigliato, avevo acquistato una Sim usa e getta e nessuno poteva saperlo.

– Sono il commisario Benedetti della Squadra Mobile, abbiamo trovato il suo numero tra le chiamate all’antiquario Settesoldi. Lei chi è? – In un lampo compresi: – Sì ho telefonato io, ho saputo solo da pochissimo che è stato ucciso. 

Spiegai come era andata e acconsentii a che mi venissero a prelevare per una deposizione. Ero costernato ma ci andai senza problemi; almeno ne avrei saputo qualcosa in più. Il commissario mi chiese anzitutto se lo conoscevo bene. – L’ho conosciuto bene, commissario; ma da anni lo frequentavo poco o niente. – Lo misi al corrente degli anni condivisi all’università senza entrare in particolari, poi gli dissi, ma non ricordo come facemmo ad entrarci, che ero scrittore di romanzi storici e la cosa lo incuriosì.

Mi chiese che cosa ne pensavo di questa brutta storia: – Mah... ne volessi fare un romanzo storico, proverei a collegare la cosa con uno dei tanti misteri della Firenze antica. – Mi guardò perplesso: – ... e perché mai?, per la presenza di oggetti di antiquariato? – Ero lievemente imbarazzato, l’avevo buttata lì senza una vera ragione, solo per istinto di narratore oppure per una reazione di tipo manieristica; tuttavia mormorai: – può anche darsi... –

Di una cosa quel poliziotto era perplesso; da una prima ricostruzione fatta dal suo commesso, dal prestigioso negozio non mancava nulla, l’assassino non era un ladro. Il che apriva il caso ad un ampio ventaglio di possibilità. Non c’erano segni di effrazioni, né erano state rilevate impronte digitali.

Saputo poi della disavventura delle mie chiavi, in pochi minuti fece rintracciare la donna con il grembiule togliendomi da quell’inghippo. – Grazie commissario, e se ha bisogno ancora di me, sono a sua disposizione. – Non dubiti... e non le perda di nuovo quelle chiavi, mi raccomando. – ... non le ho perse io, commissario... – ma mi interruppi vedendo il ghigno sorridente del funzionario. Era un bel tipo che, ogni tanto come ebbi modo di constatare in seguito, amava metterla sullo scherzo.

In taxi ripensai subito al motivo per cui avevo omesso un particolare; forse, anzi sicuramente come mi dissi in quel momento non aveva alcuna importanza, ma allora perché non gli avevo detto che il Settesoldi avesse tendenze omosessuali? È vero che all’epoca non dissi mai a zia Luigia, donna apprensiva e molto cattolica, che il mio compagno di appartamento fosse gay. Ritenni chissà, che avrebbe decisamente arricciato il naso ad esprimere la sua preoccupazione e il suo dissenso. A me, pur avendo personalmente gusti molto diversi, non importava molto; d’altra parte con me era sempre stato corretto. Mi dava più fastidio il suo carattere debole, incline allo scoraggiamento; più volte mi toccò a motivarlo nel proseguimento dello studio che gli era ostico.

– Margherita, non importa che tu parta... fai tranquillamente il tuo lavoro con gli esami... ho tutto risolto e il piede va bene... – ... e perché non vuoi che venga prima... mi nascondi qualcosa, eh?... – come vuoi cicciona, non ho niente da nascondere... piuttosto la sai la brutta notizia? C’è sul giornale a Roma? il Settesoldi è stato accoltellato. – ... nooo, ma che dici? – Margherita era colpita e chiese particolari. Poi concordò che non fosse il caso di sconvolgere la commissione: – Arrivo dopo domani, ma te... comportati bene eh? – concluse ridendo. Noi facevamo sempre tutto insieme e amavo con sincerità mia moglie, ma in quel momento sentivo di essere contento di stare un po’ per conto mio.

Zoppicavo ancora ma volli andare alla fontana del Porcellino. Dal giorno di quell’episodio infantile, ci ero passato frettolosamente una volta o due, ma senza mai fermarmi.

Mi misi a sedere su uno scalino lì non distante. Nonostante la presenza di gente curiosa che vi sostava davanti, mi sforzai di isolarmi per rivivere quel ricordo lontano, avvolto nella nebbia del tempo.

Fui distratto dalla voce di un ragazzino; poteva avere la stessa mia età di allora: – Guarda, qui a Firenze c’è anche la testa di un toro... guarda... – Poi si rivolse verso il gruppo degli adulti: – babbo, si va a vedere anche il toro? – urlò mentre mostrava all’amico la pagina della guida turistica. Capii dai commenti che gli avrebbero dato retta, avviandosi verso la facciata della cattedrale.

Li seguii pian piano a distanza; anch’io ero incuriosito dalla testa di toro. Anche se il mio lavoro mi portava a ricercare certi particolari di fatti storici che mi ispirassero, non avevo mai fatto troppo caso a quella strana scultura posizionata sul lato sinistro della cattedrale ad una discreta altezza. Il motivo di quella presenza insolita era sempre stata oggetto di varie illazioni.

Come lessi su internet, finalmente consultabile con il mio smartphone recuperato, il sarcasmo dei fiorentini prediligeva da sempre la versione del fornaio cornuto. Pareva che quella testa fosse stata messa proprio lì per vendetta dal carpentiere amante della moglie del fornaio, il quale li aveva denunciati e fatti condannare come adulteri.

Sentii vibrare nella tasca l’I-phone; ero entrato nella cattedrale e avevo tolto la suoneria. Lessi sul display: Commissario Benedetti. Avevo anche pagato il biglietto ma mi affrettai ad uscire. Mi chiedeva di tornare al commissariato con urgenza. Ad un controllo più accurato si era scoperto la scomparsa di un oggetto che, oltre ad essere prezioso, era particolarissimo.

Il commesso, un uomo molto alto, magro e bruno, aveva un viso particolare, allungato e ossuto, con la poderosa mascella inferiore sporgente. Inoltre ostentava, cosa molto singolare al giorno d’oggi, due folti favoriti sulle guance alla maniera ottocentesca. Disse che il pezzo mancante fosse un piccolo dipinto cinquecentesco, parte di un polittico raffigurante nell’insieme il dodicesimo canto dell’inferno dantesco. Quel dipinto era, o ne era stato fino a quel momento, l’unica parte rimasta. Le altre parti erano state trafugate molto tempo prima al museo Ermitage di Pietroburgo, però ne esisteva la foto.

– Ce la fa vedere? – chiese il Benedetti all’uomo che era venuto di sua iniziativa al commissariato ad esporre la scoperta. – Certo, eccola qui. – rispose con voce bassa e profonda.

L’uomo, nonostante la stagione estiva, portava un severo abito di lana pettinata completo di gilet e tutto di color antracite, meno la cravatta regimental rossa e blu. Osservandolo mi venne di sorridere; nonostante i favoriti, mi ricordava la figura di Learch, il maggiordomo della famiglia Addams. Tuttavia, per qualche istante, ebbi anche la sensazione di aver già visto da qualche parte quella strana figura, ma pur frugando nella memoria non ne venni a capo.

– Il commesso estrasse dalla sua cartella di cuoio nero e consunto una foto rettangolare che il Settesoldi usava mostrare insieme al dipinto superstite. Il polittico, pur mancante della prima parte, quella adesso rubata, mostrava in tutta la sua liricità il VII cerchio dell’inferno dove il divino poeta aveva immaginato esser punite le persone violenti e lussuriose. Mentre il dipinto mancante, la cui riproduzione l’uomo serioso mostrò aprendo una lussuosa brochure, raffigurava il Minotauro, il mostro metà uomo e metà toro, messo a guardia di quel cerchio infernale. La pittura ad olio era scura e piccola di dimensione.

– Non capisco... ma è solo una mia valutazione personale, eh intendiamoci... diciamo che qualcuno ha commissionato il furto, va bene... ma che godimento ne troverà guardando questo quadretto, eh? – mormorò il commissario mentre dava un’occhiata di sbieco all’uomo con i favoriti, e piegando la bocca in un mezzo sorriso. – ... ammesso che non sia costretto a tenerlo nascosto nel caveau di una banca. – aggiunse infine.

Il commesso lo guardò in modo strano; pareva che dissentisse ma non aprì bocca. Ma poi il Benedetti rincarò la dose: – Se non fosse per l’assassinio del signor Settesoldi, di cui sono profondamente rammaricato, signor? ... – Lapo Barbolani di Montauto, per servirvi... signor commissario. – rispose il commesso, facendo un leggerissimo accenno di inchino. – Ecco, signor Barbolani, direi, con tutto il rispetto, che questa gente ha fatto una gran bischerata... ne conviene dottor Mancini?... ha un senso una trama come questa? eh?... ha senso uccidere una persona per questo mezzo toro? – Esitai un po’ per pensare alla risposta, ma non ebbi il tempo di proferire alcunché.

– Il dottor Settesoldi gli attribuiva un grande valore sentimentale, per quanto io abbia più volte personalmente constatato... – replicò invece al posto mio il lungo commesso con una voce che mi sembrò diventata più tenorile, più nervosa – ... una volta rifiutò perfino una grossa offerta... – soggiunse, mentre guardava il commissario con occhi fermi. Dopodiché l’uomo chiese il permesso di andarsene dicendo che aveva da fare una commissione urgente.

Non sapevo il perché ma il Benedetti teneva alla mia opinione. – Come lo vede... ehm... questo commesso, sempre dal suo punto di vista di romanziere, Mancini? – Usava questa formula e io stavo al gioco volentieri. Pensavo, con un po’ di pudore, che tutto questo mi potesse venire utile per un nuovo lavoro. Ritenni di parlargli dell’antiquario e della sua omosessualità: – Sa, magari non serve a niente, ma ho voluto dirglielo... riguardo al commesso non mi è sfuggita l’occhiata che le ha dato mentre diceva della grossa offerta. – Lo ha visto anche lei eh?... questo qui sa più di quello che sembra. – concluse scrollando le spalle.

Rimanemmo in silenzio, poi quasi a cambiare argomento aggiunsi: – sa che questa è la giornata dei tori? – Gli raccontai della testa bovina sulla facciata di Santa Maria del Fiore e della versione popolare riguardo al fornaio cornuto.

– Chi sa se le due storie non abbiano qualcosa in comune... – mormorò il poliziotto, sorridendo di un sorriso storto, malizioso, molto fiorentino, o pratese; anche mia moglie pensai, a volte aveva quell’espressione ambigua e divertita.

– La sera dopo aver cenato, ero sulla spalletta del Ponte Santa Trinita a frescheggiare e a riflettere. Davanti avevo le luci del Ponte Vecchio e sentivo il brusio delle voci delle persone accalcate tra i suoi negozi. Stavo rimuginando su quel sorriso storto, sullo sguardo del commesso, al carpentiere e alla sua amante.

In piazza della Signoria, sempre stupenda nonostante la ressa dei turisti, mi accomodai a sedere per un gelato e aprii il Mac. Lessi che i Barbolani di Montauto erano una famiglia aristocratica tra le più antiche. – Il nostro LeArch ha sangue nobile, si vede... sarà di un ramo decaduto. –

Era una deformazione professionale; lo portavo quasi sempre con me nello zainetto. Una fissazione, come diceva invece Margherita. Squillò il telefono, era proprio lei: – Che stai facendo Andrea?... ti controllo sai? – disse accompagnandosi con una sonora risata. La voglia di libertà e di solitudine che avevo reclamato per me come un adolescente, fu presto confusa da quella voce e dal quel riso: fosse stata lì l’avrei abbracciata e baciata.

Non avevamo figli, non erano venuti. Dicevamo di essere ugualmente felici, avevamo tanti interessi, ma nel fondo sentivamo entrambi qualche scricchiolio e la vacanza, senza dirselo, speravamo potesse servire anche per aggiustare qualcosa: – Ma che rompi anche quest’ora eh?... sto mangiando un gelato, un buon gelato – le dissi invece. – Sei uno stronzo... senti, ti ho mandato una foto. Sai mi hanno colpito molto quelle pugnalate al povero Settesoldi. Ho letto sul Messaggero che la sua attività non andava tanto bene, lo sapevi? –

No, non lo sapevo ed ero meravigliato. – Ma che foto mi hai mandato? – È una dell’università, l’ho fotografata, ho pensato che ti facesse piacere rivederla; siete un bel gruppo e tu eri molto più bellino. – Rise; poi riferì del suo esame e infine salutò.

Aprii whatsapp e la trovai. Per la verità era un gruppone, forse in occasione di una cena; poi lo vidi. Ecco dove l’avevo già visto. Lì non aveva quei ridicoli favoriti e quasi sorrideva; ma era lui, Lapo Barbolani di Montauto. Non seguiva con noi i medesimi corsi, sennò l’avrei ricordato meglio, ma era accanto al Settesoldi e gli teneva la vita con il braccio. Enrico invece si appoggiava a lui con una mano sulla spalla.

– ... quindi non era un comune commesso, Mancini. Presumibilmente era o era stato il suo compagno. Questo non è in contraddizione con quanto abbiamo appena rilevato. A proposito, io mi sto fidando di lei, visto che mi è stato di aiuto, ma lei non faccia il bischero, eh? – Gli dissi che poteva dormire tranquillo e che avevo a cuore la scoperta dell’assassino. Quel mattino mi ero subito diretto in via della Fortezza, al commissariato; mi pareva importante riferire quella precisazione.

In effetti, come proseguì a dire il Benedetti, l’impresa commerciale del Settesoldi, aldilà delle apparenze e delle ricche brochures, era in stato quasi fallimentare. La versione ufficiale era che avesse fatto dei grossi acquisti sbagliati, oggetti non vendibili; c’era anche da supporre che l’antiquario fosse coinvolto in una rete di traffico di opere d'arte, non sarebbe stata una novità, era una tentazione ricorrente nel mondo dell’antiquariato. – Tuttavia questa è solo una delle tante piste da seguire. – E il ruolo in questa storia di LeArch... scusi, volevo dire del Barbolani? – chiesi allora.

– Di che LeArch parla Mancini? – In realtà aveva capito e sogghignò divertito: – Riguardo al Barbolani, e questo è certo, oltre che suo compagno come direbbe lei, era stato anche suo socio. Aveva firmato delle fidiussioni e ciò, a quanto pare lo rendeva nervoso. Riuscì a liberarsene, uscì dalla società ma rimase suo dipendente, ben pagato; forse perché sapeva troppe cose.

Rimanevano tanti interrogativi, aggiunseChi lo ha ucciso, il motivo delle tante coltellate, il significato del furto del Minotauro. Era stato quel furto il motivo accidentale dell’assassinio, o era stata la concorrenza spietata nel traffico di oggetti d’arte, o una vendetta?

– Quella notte non riuscii a dormire bene, tanta era l’agitazione e tanto era il caldo, nonostante le mura spesse dell’appartamento e le finestre spalancate. Era un giugno anomalo, mai si erano registrate quelle temperature all’inizio dell’estate. Sognai una testa di toro.

Verso le undici del giorno seguente, dopo una visita al Museo del Bargello che non avevo mai visto, mi affacciai al commissariato. Il piantone mi fece passare subito in sala d’aspetto. Il Benedetti era occupato e dopo mezz’ora ero ancora lì e sfogliavo la rivista della Polizia. La foto d’epoca della Volante in copertina era molto bella. Era un’alfa Romeo Giulietta, con colori bianco e azzurro e la pantera nera disegnata sui lati. Non c’entrava nulla, però mi venne in mente il commissario; me lo figuravo alla guida ma non sapevo nulla della sua vita privata: – ... eppure anche lui ne avrà una, con i problemi di tutti, con le sue idee. – Era persona riservata ma allo stesso tempo sapeva essere spiritoso. In quel momento passò proprio lui; mi vide con la coda dell’occhio e fece un passo indietro: – Mancini, ha dormito qui stanotte? È sempre qui... la faremo detective, le piacerebbe?... venga con me. – Lo seguii nel suo ufficio.

– C’è un fatto nuovo; un testimone, un vicino di casa asserisce che il morto fosse coinvolto in riti esoterici, ma non è sicuro. Forse riti massonici; lo scoprì una volta per caso e non vuole che si faccia il suo nome, per ora. – Il commissario mi chiese se sapessi qualcosa a riguardo di tali pratiche occulte. Gli dissi che ero in parte informato sugli ambienti segreti e le sette misteriche, ma non più di tanto e inoltre non avevo mai avuto esperienze dirette.

Mi meravigliava il fatto che mi mettesse al corrente con così tanta libertà. Seppi soltanto dopo qualche mese che il Benedetti, in seguito delle nostre conversazioni, avesse fatto cercare in libreria alcuni miei romanzi e si era messo a leggerli, a cominciare da: “Per filo e per Segno” il mio best seller; ma senza dirmi nulla. In seguito seppi anche un’altra cosa ben più significativa; il commissario, sessantenne, vedovo e a fine carriera aveva un figlio della mia stessa età, tetraplegico. Lo teneva in casa con l’assistenza di un infermiere professionista e con lui trascorreva tutto il suo tempo libero. Aveva preferito non ricoverarlo in una qualche struttura.

– ... la cosa è un po’ intrecciata. – gli dissi appena mi fece accomodare. – Fosse un romanzo, a questo punto non saprei come chiuderlo. – Davvero?... io confidavo invece nella sua immaginazione. Sa, conta molto nel nostro lavoro l’immaginazione... o l’intuito che ne è parente stretto. –

 

– Quel discorso mi colpì e mi punse nell’orgoglio. Tornai a casa, cioè nella casa della donna con il grembio e mi misi al computer. Buttai giù un complesso incipit dove tutti i vari elementi della storia avevano il loro posto, cercando di non tradire la cifra del mio stile, ma non riuscivo ad andare avanti. C’erano dei tasselli mancanti a cui la limitata fantasia non riusciva di sopperire.

Uscii, come soffocato dalla mia impotenza e mi recai in una libreria specializzata, sperando di trovare qualche testo che mi regalasse un’idea. Un impiegato, un uomo anziano con dei lunghi capelli bianchi e occhiali spessi, mi indicò con fare frettoloso alcuni libri. Trascorsi qualche tempo a leggere e ad annotare certe cose che, come potei constatare, la ricerca elettronica non offriva. Per non trascurare nulla cercai di collegare, tra l’altro, i riti in questione e il furto del Minotauro.

Nulla di preciso ma ne scaturì un’ipotesi intrigante; il quadro rubato poteva avere un significato simbolico e la sua scomparsa poteva aver scatenato la rabbia di qualcuno. Stavo per uscire da quella libreria molto sui generis con una buona idea letteraria, ma tutto sommato con niente di concreto, quando il vecchio dalla capigliatura candida mi porse furtivo un biglietto. Feci per interloquire ma lui si allontanò subito senza dare nessuna spiegazione. Sul foglio c’era semplicemente annotato il nome di una chiesa. Perplesso, dopo qualche passo mi misi a sedere all’ombra di un palazzo di via Cavour su uno scalino. Seppi, con Google Map, che si trattasse di una chiesa sconsacrata del cinquecento e situata in aperta campagna sulle pendici del Monte Morello. Le visite, essendo di proprietà privata, erano precluse. Ero incerto se avvertire o no il commissario, ma decisi di no; era un indizio misterioso ma molto vago e temevo di fargli perdere del tempo.

Vi arrivai con un taxi in una ventina di minuti; il caldo del primo pomeriggio era asfissiante, le pietre calcaree di quell’inizio di costa montana ribollivano di calore e le cicale frinivano in modo ossessivo sulle rade piante. Mi ricordai di quanto avevo letto di quegli insetti. Quel suono era emesso soltanto dal maschio con il solo scopo dell’accoppiamento; mi chiesi come ne avessero così tanta voglia con quel caldo.

La chiesa, che appariva sconnessa e trascurata in mezzo ad un prato incolto, aveva il portale chiuso ma non sprangato. Con una spinta più decisa si aprì. Richiusa con cura la porta, all’interno vidi un ambiente tutto diverso. Alcuni candelabri che trovai accesi ancora per poco, con le fiammelle tremolanti ormai arrivate alla fine del moccolo, illuminavano incerti alcuni affreschi sbiaditi. Raffiguravano scene bibliche e simboli che, grazie al mio studio accellerato in materia, riconobbi come simil esoterici.

Ero senza fiato. Avvertii come un senso di sacralità e allo stesso tempo di inquietudine, come fossi entrato in un luogo proibito; gli occhi che provenivano dalla luce accecante del pomeriggio, si stavano abituando all’oscurità. Dietro l’abside, accanto a un grosso dipinto più dozzinale c’era una porticina che conduceva quasi subito ad un passaggio sotterraneo. Non senza un certo timore mi addentrai nel buio, armato solo dalla torcia elettrica dell’I-phone. Pensai che ero un incosciente ma ormai ero in ballo. Giunsi infine in una grande sala con un altare al centro. Era una cripta molto infossata rispetto al livello della chiesa. Sul muro dietro l’altare, notai incredulo una nicchia che conteneva proprio il piccolo dipinto rubato, quello del Minotauro. Accanto, attaccata al muro, c’era invece, così mi pareva, una riproduzione fatta da una moderna copisteria di un antico affresco. Questi raffigurava un labirinto circolare con in mezzo, la figura di Cristo.

Improvvisamente sentii un rumore di passi avvicinarsi. Mi nascosi dietro una spessa colonna ma ero impaurito come non lo ero mai stato. Apparvero due figure; una era quella di Lapo Barbolani di Montauto o LeArch, l’altra non la conoscevo. Trattenni il respiro e, a tuttoggi non mi spiego ancora come in quel frangente sia riuscito a dominarmi a tal punto. Parlarono a lungo e di quello che dissero, come se la memoria si incidesse a fuoco, non avrei dimenticato neppure una parola.

Finalmente i due figuri tornarono sui loro passi. Lasciai passare del tempo fino a che percepii silenzio assoluto; dal mio ingresso in quella chiesa era trascorsa più di un’ora. Fuori non c’era nessuno, solo in lontananza sentii il rumore di una macchina agricola. Accompagnato dal canto delle cicale che mi pareva adesso più esausto e, ringraziando il mio pur saltuario jogging, alternando passo svelto a corsa, in quasi un’ora arrivai, sudato matido, all’ospedale di Careggi dove sostava un provvidenziale taxi.

– Salii d’un balzo le fresche scale di pietra scura del mio palazzo e, dopo una bevuta degna di un cammello, estrassi dallo zainetto il Mac. Non avevo niente da inventare e finii svelto; la realtà, come si dice spesso a sproposito superava, questa volta davvero, la fantasia.

– Commissario devo farle leggere quanto ho scritto. – Ma se sono già le sei e mezzo Mancini... che fretta c’è; so che scrive bene, ma lo posso fare domani. – No, commissario, è importante, vuole che venga a casa sua? – E va bene... vengo io da lei. –

Il mio appartamento era accogliente e fresco. Benedetti era stanco e non lo nascose. Si sdraiò sulla poltrona di pelle allungando le gambe e, cominciando a sorseggiare il Fernet con ghiaccio che gli avevo preparato, con una mano teneva sui ginocchi il mio computer aperto su ciò che avevo scritto.

Ad un certo punto appoggiò il suo bicchiere e sollevò la schiena, guardandomi con aria interrogativa.

– E allora? gliel’hanno già detto che scrive bene, no? ... e la conclusione... – Ma non lo feci finire. Guardi che quello che ha letto non l’ho inventato... è tutto vero. – Come sarebbe a dire? –

Così gli raccontai tutto, dal libraio canuto alla conversazione carpita pericolosamente.

– Ma lei è pazzo... ha rischiato molto, lo sa... – Mi guardò meravigliato e per un istante rimase come assorto, poi d’un tratto si alzò: – Bisogna provvedere subito per il fermo dei due soggetti... vuol venire con me?... si ricordi che dovrà testimoniare. – Tutto si svolse nella sera stessa.

– Il nobile decaduto, che confessò dopo una settimana di strigenti interrogatori, era stato l’autore materiale del delitto. Si disse che nelle numerose coltellate si intravedesse l’ombra della gelosia, il sentimento tradito di un amore interrotto e tuttora vivo nel commesso, ma ciò non cambiava nulla nella sostanza.

La persona anch’essa arrestata, che aveva accompagnato il Barbolani nella cripta della chiesa dismessa era un egiziano, un personaggio pericoloso che trafficava nel mondo dei reperti antichi. Aveva preteso dal Benedetti il pagamento anticipato, una cifra molto importante per un lotto prestigioso di oggetti di valore, oggetti però intercettati dalla polizia egiziana. A quanto pare il Settesoldi esigendo la restituzione del denaro lo aveva minacciato e ciò aveva provocato la sua condanna.

Insieme a tutto questo, il mio antico compagno di università era anche stretto per la gola dal default finanziario. Da tempo Enrico non pagava i vecchi debiti contratti regolarmente con i fornitori e la banca gli aveva chiuso i rubinetti. Lo avevo conosciuto bene; era una persona di talento ma che nelle difficoltà annaspava, perdeva la lucidità e finiva per affogare.

Si disse che il commesso, sodale da tempo con l’egiziano, avesse simulato il furto del dipinto per sviare le indagini, ma non era esattamente così, o non era solo per quello; il Minotauro lì dipinto rappresentava veramente il simbolo demoniaco venerato da quella setta. Il Settesoldi, dopo un periodo di appartenenza a quel sodalizio, non tollerando la presenza dell’egiziano agli stessi riti, non voleva più che il dipinto fosse tenuto lì, sebbene per brevi periodi.

– ... lo abbiamo trovato ancora nella nicchia come lei stesso ha descritto. – diceva il commissario. – Le cose non sono sempre così come le vediamo – Sì, e vero, si mischiano tra loro come in un caleidoscopio a confondere realtà diverse. – aggiunsi.

– E il labirinto, Mancini, come si spiega? – Così com’è, con l’immagine di Cristo al centro che invita a percorrere un simbolico cammino verso la salvezza, è un’immagine riscontrata solo in due chiese nel mondo, due chiese templari. In questi riti invece gli adepti ponevano il Minotauro al posto di Cristo, per affermarne la supremazia come principe delle tenebre. –

Gli spiegai ancora che il labirinto in quanto tale e in particolare quel labirinto circolare fosse un archetipo posseduto da ogni civiltà del passato, compreso quella cretese. Proprio a Creta era nata la leggenda del crudele Minotauro, nato dall’unione tra la moglie di Minosse, re di Creta e un toro bianco, bellissimo e poi rinchiuso nel labirinto: – È una leggenda complessa, non la voglio annoiare. – Certo che lei sa un sacco di cose... – Non ci badi, sono tutte cose raccattate... piuttosto... ma il vecchio con i capelloni? – Lo abbiamo cercato, ma il titolare del negozio dice che è scomparso... eppure ero convinto che, avendola scambiata per un simpatizzante del demonio, l’avesse semplicemente indirizzata nel posto giusto. – concluse con il suo solito sogghigno divertito il commissario Benedetti.

Da quel giorno non ho più avuto modo di parlare con lui a quattr’occhi. Storcendo il suo solito sorriso, mi salutò con un cenno in occasione della mia deposizione giurata. Me lo ricordo ancora come una delle persone migliori che abbia mai incontrato.

La mattina seguente andai al binario tre a prendere Margherita. Anche la sua freccia Rossa era in leggero ritardo. Mi abbracciò con un trasporto che non mi aspettavo – Allora? come sei stato senza di me, eh? – Poi con le sue mani piccole mi strinse la faccia: – Fatti vedere, fatti vedere... ti sei annoiato eh?... dimmi la verità. – disse ancora scrutandomi negli occhi; prima di darmi un umido bacio. Arianna era venuta di nuovo a portare a Teseo il filo della vita.

– fine –

LOLA

LOLA

LOLA 1

– ... sola... son sola, m’ha abbandonata... che tristezza... son sola, sono sola, sola, sola... – Lola si era ripiegata sotto le coperte. Fuori rombava un temporale che, come un essere pieno di rancore ma infelice come Lola, s’aggirava intorno alla palazzina di via Acutis. Furente cercava di irrompere tra gli interstizi del rotolante, provocava sbatacchìi di porte, pareva graffiare i muri e camminare sul tetto; ora pareva minacciare, ora supplicare.

La donna infilò anche la testa sotto il pesante coltrone. Quell’essere che, come gemente di dolorosa impotenza era parso rabbonito, con un nuovo ululato ricominciava a slanciarsi contro la finestra che, stridendo, si opponeva all’odio del vento.

– ... perchè?, perché? ma cosa avrà lei che io non ho, eh?... eh?... – Rammentava sbigottita la sua voce tremante: – ... tu non mi credi... non mi puoi credere... lo so che non è possibile, ma io voglio bene a tutte e due. Ah! se potessi... ah se potessi... – Aveva pronunciato quelle assurde parole prima di chiudere la porta. Lei era rimasta immobile per qualche minuto fissando incredula le chiavi che l’uomo aveva posato accanto al telefono.

Il rombo del vento, il fragore dei tuoni lontani, il freddo che, insinuatosi dentro alle ossa faceva fremere la poliziotta, tutto si mescolava a quelle parole ancora risonanti nelle orecchie. Tutto veniva ad accumularsi in un’unica impressione, di un qualcosa di surreale. Un sentire che crebbe sempre di più e che si convertì alla fine in un cupo sonno.

– Eppure, quando si erano messi insieme le era sembrato di toccare il cielo con un dito. Lo aveva conosciuto una mattina allo sportello di ricevimento della Questura di Pistoia.

Lei, nonostante la contrarietà dei suoi genitori che l’avrebbero vista meglio come insegnante, aveva fatto con passione e terminato da poco il corso di preparazione teorica e pratica ed era adesso, a tutti gli effetti, agente di Polizia. 

Julian si era avvicinato, con fare timido, al suo sportello. Aveva trovato lungo la strada, vicino a un bancomat, un milione e cento mila lire in contanti in banconote da cento, ravvolte in una busta. Grazie alle telecamere della banca, erano riusciti a risalire ad una coppia di Lucca, titolari di una ditta con sede a Pescia, che distrattamente dopo un brusco litigio, aveva lasciato la busta vicino allo sportello automatico. I due coniugi avevano deciso di offrire una ricompensa, ma Julian, che lavorava a Pistoia da cinque anni in un vivaio con regolare permesso di soggiorno, aveva rifiutato dichiarando di non aver fatto niente di speciale. Per il momento l’uomo disse di desiderare solo una cosa; finalmente la cittadinanza. – ... io qui sto bene e mi sento a casa – aveva dichiarato ad un cronista della Nazione.

Lola che lo aveva seguito nella stesura del ritrovamento fu colpita da quel ragazzo asciutto ma energico e muscoloso: aveva un bel viso e gli occhi buoni. Lui, albanese di Valona, era più giovane di qualche anno della poliziotta. I suoi nonni ancora vivi erano di religione musulmana, ma i suoi genitori cresciuti all’epoca del comunismo non credevano a nulla e neppure lui.

Si rividero una sera per una pizza, poi, nonostante il parere nettamente negativo del fratello di Lola che diffidava degli albanesi, si erano messi insieme. Julian parlava bene l’italiano e pareva avere una mente aperta. Si erano sposati dopo meno di un anno, in comune; una cerimonia semplice, pochi amici e ancor meno parenti; da parte di lui era presente solo un cugino.

I due anni seguenti erano stati come un sogno, entrambi innamorati l’uno dall’altra. Se ne stavano intrecciati a letto per ore, nei giorni di festa sino al mattino quando, lui si metteva nudo alla finestra socchiusa per fumare e guardare fuori nel buio già intaccato dall’alba estiva. Un merlo nelle vicinanze cominciava ad esibirsi in qualche preliminare virtuosismo e l’odore di fieno tagliato nei campi intorno, arrivava fin dentro alla camera degli amanti. Silenzioso, il vivaista alternava boccate di fumo a respiri lenti, profondi. Lei, in posa negligente, il mento appoggiato su una mano e attorcigliata nel lenzuolo ammirava il suo corpo, un armonico insieme di muscoli tesi e rilassati.

Una di quelle volte, un’umida domenica di fine luglio Julian, dopo aver gettato la sigaretta fuori si voltò all’improvviso. Lo sguardo pareva assente e preso da pensieri lontani.

– ... dov’eri andato? – sussurrò Lola mentre lui si chinava a baciarla. – Non lo so di preciso... sono nervoso, ogni tanto mi brucia che al matrimonio non siano venuti i miei vecchi... – Che te ne importa? Ormai è passato un bel po’ di tempo... perché ci pensi tanto? – Volevano che sposassi una vicina di casa... non lo sai come sono forti da noi certi pregiudizi. – Lo dici a me? Anche mio fratello aveva da ridire, ma ora non ci pensa più... mi ha detto che invece ti stima. –

Fuori altri uccelli si stavano unendo al primo merlo nel salutare l’alba che incalzava, sempre meno timida, quella notte estiva. – Vieni qui... non ho voglia di dormire. – Lola lo tirò verso di sé, gli prese il viso tra le mani in modo che i due sguardi si unissero e che le bocche si cercassero. Non c’era altro da dire, se non colmare la rinnovata passione di nuovi fremiti.

Tuttavia, negli ultimi tempi alla donna non sfuggiva, nascosto da quegli stessi fremiti un lampo di inquietudine dolorosa negli occhi di lui. Pareva a lei che Julian avesse un peso il cui solo pensiero lo opprimesse.

– Al vivaio dove lavorava Julian era stato assunto un certo Avni anch’egli albanese. Era arrivato a Pistoia da più di cinque anni ma, una volta acquisito un lavoro e il permesso di soggiorno, dopo pochi mesi se ne era ritornato in Albania per prelevare e portare via con sé moglie, figlioletto e la sorella Miranda, una florida ragazza con lunghi capelli ondulati. Poi non si era mosso da Bottegone, un grosso paesone del pistoiese in mezzo ai vivai. I due fecero subito amicizia. Julian e Avni, coetanei, erano approdati entrambi a Bari sei anni prima proprio nello stesso giorno ma non si erano mai incrociati.

Nell’agosto del 1991, agli italiani sbigottiti la televisione aveva mostrato l’epico sbarco di migliaia di migranti albanesi stipati come sardine sulla nave Vlora; un popolo che stava tentando la sorte alla ricerca di una vita migliore. Durante l'entrata in porto, come formiche straripanti da un fitto formicaio, così apparivano sullo schermo, molti si erano gettati dalla nave in movimento nuotando fino alla banchina e cercando di scappare ai controlli. Per giorni tantissimi vagarono per le strade di una città rimasta quasi deserta per ferie, incontrando ugualmente comprensione e solidarietà tra coloro che erano rimasti a casa.

I due vivaisti albanesi erano tra quelli che in qualche modo ce l’avevano fatta e avevano molto da raccontarsi: – ... io ero tra quelli che si buttarono in acqua, lo sai Julian? –

Miranda era una diciannovenne molto bella, non una tra le tante mentre Lola, già sulla trentina non era un fenomeno. La poliziotta non era alta e per la sua età aveva fianchi appesantiti. Dalla sua poteva contare sul fascino della divisa e su certi occhi color tortora, grandi e sorridenti ma, tra le due donne non c’era confronto dal punto di vista fisico. Alla poliziotta, anche lei naturalmente conobbe quella famiglia, non occorse tanta intelligenza per intuire che, al suo uomo, quella frequentazione stesse creando qualche imbarazzo.

Julian al fondo era una persona semplice e onesta che amava Lola e che, inizialmente, non voleva ammettere neppure a se stesso di essere turbato da quella ragazza. Miranda, arrivata in Italia giovanissima, si sentiva invece molto libera. Il fratello notò subito le occhiate di lei e il disagio dell’amico: – ... senti Julian, mia sorella è un po’ scema, non ci badare. –

Successe invece ciò che, nell’eterno gioco delle umane vicende può succedere. Lei gli telefonava e lo provocava, mentre l’attrazione tra di loro diventava sempre più forte. Julian dopo aver cercato di ribellarsi alla sua debolezza prima diradando le visite al Bottegone, poi cessandole del tutto, alla fine cedè.

Fu in quell’agosto terribile, scossato violentemente tra l’esaltazione del nuovo amore e la sofferenza di dover lasciare la donna che gli aveva dato tanta felicità e che ancora sentiva di amare, che trovò il coraggio di affrontare la poliziotta. Aveva mentito dando la colpa di certi suoi mutismi al cattivo comportamento dei suoi famigliari. Lei aveva intuito qualche cosa ma non che il suo uomo fosse stato vinto fino a quel punto. Non ci furono scenate; piansero tutti e due specialmente dopo che lui ebbe a pronunciare quelle parole indicibili: – ... io voglio bene a tutte e due. Ah! se potessi... ah se potessi... –

 

– Da quel giorno erano passati già due mesi. Lola, che aveva trascorso la notte insonne e terribile tra il rombo del vento, il fragore dei tuoni lontani e i fantasmi delle sue frustrazioni, sul tardi si era infine svegliata. Era una domenica mattina ed era reperibile. Si svegliò male, aveva mal di testa e una bocca amara come il veleno; in compenso il temporale era cessato lasciando il posto a un timido sole. Le vennero in mente tutti i pensieri della notte e gemette.

In quella camera matrimoniale ben arredata aveva vissuto ben altri risvegli. Si preparò il caffè, lo bevve avidamente e tornò a letto. Che altro poteva fare? Era rimasta sola e l’appartamento, nella zona attigua a Viale Adua, un posto tranquillo che dava sui campi coltivati, era suo. Non se la sentiva, per ora, di ritornare a Prato dai suoi genitori. Ci avrebbe pensato.

– Suonò il telefono. Era l’ispettore capo: – Lola, il commissario ti vuole, c’è un’emergenza e oggi siamo ridotti di numero.– Che cosa è successo Perri ? – Un pestaggio, una cosa strana, ci sono da fare i rilievi... vieni agente Panerai Lola. – Si sentì una risatina. – Di che cosa ride il tuo collega? Ho sentito, sai... – Lo Scognamiglio ha detto: l’hai voluta la bicicletta... oh pedala!... – ... che stronzo! – ribattè la donna chiudendo il telefono.

Ma non era seccata. Si vestì, mangiò velocemente qualcosa mentre scendeva le scale e corse alla questura. Prese volentieri l’emergenza; meglio che tormentarsi da sola tutto il giorno.

La vittima era già stata ricoverata al vecchio ospedale del Ceppo; era un ragazzino, sembrava, di origine albanese di tredici anni.

– Ma di che si tratta? roba tra bande di ragazzi? – chiese la Panerai appena fu un po’ informata. – Macché... un testimone dice che sono stati due adulti in passamontagna. – ... ma che dici? –

Intervenne il Commissario: – Agente Lola, accompagna l’ispettore a casa dei genitori, vanno avvertiti subito, ma non rispondono al numero che ci ha dato il ragazzino. –

Il nome della via portava alla frazione Bottegone distante pochi chilometri dal centro cittadino; quando Lola se ne accorse chiese: – ma come si chiama questo ragazzo? – Non si è capito bene, parlava molto male... lo sai, gli hanno gonfiato la faccia e rotto i denti; sanguinava e piangeva. Comunque leggi qui. –

Le porse un appunto: – Sulaj o Sunaj Martin... – L’agente Panerai sbiancò e fece un balzo sul sedile: – Perdinci ! ma io lo conosco, credo di sapere chi è... perdinci ! – Di tutto si sarebbe aspettato quella mattina, meno che di rivedere quella abitazione con i suoi abitanti, causa della sua infelicità.

C’era solo la madre; Avni, disse la donna, era al lavoro. Per fortuna non c’era traccia di Miranda, tantomeno di Julian; Lola non lo avrebbe sopportato. Sulla soglia di casa trovarono un pezzo di cartone strappato da una scatola, su cui con un grosso pennarello nero da magazziniere, qualcuno aveva scritto in italiano e in albanese: “Il sangue si lava con il sangue”

La povera donna, mentre veniva accompagnata all’ospedale dai due poliziotti, piangendo disperata, disse di non saperne niente.

– La cosa era grossa. Il magistrato aprì un fascicolo a carico di sconosciuti, mentre la polizia Giudiziaria avviava gli accertamenti urgenti, le indagini e le necessarie perquisizioni.

Quella frase lapidaria lasciata sull’uscio di casa Sulaj diceva molto dell’ambiente di provenienza dei due malfattori, ma poco per la loro individuazione. Quelle parole richiamavano il “Kanun” un codice non scritto diffuso in alcune zone montane del “Paese delle Aquile” e il sospetto era che alludessero ad una vendetta prevista da quel codice ancestrale.

Avni, prostrato per la sorte toccata al suo unico maschio, fu interrogato per ore. Alla fine cedette, rivelando quale poteva essere il motivo scatenante di quel gesto violento.

Ammise di aver ucciso senza volere il componente di una famiglia del suo stesso villaggio. Era successo cinque anni prima quando, tornato in Albania con l’intenzione di portar via la sua famiglia, aveva investito quell’uomo con la vecchia auto di suo zio. – ... ero impaurito, non avrei potuto tornare più in Italia. Non potevo tollerare una cosa simile... qua avevo un lavoro e qua erano tutte le mie speranze... così scappai di lì e riportai la macchina. – spiegò emozionato con quella pronuncia arrotolata di tutti gli albanesi. Terminò con un filo di voce prima di scoppiare a piangere: – ... ma non l’ho fatto apposta... era un mio compagno d’infanzia... non dormii per tre notti di seguito. –

Gli inquirenti furono molto colpiti dal fatto che un uomo grande e grosso come Avni si fosse lasciato andare ad un pianto dirotto. Era un fatto grave e ci voleva rispetto, si dissero, ma era un fatto accaduto ormai da cinque anni. Comunque il problema era che poteva essere stato solo un avvertimento allo scopo di ricavarne una maggiore soddisfazione di vendetta. ­

– Non c'è scappatoia, il cerchio si chiude solo quando “il sangue è lavato con il sangue” – disse l’esperto. Si trattava di vendicare l'uccisione di un membro della propria famiglia uccidendo un membro qualsiasi dell'altra per salvare il proprio onore. – ... è in questo modo che iniziano le “Giakmarrja”, quando una vendetta genera un’altra vendetta. – concluse l’agente scelto di origine albanese. – Le che? – fece il commissario Nicolosi con una smorfia. Gli fu spiegato che quella parola voleva dire “Faida di Sangue”. Furono interrogate anche la moglie e Miranda, ma la faccenda sembrava fosse stata chiarita. Lola, in quanto conoscente dei fatti e delle persone era spesso presente durante gli aggiornamenti delle indagini. – Piuttosto... – disse preoccupato il commissario capo, – è necessario, a questo punto, uno stretto programma di protezione per quella famiglia. –

Julian che accompagnò le due donne, quel giorno si trovò improvvisamente di fronte Lola. Lei si sentiva quasi protetta dalla divisa e dal ruolo, come una lumaca dal suo guscio; l’uomo invece, come disarmato arrossì e abbassò gli occhi. Poi si riprese: – ciao Lola. – ... ciao Julian... problemi per Avni, eh... dovete stare attenti. – Era stata tentata di aggiungere: e per Miranda, ma per una sorta di pudore non lo fece. Lui si strinse nelle spalle: – sì, lo so... speriamo a bene. – e a capo basso se ne uscì.

A lei sul momento la cosa era parsa meno penosa del previsto, ma la sera a casa non cenò; le si era chiuso lo stomaco, e presto se andò a letto inondando il cuscino di lacrime e rabbia.

– Nei giorni a seguire vennero fuori altri particolari; Avni non aveva detto proprio tutto. La moglie più semplice ed ingenua, ancora interrogata raccontò di vecchi rancori mai sopiti tra famiglie, ruggini incandescenti che avrebbero risvegliato dopo cinque anni, la sete di vendetta. A quanto pare, molti in quel villaggio sospettarono dell’emigrante ma non c’erano evidenze e poi, in fin dei conti poteva davvero essersi trattato di una disgrazia. Non era stato un vero omicidio intenzionale, né un forte disonore, né uno stupro. Quindi ruggini provenienti da più lontano, una vecchia “Giakmarrja” che si era risvegliata.

Ma il commissario Nicolosi non ne era del tutto convinto; gli si era accesa una lampadina: – E se ci fosse qualcos’altro, dottore? – Ne stava riflettendo con il vice questore. – ... per esempio che cosa, Nicolosi, che ha in mente? – Signor questore... – proseguì il commissario con la sua forte cantilena siciliana, mentre guardava fuori della finestra: – ... qualcosa di più materiale che non attenga proprio all’onore... che ne so... qualcosa di molto più prosaico... per esempio... droga, prostituzione... quell’Avni non mi convince del tutto... – concluse. Si era messo comodo con le gambe distese in avanti e sbuffava dal suo sigaro toscano.

Dei due picchiatori nessuna traccia; il testimone che aveva visto la scena da lontano affermò solo che erano due tipi molto alti subito fuggiti correndo, e nient’altro. L’indagine rimase a lungo al palo dei “se e dei ma” e sembrava destinata a finire nel dimenticatoio. Intanto il ragazzo pestato a sangue, Martin, cominciava a stare molto meglio e la famiglia Senaj rimaneva sottoposta a protezione, suscitando commenti e malumori tra gli abitanti di Bottegone. Anche Julian e Miranda con la polizia sempre nei paraggi si sentivano osservati e a disagio, e inspiegabilmente della situazione se ne lamentava anche Avni.

– Il commissario era “single” e l’agente Lola non gli passava inosservata. A lui piaceva tutto di quella donna; gli occhi grandi e attenti, la bocca carnosa, la sveltezza. Quando seppe che si era separata dall’albanese aveva sorriso: – Le sta bene... un albanese, che vuoi sperare. – Ed era anche un tipo testardo; il fascicolo di quell’indagine era ancora sulla sua scrivania, per istinto sentiva di non accantonarla.

Un giorno, erano passati tre mesi dall’aggressione al ragazzo, lo prese in mano e lo aprì distrattamente mentre parlava a telefono. Terminata la telefonata se lo avvicinò; gli era caduto l’occhio sul verbale relativo alla mattina del fattaccio: – Rotondo!... appuntato Rotondo!... quanto ci metti?... mandami subito l’agente Panerai... fai svelto. –

Lola che si trovava allo sportello di ricevimento, si presentò in un baleno: – Ascolti Panerai... lei andò a Bottegone la mattina dell’aggressione al ragazzo. L’ispettore ora non c’è, ho chiamato lei. Sul verbale c’è scritto che il padre del ragazzo non c’era perché era a lavorare in quel momento. Ma non era una domenica mattina? – Sì certo commissario... – Lola confermò anche che fu la moglie ad aver dato loro quell’indicazione, aggiungendo di aver chiamato lei personalmente il vivaio ma senza avere nessuna risposta. Nicolosi si alzò di scatto: – ... ma... allora agente Panerai, come minchia ha fatto a venire subito all’ospedale quello lì... eh? –

Lola fece il viso rosso, esitò un po’: – È stato un vicino di casa che andò subito a chiamarlo... credo. – Il viso del commissario diventò così paonazzo che al confronto quello dell’agente pareva sbiancato: – Ma come credo!... trovatemi l’ispettore... subito! –

Quel particolare sul verbale non era riportato e l’ispettore era colui che aveva redatto e firmato il verbale.

Il vicino di casa, subito interrogato, sostenne che la moglie doveva essersi sbagliata. Lui potè chiamare Avni supponendo di poterlo trovare sull’argine dell’Ombrone dove si recava a volte a pescare, e infatti lo trovò proprio lì. La moglie, confusa e balbettante, ammise che sì, si era proprio sbagliata; quella mattina non si sentiva bene.

– Dicembre quell’anno fu particolarmente rigido e a Natale non mancava ormai molto. I primi fiocchi di neve imbiancarono le colline sovrastanti e le strade erano rese scivolose dal ghiaccio notturno. “La Stradale” aveva il suo daffare con gli incidenti, specialmente sulle strade di montagna.

La sorveglianza alla famiglia Sunaj era stata ormai tolta, ma il fascicolo relativo a quel fatto si trovava ancora sulla scrivania del commissario Nicolosi. Peraltro lo stesso commissario non si era rassegnato neppure al fatto che l’agente Lola apparisse perennemente e secondo lui inutilmente melanconica. La teneva d’occhio; avrebbe voluto dirle qualcosa che non fosse soltanto di lavoro ma si peritava.

Un giorno chiamò agitatissimo il titolare di un vivaio. Gori Silvano era un appassionato vivaista conosciuto da tutti; passava per innovatore, non contentandosi di produrre le solite piantine facili alla vendita: – ... mi hanno rovinato, commissario... mi hanno rovinato... è un disastro – Qualcuno, nottetempo ma presumibilmente due giorni prima, aveva cosparso gran parte delle sue coltivazioni di acidi. Era un evidente e doloso boicottaggio. A Pistoia non era mai capitato un fatto di quel genere. Esisteva la competizione tra produttori, ma questa era un’altra cosa.

Quando venne a deporre in ufficio l’imprenditore era affranto: – ... non capisco... chi può volermi male in questo modo? Non ho fatto niente a nessuno ... anzi... – Si fermò, aveva il nodo alla gola. Il lavoro di tutta la stagione era compromesso, e forse anche di quella successiva. Lola che lo aveva accompagnato, ad un cenno del commissario era rimasta lì presente, forse per redigere la deposizione.

– Se posso commissario... – mormorò l’agente dopo un attimo di esitazione. – Dica, dica pure agente Panerai... che cosa vuole dire?  Vorrei confermare... il signor Gori aiuta le persone in tanti modi e non ha pregiudizi con gli stranieri. – Nel senso che li assume? – ... sì, vi lavora anche il padre di Martin Sunaj... sa... il ragazzo... e anche il mio ex... – Lola deglutì ed esitò, – ... ex marito. – Ah! – esclamò il Nicolosi alzandosi in piedi. – Lei ha con sé Avni Sunaj? – Sì, certo. Purtroppo dovrò pensare alla cassa integrazione. Non posso mantenere dieci persone senza farli lavorare. –

Il commissario rimase pensieroso. Pensò di stare invecchiando, quel collegamento gli era sfuggito. Sicuramente questo particolare, cioè il luogo di lavoro di Avni, pensò ancora, sarà stato riportato nel verbale. – Se non ci fosse, questa volta l’ispettore Perri fa una brutta fine... parola mia. – mormorò piano.

– Come dice commissario? – fece la poliziotta. – ... no, niente, niente, Panerai. Piuttosto signor Gori, mi dica... è un buon operaio il Sunaj? – È uno dei più volenterosi, per questo mi dispiacerebbe. Pensi che nel tempo libero si occupa di un appezzamento di terra che era praticamente incolto vicino al letto dell’Ombrone, ma di mia proprietà. – davvero? – fece il Nicolosi visibilmente interessato – ... cioè che ci fa? –

– Ci fa un bell’orto e ci coltiva diverse piantine d’alloro... sa di quelle che si vendono come pane per fare le siepi?. Ecco, quelle le rivende a me a un prezzo irrisorio che poi io le commercializzo, e dei frutti dell’orto fa a a metà con me: lattuga, pomodori, cetrioli, zucchini, ogni ben di Dio. Ce ne fossero di operai in quel modo commissario! –

Poi l’imprenditore vivaista si chetò e si rabbuiò, riaffiorandogli tutto il dispiacere per l’accaduto. Nicolosi non aggiunse niente; lo congedò rassicurandolo che avrebbero subito fatto delle serie indagini: – ... abbia fede nella Giustizia Gori... abbia fede. – Ma intanto il suo cervello andava a mille.

– Il giorno successivo il caso aveva fatto passi da gigante. L’intuizione del commissario era stata giusta.

– L’intuito è come cantare... se uno la voce non ce l’ha, può allenarsi quanto vuole ma non canta; e l’intuito è lo stesso... o uno ce l’ha o non ce l’ha – disse guardando non casualmente l’ispettore Perri che di quella dote ne aveva pochina, e perciò lo faceva spesso innervosire.

Avni Sunaj in quell’appezzamento lontano dal paese, un po’ maleodorante di rifiuti e abitato da topi vi aveva fatto, insieme a qualche zucchino da portare al Gori in primavera, una discreta piantagione di Cannabis. L’aveva mimetizzata con le piante di lauro per confondere le idee agli eventuali passeggiatori che, dall’argine del torrente, si fossero avventurati casualmente su quel terreno. La squadra antidroga aveva fatto tante volte i conti; il guadagno della coltivazione della canapa poteva aggirarsi intorno ai trenta milioni di lire per ogni ettaro.

Il Sunaj evidentemente aveva pestato i piedi alla malavita organizzata albanese cedendo il prodotto ad altri malavitosi; oppure vendendolo in proprio, ma era cosa improbabile. Il pestaggio all’ignaro figliolo e il sabotaggio al vivaio del Gori che non c’entrava nulla, facevano parte di una serie di avvertimenti di tipo mafioso: – “dire a nuora perché suocera intenda”... capito Perri cosa hanno in testa questi fetusi, eh?... altro che “Giakmarrja” o come cavolo si dice – Il pianto a dirotto di Avni era sincero, come notò Lola facendo sogghignare di soddisfazione il commissario, ma non era per l’amico d’infanzia, ma per se stesso: – Ha capito subito di essersi messo in un bel guaio... –

L’indagine all’appezzamento di terra sull’Ombrone era stata fatta senza dare nell’occhio, ma le conclusioni erano state lampanti. Avni ne era naturalmente all’oscuro. Durante un “brain storming” come il commissario amava chiamare le riunioni di indagine più importanti, egli fu categorico: “ ... tutto questo deve rimanere strettamente segreto... lo scopo è quello di attirare l’orso al miele... noi saremo preparati... intesi? –

 

– Lola si era guadagnata la fiducia del commissario e veniva costantemente convocata in quelle occasioni: – Agente Palmieri, se la sente di far parte della squadra di pronto intervento ... non si preoccupi, se non se la sente... la capirei... – Sono a sua disposizione commissario – rispose la donna. Il Nicolosi la guardò allora ancora più incantato; ci pensava spesso a quella donna ma era un timido e non andava oltre l’ammirazione.

Lei si era accorta di qualcosa in quel senso ma fingeva di non capire; non ci voleva pensare, non era nelle sue corde. Solo una volta realizzò, guardandolo camminare da dietro, che il commissario, un quarantenne in buona forma, tutto sommato non era brutto e che aveva un bel culo.

Riguardo alla squadra d’intervento, sapeva di correre qualche pericolo in più in certe operazioni: – Almeno avrò uno scopo.... a qualcuno sarò utile... tanto s’ha da morire tutti. – Era questo il genere di pensieri non proprio allegri che le passavano per la testa in quel periodo, un po’ per scaramanzia, un po’ per confondere quell’amarezza che non la voleva mollare.

Dopo il giorno del pestaggio, aveva rivisto Julian un’altra volta; era passato dalla questura insieme ad Miranda per dei documenti. Si erano guardati in un certo modo per qualche istante mentre Miranda frugava nella sua borsetta. Lo sguardo di lui, almeno quel giorno, non era il solito sguardo che conosceva. E dire che vi si era immersa tante volte quando, aprendo gli occhi durante certi interminabili abbracci, aveva incrociato i suoi, così espressivi. Allora gli parevano occhi di una persona buona. Quella mattina invece gli parvero smarriti, forse come offuscati da un velo di rimpianto. Quell’impressione, pensò subito dopo, era certamente falsata da ciò che lei stessa aveva desiderato vedere, come effetto della sua cattiveria. – Sì, è così, sono un’egoista... spero invece che sia felice. – concluse poi fra sé.

– Intanto gli appostamenti erano stati programmati per ventiquattrore su ventiquattro e il nucleo operativo centrale di sicurezza, i “Nocs”, era pronto a scattare.

Due giorni dopo l’orso si fece avanti e questa volta per uccidere. Due macchine con quattro persone a bordo, in apparenza senza dare nell’occhio, arrivando dalla Provinciale Fiorentina si erano avvicinate lentamente alla casa di Avni Sunaj.

Gli agenti nascosti e appostati, tra i quali anche Lola, capirono immediatamente e attivarono il piano prestabilito. Le “teste di cuoio” come poi vennero chiamate dal giornalista che ne fece un resoconto sulla “Nazione” circondarono le due macchine e colpirono i pneumatici delle auto per impedir loro la fuga, ma i malviventi, agguerriti e provvisti di kalashnikov, realizzando di essere caduti in un’imboscata, cominciarono a sparare all’impazzata.

Julian e Miranda proprio in quell’ora si trovavano in casa e stavano mangiando, e Avni si era assentato da poco. Il crepitio di quei fitti e paurosi spari di arma da fuoco li fecero sobbalzare. La donna e i figli, atterriti, si accovacciarono sul pavimento, mentre Julian corse alla finestra per capire che cosa stava succedendo; e la vide.

Non credeva ai suoi occhi, era proprio lei. Lola, che indossava il giubbotto anti proiettile, inginocchiata e impugnando la corta mitragliatrice, si stava proteggendo dalla sparatoria dietro un muretto di cinta e, con coraggio sparava a sua volta. Il gruppo di agenti si era infatti fatto avanti, e si trovava in mezzo al fuoco incrociato.

– Julian, Julian... ma sei impazzito? – Urlò Miranda. Il giovane, appoggiato allo stipite interno cercando di guardare fuori, pareva si accingesse ad uscire dalla porta, proprio mentre un proiettile, con un rimbalzo, si schiantava dentro alla stanza mandando in mille pezzi una porta a vetri.

– Ma che fai?... Julian!... – Lola, Lola! – urlava invece il giovane, sordo a quel richiamo. La chiamava forte ma non sentiva; la confusione era enorme e lei era ad una certa distanza. Allora il giovane, accorgendosi che stava correndo dei rischi enormi, come un folle prese a correre per raggiungerla. Due banditi infatti, ormai disfattisi dei passamontagna e giocando il tutto per tutto, con un balzo erano arrivati sul fianco della casa non lontano dall’agente Panerai.

– Proprio il commissario che partecipava anche lui all’azione, alla conferenza stampa del giorno seguente testimoniò del gesto d’eroismo di quel giovane albanese: – Egli, non so dove abbia trovato la forza, è riuscito con uno scatto sovrumano, a frapporsi tra la scarica di kalashnikov e l’agente Panerai... veramente, non ho parole. –

Nel terribile scontro, due dei banditi, proprio quelli che si erano avvicinati alla casa, erano rimasti uccisi mentre gli altri due vennero immobilizzati e arrestati. Anche un agente e una “testa di cuoio” riportarono gravi ferite. Avni Sunaj e il suo vicino di casa sospettato di connivenza furono arrestati.

– Lola era pigramente distesa con le gambe incrociate sull’amaca che il suo babbo aveva tesa tra il pomo e il noce. Amava molto starsene nel giardino della casa nativa. Era una casa antica da contadini in quel di Filettole, un paesino abbarbicato sulle pendici della Calvana, l’aspra montagna domestica dei pratesi. Sentiva che il sole di quella primavera inoltrata fosse il miglior viatico per la sua convalescenza dell’anima. Aveva preso finalmente le ferie e le stava consumando in quel modo, dai suoi “vecchi” che ancora non si erano abituati a considerarla una poliziotta.

Erano passati quattro mesi da quel giorno e pareva un secolo. Immediatamente dopo la sparatoria l’agente Panerai che aveva subito delle escoriazioni era stata ricoverata al pronto soccorso e dimessa la sera stessa, ma il suo cuore era come se avesse smesso di battere. Dopo una settimana di riposo aveva ripreso faticosamente servizio. Alla questura i colleghi adesso la guardavano con rispetto e il commissario cercava di convincerla a prendere le ferie: – vedrà... un bel viaggio le farà bene... – ma lei pensava che il rimedio sarebbe stato peggiore del male. Si era immersa nel lavoro più di prima e lentamente cominciò a respirare.

Mentre alcuni uccelli canterini festeggiavano il fulgore del sole di quella mattina, cantando e saltellando tra i rami degli ulivi, Lola ripensava a quelle cose. Suonò la porta. Sentì lo scricchiolio sul viottolo fatto di sassolini, dei passi della sua mamma: – Lola, hai visite... c’è un signore; ha detto di chiamarsi Nicolosi. –

Sorrise; era domenica e se lo aspettava, glielo aveva promesso.

– fine –

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