LA GATTA

LA GATTA 

 

 - Il lamento di Ibrahim somigliava al latrato di un vecchio cane morente. Non era la prima volta che il nordafricano si lamentava nel sonno, ma quei versi cupi e tetri non li aveva mai sentiti. Si svegliò di soprassalto. Intorno era tutto buio, a parte il debole lampione della strada vicina, e il freddo che si era fatto insopportabile aveva irrigidito la sua lunga barba incolta. Le tre coperte polverose che quelli della “ronda” gli avevano dato non erano sufficienti. Rimpianse il sacco a pelo che qualcuno gli aveva portato via il giorno prima. Pensò con amarezza che tra poveracci non si dovevano fare quelle cose.

Non riusciva ad addormentarsi di nuovo e le zaffate di vino che esalavano dal respiro affannato del suo vicino di giaciglio lo fecero girare su di un fianco. Non era una buona posizione; i cartoni erano duri come sassi, così dopo avere indossato un altro giaccone sopra a quello che aveva già, ritornò supino sotto a quelle coperte. Sopra di lui intravedeva appena il solaio di un terrazzo basso di una palazzina in fase di ultimazione ancora disabitata, dalle porte e finestre tutte sbarrate.

Anche lui aveva bevuto vino quella sera; giorni fa si era ripromesso di non ricascarci, ma che altro gli rimaneva per prendere sonno? Adesso i lucidi pensieri della disperazione, rimpiazzando gli effetti anestetici dell’alcol stavano occupando il loro solito posto. La sua vita somigliava al peggior incubo possibile ma purtroppo era tutto reale e lottava per sopravvivere proprio come Ibrahim, Said, Giovanni e gli altri sventurati.

Stette ad occhi sbarrati per tutto il resto della notte, tremando. Fu in quella stessa notte che Valerio Di Biagio pensò per la prima volta di farla finita. Prima o poi, si disse, avrebbe trovato il coraggio. Prima di arrivare a quel pensiero, per ore, un turbinìo di immagini alcune nitide altre sbiadite, un sovrapporsi di voci ognuna con il suo proprio timbro, lontano.

 - Dopo le due disgrazie gli era parso che rimanere a Verghera, dove si conoscevano tutti e dove tutti lo compiangevano fosse cosa insopportabile.

Nel giro di pochi mesi aveva perso due persone importantissime. Il dolore era stato lancinante. A distanza di tre anni, quel ricordo gli faceva ancora male, lo scovava nel buio, incurante di trovarlo accanto ad un marocchino alcolizzato che ronfava lamentandosi e che puzzava, proprio come lui.

Ricordò d’essersi rinchiuso in casa assediato da pensieri confusi che si rincorrrevano alla ricerca di una via d’uscita per non soffrire. Non trovandola, prostrato, sordo e muto, si era ripiegato in se stesso. 

Poi quella mattina si era incamminato verso lo studio del geometra presso il quale stava facendo il suo tirocinio, quando capì improvvisamente che non poteva seguitare in quel modo. Fuggire di lì, ecco quello che ci voleva. Eppure quel posto da geometra, sia pure da principiante, era stato il sogno di suo padre. Antonio Di Biagio, di origine pugliese, uno tra i tanti arrivati con la valigia di cartone, aveva fatto tanto per farlo studiare e quella era la cosa che più lo stava facendo esitare. Ma non importava.

Mentre Ibrahim si rivoltava d’un tratto facendo uno di quei versi lugubri, rammentò quella sua smania improvvisa. Voltare pagina, voleva voltare pagina. A Verghera non lasciava nessuno, c’era solo un cugino alla lontana che aveva rivisto, solo dopo anni, al funerale del padre. I suoi due migliori amici dei tempi della scuola si erano trasferiti per lavoro, uno a Milano, l’altro in Svizzera. Decise allora, semplicemente, di lasciare che il dolore rimanesse quello che era senza cercare di anestetizzarlo per forza. L’avrebbe portato con sé, trascinandolo via da quell’anonima frazione di Samarate, l’ancor più triste cittadina lombarda

In Toscana ci era venuto da bambino tanti anni prima con i genitori e ne serbava un ricordo confuso, quasi onirico ma piacevole; Siena, la val d’Orcia, il mare.

Su internet aveva cercato un lavoro manuale, bastante appena per mantenersi non avendo troppe esigenze. Non voleva pensare troppo e non aveva alcun progetto; pensava di poter vivere, per il momento, al minimo dei giri. Ma dopo tre mesi di lavoro in una conceria nella zona di Santa Croce si era licenziato e, questa volta senza esitazione, si era incamminato in direzione di Cerreto Guidi, avendo intenzione di arrivare fino a Vinci.

Si sentì rinascere; l’odore nauseante della pelle morta lo aveva depresso. Camminare senza una meta precisa, anche se in quel momento aveva in testa Vinci, ecco quello che gli ci voleva. Un nomadismo dell’anima, un desiderio di muoversi senza avere alcuna ambizione o aspettativa di trovare qualcosa di definito. Avrebbe vissuto, se necessario, come un monaco. Pensò, confortato dalla vista di paesaggi molto belli, ed esaltandosi per essere nella terra di Leonardo dopotutto anch’egli con una qualche affinità con la geometria, che sarebbe campato facilmente con poco. A Vinci aveva visitato il museo e poi aveva acquistato un sacco a pelo. La stagione era splendida, il clima settembrino era mite, pensò che avrebbe dormito da qualche parte all’aperto.

L’aver provato a dormire insieme ai due magrebini anch’essi operai della conceria, presso quel deprimente affittacamere di Santa Croce gli faceva desiderare quella soluzione.

– Pensa un po’... – mormorò allora mentre lo attraversava un brivido di freddo: – ... anche adesso dormo all’aperto e accanto ho il magrebino... non mi manca nulla. – Sentì forte l’amarezza. Avrebbe voluto piangere ma non gli veniva. – ... mi si sono congelate anche le lacrime. –

 

 - Per qualche notte, come continuava a rammentare, aveva dormito in una piccola radura in mezzo a un boschetto, sul colmo di una collina. La collina a vederla dalla strada che portava a Vitolini ne nascondeva altre, le quali ne rincorrevano altre ancora, la maggioranza delle quali coltivate a vigna. Anche la collinetta boscosa di Valerio era circondata da vigneti. Intorno era un’esplosione di colori che sembravano dipinti da un pittore: sfumature dal giallino al marrone, dal verde al bruciato. In lontananza si ergeva la torre del castello di Vinci e più in su, dalla parte opposta, si affacciavano le prime case del borgo di Vitolini.

Durante il giorno, solo una volta era ritornato a Vinci, Valerio vagava per i campi e i boschi, attento a non dare troppo nell’occhio. A volte se ne stava fermo a sedere su di un sasso, in alto, a contemplare il panorama. Il sole radente del pomeriggio da cui si lasciava volentieri accarezzare, illuminava i filari accendendone i colori. Momenti di silenzio, di calma e di spazio per lasciare che i pensieri gli facessero liberamente male nel modo che sentiva fosse ancora necessario.

In qualche podere avevano cominciato a vendemmiare e qualche contadino l’aveva notato, ma lui non ci faceva caso, non faceva nulla di male dopotutto, salvo forse, come riteneva ingenuamente, quello di mangiare con calma qualche saporosa ciocca d’uva. Ma al quarto giorno un uomo calvo che calzava dei grossi scarponi lo sorprese mentre ne staccava una: ­– Oh che fai ragazzo? Che credi d’essere al supermercato?... lo sai che non si può rubare ? –

Lui si scusò. Disse che non sapeva fosse proibito e che ne avrebbe tenuto conto. La parola rubare gli sembrò grossa e il contadino calvo notò l’espressione un po’ dispiaciuta. Mentre se ne stava andando con la zappa sulla spalla si voltò: – ... senti ragazzo, ma te n’avresti voglia di venire a vendemmiare... ? –

Così, per qualche giorno Valerio vendemmiò. Forse quelli furono i giorni più belli della sua vita.

 - Tra i vendemmiatori c’era una ragazza particolare. Nella zona la conoscevano in molti; la vedevano vagare per le strade secondarie, passava come scapestrata, una giramondo. Si fermava nelle case coloniche per bere, si accontentava di mangiare del pane con qualcos’altro raccapezzato dove capitava, viaggiava senza problemi nella cabina di un camion a cui aveva chiesto un passaggio, ma poi riappariva sempre nei soliti posti, come una visione. Capelli arruffati, era magra, tutta nervi e ben fatta; sorrideva poco e piuttosto che guardare l’interlocutore, mandava lampi. Si intuiva fosse davvero una zingara nell’anima. Ogni anno Anna si presentava da Gino per la vendemmia, alla fine prendeva la sua paga e poi, in silenzio come era venuta, scompariva di nuovo nel suo habitat. Se c’erano altre vendemmie in altri poderi, in giorni diversi, si offriva senza stancarsi. Era uno dei pochi lavori che voleva fare, insieme alla raccolta delle olive.

Valerio la notò fin dal primo giorno, aveva un viso piacevole e si spostava con le movenze armoniche di un gatto; anche i suoi occhi avevano qualcosa di felino. Non sapeva ancora che la gente la chiamasse davvero: “la gatta”. Ogni tanto si ritrovavano accanto a sedere durante la sosta. Si sorridevano appena senza dirsi un granché finché la ragazza un giorno gli chiese da dove venisse. Saputolo fece una smorfia: – Me lo sentivo che venivi di fuori... la gente di qua è più stronza... –

Per coloro che rimanevano al podere per la notte, non molti, c’era un capannone con brande e lenzuoli puliti. L’ultima sera fu lei che si avvicinò di nuovo al geometra: – Hai un fiammifero?... – Si era arrotolata una sigaretta con qualche difficoltà e si era guardata intorno.

– Mi spiace, non fumo... aspetta, ti porto un tizzone. – Il ragazzo aveva notato il fumo del camino ed entrò in casa chiedendo il permesso con qualche imbarazzo. La famiglia del contadino era ancora intorno alla tavola. Fece cenno di volersi avvicinare al fuoco. – ... vieni, vieni, Valerio. – Lo guardarono tutti incuriositi, i due figlioli specialmente che erano più giovani di lui. Studiavano a Empoli alle superiori, ma in quei giorni erano vendemmiatori anche loro. Il babbo ne aveva parlato a tavola, del modo in cui l’aveva incontrato e ingaggiato e ne provavano una sorta di sottile ammirazione.

– ... per la sigaretta dell’Anna... – borbottò il giovane, prelevando dal camino un legnetto ancora infiammato. Gino sorrise: – ... ah, la gatta?... – Anche i ragazzotti sorrisero mugolando qualcosa.

Uscì; Anna gli prese il tizzone dalle mani e poi insipirò una profonda boccata dalla sigaretta artigianale. – ne vuoi? – gli disse porgendogliela. Valerio se l’accostò alla bocca esitando.

– Vai ! tira, su, ti fa bene... – insistè la gatta, insolitamente sorridente. Il tiro gli andò di traverso e per un bel po’ non riuscì a fermare la tosse. Ancora rosso in viso, mentre la ragazza rideva le chiese: – Ma tu dove abiti? – Lei si fece seria e lo guardò con uno dei suoi lampi; poi si allontanò verso i filari delle viti. Ma fatti pochi passi, voltandosi, mormorò con voce rauca: – Dopo le vendemmie io vo in “Padule” –

Lo disse guardandolo negli occhi e con l’aria di chi si attende una spiegazione; ma al ragazzo, che avrebbe voluto aggiungere qualcosa, sul momento non gli venne nulla. Quella domanda che si era ingollato si disse che gliela avrebbe fatta la mattina seguente, ma lei, prima dell’alba era già sparita.

Rimase con un po’ di amaro in bocca, perché Anna gli piaceva. Valerio allora salutò Gino e si incamminò. Zaino e sacco a pelo in spalla, oltrepassato Vitolini si diresse in direzione del Montalbano. Sapeva che c’erano altri poderi da vendemmia nella piana ondulata, ma era attratto dai declivi di quel monte, altrettanto ricamato da vigne e filari.

Salendo, ancora nel caldo tepore settembrino, ammirava i colori dei poderi ben curati e le belle case coloniche, mentre quel dolore acuto per la perdita della sorella maggiore che gli aveva fatto da mamma e di suo padre, pur vivo tuttora, lo sentiva come ingannato e distratto dalla serenità di quel vedere.  

Fece altre due vendemmie, dopodichè, superato il valico del “Pinone”, incuriosito dalla descrizione fattagli da un operaio, volle arrivare fino a Carmignano. Qui visitò l’affresco del Pontormo e si permise un buon pranzo. Sceso per qualche chilometro verso Seano, e avvistata per la prima volta quella pianura lunga cosparsa di capannoni industriali e tutta fittamente abitata si grattò il capo e, dopo un istante di esitazione fece marcia indietro: – ... no, non fa per me. –

Tra quelle vigne, in quelle campagne aveva sentito di meno le sue bruciature. Ripensò ad Anna, alle sue parole mancate. Gli tornarono in mente i suoi occhi di gatta e quel suo misterioso programma: – Vo in “Padule” –

Passò prima a salutare Gino: – ...perché non ti fermi un po’ qui’...qualche lavoro te lo trovo, sei un buon lavoratore... – ... ti ringrazio, ora non posso, ma torno prima o poi.–

Non gli disse delle proprie intenzioni perché sicuramente, in qualche sua espressione, vi avrebbe letto la sua perplessità. Non volle chiedere un passaggio e in meno di tre ore di cammino svelto arrivò al “padule”. Il ”padule”di Fucecchio era stata zona paludosa e malsana. Adesso, completamente bonificata era importante area naturalistica punteggiata di poderi, boschi, fitti canneti, canali e stagni pieni di pesci, e molto, molto grande.

Una volta arrivato però si trovò subito al perso. Il geometra capì che trovare la “gatta” in quel posto era come cercare un ago nel pagliaio, così si rassegnò all’idea di aver fatto, come avrebbe detto Gino, una “bischerata”. Si trovava a Massarella, un paesino appena all’interno di quella zona. Vi comprò qualcosa da mangiare e poi cercò un luogo appartato per trascorrervi la notte.

Al mattino tuttavia, spinto dalla curiosità si volle addentrare ancor più dentro al “padule”. La natura pur nella vecchiaia dell’estate che non voleva morire, era rigogliosa. Trovò un sentiero segnato e tracciato all’interno di un bosco di querce e lecci che proseguiva poi a cielo aperto tra varie macchie di giunchi. Il sentiero prese a costeggiare un lungo stagno dove grandi ninfee gialle galleggiavano tra anatre e aironi eleganti. Il geometra si mise a sedere sulla curva di un albero contorto. Pensò che la sua vita avesse preso un certo verso e che lo stava assecondando. Per certi versi assomigliava a quel luogo, posto al confine tra una selva ostile e di selvatica bellezza, silenziosa e ricca di vita, e la civiltà, intesa come dimensione bonificata e artificiale, rumorosa e totalizzante.

 - D’un tratto trasalì; sentì un urlo strozzato e grida di donna. Sembravano provenire da un argine non lontano. Si alzò, posò lo zaino sotto all’albero e cominciò a correre in quella direzione. Le urla seguitavano disperate e, via via che si avvicinava, sembrò a Valerio di riconoscere quella voce. Dall’altra parte del canale la vide, era Anna, “la gatta” che stava per soccombere. L’uomo che le era sopra la teneva ferma appongiandovi il gomito sul collo con tutto il suo peso, e si era calato i pantaloni. C’era un ponticello di legno che univa i due argini, proprio in quel punto. L’uomo, probabilmente un contadino, un bruno tarchiato grosso di spalle, vedendo l’intruso che stava per attraversare il ponte si levò in piedi, si ricompose velocemente e tirò fuori un coltellaccio a serramanico: – Che voi?... che voi? – ripetè rivolgendosi minaccioso e ansioso. – ... vai via, sennò ti sbuzzo – Valerio si fermò con gli occhi sgranati: – Lascia stare quella ragazza, lasciala... – perché sennò?.. eh? dimmelo... icché tu mi fai? eh? –

Il geometra era un ragazzo pacifico, a scuola evitava sempre le baruffe tra compagni e non aveva mai fatto male a nessuno. Aveva paura di quell’uomo e di quel coltello e si doveva decidere. Anna, che intanto si era sollevata in ginocchio, stravolta, guardava atterrita.

Fu un attimo. Valerio notò che ai lati del sentiero basso che si immetteva salendo sul ponticello, c’erano delle pietre spigolose. Di scatto ne afferrò una e la scagliò verso quell’uomo, il quale non s’aspettava niente di simile. Immobile e a gambe larghe con ancora la cintura allentata il contadino fu preso in pieno. Si accasciò senza un gemito, mentre dalla fronte squarciata fuoriuscivano fiotti di sangue.

Anna gridò; già scossa per la violenza che stava per subire era terrorizzata. Valerio si guardò intorno; non c’era nessuno. Poi, impietrito, osservò quell’uomo che giaceva tra il proprio sangue già scuro spanto sulla terra smossa. Si chinò su di lui e gli sembrò che fosse morto. Ne afferrò il corpo facendolo rotolare e lo spinse giù per il canale che in quella stagione era quasi secco.

I due ragazzi si guardarono smarriti. Valerio avrebbe voluto chiederle perché lei si trovasse il quel posto ma non c’era tempo per le spiegazioni. La prese per la mano e corsero via. Recuperato lo zaino, mentre stavano facendo il sentiero di ritorno, incrociarono una coppia di mezz’età. Avevano l’aria, avendo un binocolo in mano, di essere due amanti di “bird-watching”. Si salutarono con un cenno, ma l’uomo dall’aspetto straniero posò lo sguardo sui pantaloni di Valerio che avevano delle macchie rosse. Si era sporcato con il sangue di quell’uomo e non se n’era accorto. Valerio vide quell’occhiata ma fece spallucce. Non era stata sua intenzione quella di ammazzarlo, sapeva essere una cosa grave, gli dispiaceva davvero, ma che altro avrebbe potuto fare in quel momento?

Camminavano silenziosi e svelti guardandosi ogni tanto intorno, ma lui avrebbe voluto chiedere alla “gatta” cosa ci stava facendo ai bordi di un canale, sola, così dopo qualche minuto lasciarono il sentiero inoltrandosi nel bosco. Si fermarono in una piccola radura circondata da macchie di ginepro e da bassi lecci e si misero a sedere tra vecchi tronchi e erba secca. Lei, abbandonata l’abituale postura da scapestrata giramondo che usava come una specie di corazza, aveva ancora gli occhi smarriti. Occhi da gatta, ma ugualmente spenti e impauriti. Mai le era capitata una violenza di quel genere.

– ... ma allora? ... che sei venuta a fare quaggiù? – le chiese. Si osservavano così da vicino per la prima volta. Durante il lavoro da Gino si erano scambiati qualche lunga occhiata, qualche parola ma niente di più, salvo la sera dell’ultimo giorno, quando Valerio era rimasto soffocato dalla “tirata”. Anna non rispose subito: – ... ti aspettavo... ero qua che ti aspettavo, sapevo che saresti venuto. – Gli occhi di gatta, lunghi e sottili, ripresero l’abituale luce.

Passarono la notte in quella radura. Il sacco a pelo era ampio e lei era molto magra. Non si era mai aperta in quel modo con nessuno; la sua vita era stata molto difficile e non aveva mai chiesto nulla ad altri, se non un po’ di lavoro, purché fosse all’aperto. Cresciuta insieme a una sorella più grande, morta da poco più di un anno, aveva preso poi la sua strada. – ... come una gatta selvatica. – aggiunse lui accarezzandola. Si amarono e si parlarono tutta la notte.

Al mattino, quasi dimentichi di aver gettato un morto sul fondo di un canale, tanto erano felici, arrivati a Massarella trovarono i carabinieri ad aspettarli. Il fratello dell’energumeno ne aveva ritrovato il corpo esanime ma ancora vivo nel fosso e i due stranieri, interrogati, avevano riferito di un giovane con le vesti insanguinate.

La vittima, peraltro conosciuta dalla gente del posto come uno psicotico di tipo violento, fu fatto passare da un avvocatone di parte come persona quasi innocua e malata che non avrebbe fatto del male a una mosca. L’omicidio fu considerato nella gamma dei delitti compresi tra l’eccesso di legittima difesa e il tentato omicidio.

Così il geometra, venuto in Toscana per fuggire dai suoi fantasmi, era stato condannato a trascorrere ancora in Toscana e precisamente nella Casa circondariale di Prato, “La Dogaia”, i suoi tre anni e mezzo di pena, poi ridotti a tre per buon comportamento, avendo già fatto i quattro mesi di carcere preventivo, in quanto soggetto da tenere sotto controllo.

Anna, che alla sentenza definitiva, piangendo, gli aveva promesso che non lo avrebbe mai abbandonato, per due anni mantenne la promessa andando puntualmente a trovarlo in carcere, ma ad un certo punto, improvvisamente, non si fece più viva. Nessuno, non avendo lei una residenza vera, riuscì mai a rintracciarla, neppure il cappellano del carcere.

Fosse, per contrasto, il ricordo del cappellano che parlava spesso di vita eterna oppure tutto il resto ad accendere quel proposito, quello di farla finita, non avrebbe saputo dire. Fatto sta che, con le lacrime agli occhi, cominciò a pensare in che modo avrebbe potuto uccidersi. – ... e se lo facessi adesso, che non c’è nessuno?... –

Valerio, preso da quel pensiero totalizzante e frastornato dalle reminiscenze del suo recente passato, pur sveglio e scosso da brividi di freddo, non si era accorto che intanto Ibrahim si era alzato per orinare. – Potevi pisciare anche un po’ più in là... accidenti ai marocchini. – mormorò.

Quella visione lo aveva distratto quel tanto da allontanarlo un po’ dai pensieri precedenti. La sua attenzione febbrile e insieme come incoscente adesso si era rivolta verso l’anziano nordafricano. Non sapeva dire perché avesse fatto coppia con Ibrahim. Era un buon diavolo, non faceva tante domande e ogni tanto si piegava verso oriente per le sue preghiere. All’occorrenza si aiutavano. Era un poveraccio che non si aspettava granché dalla vita. Anche lui aveva i suoi rospi; aveva sposato un’italiana che gli aveva dato due figlioli e tutti e tre adesso si vergognavano di lui. E la sera, anche durante il ramadam si addormentava ubriaco; non ne poteva fare a meno. Era già stato ricoverato due volte all’ospedale, ma la cirrosi non gli dava tregua. A volte, anche di notte, soffriva come una bestia per le violente coliche.

 - Iniziava ad albeggiare, sarebbe stata di nuovo una giornata gelida e dura. Quel febbraio era più freddo del solito, o forse gli pareva a lui. Uscito dalla “Dogaia” in aprile dell’anno precedente, avvilito e umiliato, non sapendo dove andare si era messo a vagare per il centro cittadino. Finiti i pochi soldi che l’amministrazione carceraria gli aveva riconosciuto era stato risucchiato da quell’ambiente di reietti. Inizialmente dormì con altre sette, otto persone, quasi tutti stranieri, in una casa abbandonata e fatiscente, ma presto quel “condominio” si dimostrò un inferno. Erano quasi tutti piccoli spacciatori, trans, prostitute, persone violente. Si abituò pian piano, aiutato anche da stagioni prima miti e poi calde, alla libertà del disagio solitario dei “senza tetto”. Ma adesso era veramente dura.

Dalla strada vicina cominciavano a scorrere le macchine. La gente andava al lavoro. Gli venne un groppo alla gola. Da due mesi, praticamente dall’avvento del freddo intenso, si chiedeva continuamente che cosa ci facesse in quella situazione, ma non sapeva reagire. Pareva quasi che il gelo della notte da una parte lo volesse scuotere dall’inerzia in cui era caduto, dall’altra ne annullasse la forza di volontà. In quel momento si avvicinò, fiutando, un cane tenuto al guinzaglio da un uomo ben avvolto da giaccone e cappello di lana che, accortosi dei due cenciosi giacigli sotto al terrazzo, si fermò un istante; guardò un po’, richiamò il cane e poi ripartì.

Si rimise a rimuginare. Della prigione si sforzava di non ricordare nulla. Avrebbe voluto rimuovere completamente quei due anni e mezzo. Era stato come un incubo, non tanto per il vitto o la cella angusta e la perdita della libertà. Dopotutto in carcere si mangiava e si dormiva molto meglio di quanto potesse fare ora. Era l’umiliazione. – ... che sofferenza per il mio papà... se adesso mi vedesse... con un magnaccio spacciatore e uno stupratore... quanto ha penato per me. – pensava spesso in cella.

Poi, dopo la scomparsa dell’Anna all’umiliazione si era aggiunta quella preoccupazione che presto era diventata acuto dolore: – È sicuramente morta di stenti o di malattia... sennò veniva, lei mi voleva bene. –

E a forza di compiangersi in quel modo, uscito di prigione si sentì come persona che non avesse un solo motivo per cui lottare. Aveva preso a vivere per forza d’inerzia senza un solo scopo, come un tappo di sughero che galleggi, sbattuto di qua e di là.

Per il pranzo i due andavano, ma non sempre, alla mensa La Pira, mentre alla sera passavano da quel loculo in cui i due si erano rintanati, i volontari della Ronda portando qualcosa di caldo da bere e da mangiare insieme all’occorrenza, a coperte e abiti pesanti. Durante il giorno ciondolavano di qua e di là, ognuno con il proprio zaino, guardati con diffidenza dalla gente. Qualcuno, come Valerio, si rifugiava nella Biblioteca Comunale al caldo, confidando nell’uso gratuito dei bagni. Con qualche sosta in certe chiese che non chiudevano il portone finivano la giornata.

 - Quel giorno stesso, si era ormai a metà febbraio, stavano facendo la fila per mangiare. Gli si accostò Andrea un dirigente della Mensa La Pira: – Di Biagio... ieri appena sei uscito è venuto a cercarti una persona; ha chiesto di te, sembrava una cosa urgente. Ha detto che sarebbe tornato oggi. – ... e chi era? – ...boh... non me l’ha detto. – Valerio mangiò con calma; osservava quei volontari che servivano al banco, che mettevano le mani tra gli avanzi per svuotare i vassoi, che pulivano bene i tavoli per gli ospiti, quasi fossero come pensò con amaro sarcasmo, persone normali e non miserabili straccioni come lui. Aspettò quasi fino alla chiusura, ma non venne nessuno e poi non ci pensò più. Era troppo freddo, c’era da sopravvivere fino alla sera quando, accanto al suo compagno di sventura avrebbe affrontato un’altra volta, con l’aiuto di un po’ di pessimo vino, i suoi fantasmi notturni. I quali, come e più della notte precedente, non tardarono ad apparire.

Vide arrivare, come atterrito, l’alba del nuovo giorno, sentì i primi rumori sulla strada, echi di passi, parole confuse di bambini. C’era una scuola non lontana. Saranno state le nove e mezzo, il magrebino stranamente dormiva ancora. Si alzò e poi si incamminò. La stazione centrale era la sua meta. Ormai aveva deciso, avrebbe aspettato sulla banchina che un treno partisse, un treno qualsiasi che lo avrebbe portato dove non avrebbe più sofferto.

Arrivato all’angolo del palazzo in costruzione sentì una voce: – ehi Valerio... Valerio! –

Il geometra si fermò un attimo, poi riprese a camminare; aveva un compito e non capiva che cosa volesse quel prete da lui. Era don Leonardo Basilissi vestito in borghese, il cappellano delle carceri: – Valerio!... – ripetè il cappellano accellerando anche lui il passo. – È da due giorni che ti cerco, ieri sono arrivato in ritardo alla Mensa e Said mi ha detto dove ti avrei trovato. – Poi riprese fiato, aveva fatto una corsa per arrivare fin lì e non era più tanto giovane.

– ... Anna è viva... e ti vuole vedere! – Valerio che intanto, imperterrito, aveva continuato ad allontanarsi si fermò di scatto. Ma non si voltò.

– Hai capito?... Anna ti vuole vedere! – L’uomo voltò allora la testa all’indietro. Aveva gli occhi sbarrati, fece per girarsi ma non ebbe la forza di fare alcun passo. Crollò in ginocchio come un sacco sgonfio. Don Leonardo, accorso, gli si mise accanto inginocchiato anche lui e lo abbracciò.

Valerio era incredulo, non sapeva se piangere o ridere. Si misero a sedere su un pacco di laterizi e il prete, anche lui commosso, gli dette le prime convulse spiegazioni.

Anna, un giorno di ottobre, non l’ultimo ma quello precedente era caduta da un ramo alto di un grosso olivo, sbattendo violentemente la testa contro un tronco a terra. Si trovava nella campagna di di Cerreto Guidi per la potatura e la raccolta delle olive. All’ospedale di Empoli fecero di tutto per salvarle vita; ci riuscirono ma poi rimase in coma profondo per nove mesi. Quando miracolosamente un giorno si svegliò, intanto era stata trasferita all’ospedale di Careggi, lei non ricordava nulla di nulla, neppure chi fosse. Non aveva documenti e nessuno era venuto a cercarla.

– E soltanto da dieci giorni che pian piano ha cominciato a ricordare. Mi hanno contattato ed eccomi qui. Piange e vuole te Valerio. –

L’uomo era bianco come un cencio e nel frattempo si era levato un vento gelido. Entrambi rabbrividivano, così entrarono in un bar, presero un cappuccino ma ci stettero poco. Il prete gli dette le informazioni necessarie e una busta con un po’ di soldi. Valerio, con il viso ancora rigato di lacrime, questa volta di gioia, l’abbracciò.

Riprese il cammino verso la stazione che aveva interrotto meno di un’ora prima. Il treno che tanto aveva immaginato come soluzione delle sue sofferenze, lo avrebbe portato dalla “gatta” . Gli balenò una facile battuta che lo fece un po’ sorridere, come da troppo tempo non gli succedeva: – ... i gatti hanno davvero nove vite... –

 

– fine -

IL GARZATORE SERIOSO

IL GARZATORE SERIOSO (2000)

 FOTO MONTE FERRATO

– A casa di Romeo era rimasto soltanto il figliolo più piccolo, ma per l’occasione erano convenuti alcuni amici anche loro rimasti con i ragazzi più piccini. I più grandi, tutti in fase adolescenziale tra i 15 e i 18 anni, tre maschi e tre femmine, avrebbero trascorso il fine anno 1999, a “Casa Bastone”. Romeo stesso e un altro genitore, con le macchine, li avevano portati davanti alla chiesa dei Cappuccini nel primo pomeriggio quando era ancora pieno giorno, un giorno decembrino non troppo freddo e terso di nuvole.

Dalla salita dei Cappuccini avrebbero dovuto inerpicarsi verso i “Cento Pini”, poi salire ai “Bifolchi” e infine per strada sterrata a saliscendi e piena di buche, avrebbero raggiunto la “Casa Bastone” dove, sul retro, si apriva una specie di rifugio sempre aperto e attrezzato per i viandanti.

Vi avrebbero trascorso anche tutta la notte con i sacchi a pelo.

Gabriella era in fibrillazione, lei Teresa non l’avrebbe mandata e anche Romeo all’inizio era incerto; ma poi, vedendo che gli altri amici non ne facevano un gran problema, obtorto collo, aveva ceduto.

– ... Lorenzo mi raccomando... stai attento alla tu’ sorella. Guarda, ti fo responsabile... tu sei i’ più grande di tutti e lei la più piccina... capito? – ... sieee... figurati se la si fa guardare da me... la si guarderà da sé... –

In realtà, più che ai pericoli quasi inesistenti, la Gabriella aveva in mente quell’Antonello di 17 anni.

– ... quello?... gli è troppo furbo... e svelto... eh, certo, la su’ mamma la dice che per lei un c’è problema... per forza... gli è un maschio... e furbo... – Via Gabriella, non esagerare, icchè tu voi che succeda... – Il giorno avanti Romeo aveva cercato di rassicurarla: – ... ma poi, un tu se’ mai contenta... in discoteca unn’era peggio?... tanto in casa un ti ci stanno. –

Romeo era garzatore, di quelli bravi, e guadagnava benino. Gli amici di quella sera non erano amici stretti, in realtà quelli che si conoscevano bene erano i rispettivi figlioli. D’altra parte non è che lui ne avesse tanti di amici. Al bar non ci andava quasi mai, non giocava, non fumava e il calcio non gli piaceva. Vicino alla mezzanotte si prepararono per il brindisi.

Fino a quel momento si erano messi a discutere se con la mezzanotte cominciasse il nuovo millennio oppure no. La maggior parte di loro, compreso tutte e quattro le donne erano per il sì. C’era chi l’aveva sentito dire alla televisione chi invece l’aveva letto su un rotocalco; invece Romeo il quale, contrariamente al solito aveva preso parte con interesse alla discussione, e sostenuto da Enzo un ragioniere calvo, quello che aveva tra le presenti la moglie più bella, diceva con decisione il contrario: – ... e allora duri eh?... non esiste... vi ho detto che il secondo secolo dopo Cristo iniziò il primo gennaio del 101. Di cento in cento, alla mezzanotte del 31 dicembre dell'anno 2000 inizierà il ventunesimo secolo. – ma non ce la fece a convincerli.

Gabriella, che intanto si era un po’ dimenticata dei rischi che poteva correre la figliola, più che interessata a quella questione, guardava suo marito. Raramente l’aveva visto così acceso nel questionare di qualcosa. In un lampo le venne in mente che forse si voleva far notare dalla moglie del ragioniere: – ... nooo, non ce lo vedo... tutto, ma quel difetto no... lui un ce lo vedo... no, un ce lo vedo. –

Però al brindisi ci stette attenta. Come si usava si sarebbero probabilmente baciati, come benaugurio, sulle guance; dubitò che qualche bacio, forse anche qualcuno dei baci di Romeo, potesse essere un po’ più umido e caldo degli altri. Invece no, notò che l’atteggiamento di Romeo era stato normale, quasi frettoloso.

Ma, nell’esercitare quella singolare attenzione non gli sfuggì, piuttosto, che il babbo di Luca, l’amico di Lorenzo, tra il bacio incrociato sulla prima guancia e quello sulla seconda si era fermato per qualche istante a guardare negli occhi la mamma di Michela, uno sguardo che brillava proprio come quello di lei: –..mmmh... gatta ci cova... mah, gli hanno a fare icché vogliono, a me un m’interessa... –

Poi, terminato il brindisi e consumato il rito dei ripetuti auguri, alzò la voce: – ... venite... andiamo tutti, su... mettetevi il cappotto... si vede i’ fochi... venite. –

Loro avevano un bel terrazzo “a tasca”, proprio a filo della grondaia dal quale si vedeva tutto il circondario e oltre fino alla montagna. Il cielo era stellato e anche qui, mentre tutto intorno scoppiettavano petardi e fuochi d’artificio, Romeo fece sobriamente sfoggio di un certo sapere che tuttavia incuriosì pochi. Conosceva il nome di qualche costellazione e di alcuni pianeti che prendevano luce dal sole lontano: – Quello là a occidente è Giove; ci sarebbe Saturno allineato lo vedete? Invece Venere ormai non si vede più ... –

Gabriella contribuì a distrarli dal cielo; le interessava la Calvana. A mezza costa, piuttosto in alto si vedeva Casa Bastone fiocamente illuminata da una luna quasi piena. Era eccitata: – guardate!... si vede Casa Bastone... i nostri ragazzi son là... mamma mia, un si vede neanche una lucina... icchè faranno a i’ buio? –

Romeo si rassegnò e poi quella visione interessava anche a lui; anche lui era innamorato dei figlioli. Poi gli uomini cominciarono a parlare di calcio mentre il garzatore, appoggiato sui gomiti al davanzale in cemento armato rimase a contemplare per un po’ la montagna, poi alzando gli occhi, ritornò a scrutare il cielo.

Quella sera, pensò Gabriella mentre gli ospiti stavano salutando, era andata bene. Questa volta il suo uomo, di cui era ancora innamorata, non aveva fatto la parte del musone. In altre occasioni non aveva quasi spiccicato parola. Si isolava, lo sport non l’attraeva, la politica un po’ di più ma non amava parlarne, le chiacchiere da donne anche meno, e sorrideva poco.

Anche in casa, pur adorando i figlioli, per la Teresa poi aveva un debole, non parlava molto con loro, non riusciva a comunicare più di tanto ciò che aveva dentro. Non aveva una gran base scolastica, aveva fatto tre anni di Datini e poi era stato risucchiato dal mondo del lavoro. Amava leggere, non tanto libri di narrativa, quanto opere di saggistica specialmente scientifica, non disdegnando libri scritti da storici; la cultura se l’era fatta da sé.

– Pur avendo certi interessi diversi dal solito, come si era intuito la notte della fine dell’anno, esitava a metterli in piazza o a imporli all’attenzione, temeva di essere giudicato un po’ eccentrico. Anche con i compagni di lavoro, alla rifinizione Bel-Ma ci parlava poco, lo stretto necessario per il lavoro o poco più. A Filippo, il cimatore, che aveva la macchina cimatrice vicina al garzo, Romeo piaceva: – ... con lui il titolare può andar tranquillo... unn’ha ma’ sfondato una pezza che l’è una pezza... gli è uno serio e sa icché fa... – ... mah... a me sembra anche troppo serio... non ride mai!... non l’ho ma’ visto ridere. – mormorò perplesso il ramosaio che intanto aveva affidato la “Bruckner” al suo giovane aiutante i cui movimenti però, non stava perdendo d’occhio: – ... quel ragazzo è bravo, ma è ancora troppo giovane. – chiosò sottovoce.

Stavano facendo una breve pausa ed erano seduti entrambi su un pianale di pezze uscite dalla calandra mangiando qualcosa portato da casa. Il teporino che rilasciavano quelle pezze li faceva “riavere” come sussurrò Filippo. A lui piaceva anche quel “frazio” speciale che emanavano le pezze stirate da poco; le stava come annusando. Fuori faceva un gran freddo; era arrivata la fine di gennaio con il nevischio e il vento e anche all’interno della rifinizione si gelava.

– ... certo, è vero, non ha sciupato una pezza... – riprese Salvatore, il ramosaio che era sicliano d’origine e che in quel momento forse rimpiangeva il clima mite della sua Agrigento.

– ... e neanche i’ contrario... – aggiunse l’altro, guardando senza speranza il fondo della sua pentolina ormai vuota – ... unn’ho ma’ visto nessun cliente tornare a lamentarsi perché i’ su’ articolo gli era “poco popolato di pelo”... però sì, gli è vero... se a volte si lasciasse un po’ andare... –

– Romeo si riteneva una persona razionale, era affascinato dai saperi del macrocosmo e del microcosmo e, in generale attratto anche dal mondo dell’ignoto. Pensava che l’ignoto, di per sé potesse essere cosa non irragionevole, e che avesse solo il difetto di essere, appunto, ignoto.

Non era praticante, ma l’esistenza di Dio, proprio per quella premessa era nell’ordine della natura. Non c’era cosa più probabile dell’esistenza di Dio. E forse, quel Dio non era neppure tanto ignoto. Romeo era affascinato dalla figura di Gesù Cristo il quale, pensava, si è dichiarato immagine di Dio:

– ... “chi vede me vede il Padre”... come ha potuto dire o concepire una cosa simile?.. o era un pazzo spudorato o davvero lui è immagine di Dio ... – A volte, quando era più contento, gli veniva di pensare che fosse possibile, altre volte no.

Con la sua base zoppicante si mise pervicacemente a leggere anche qualcosa di meccanica quantistica, avventurandosi perfino tra le particelle uno-dimensionali descritte nella “teoria delle stringhe”. Cozzava continuamente contro un muro, ma senza scoraggiarsi; alla fine una qualche idea riusciva a farsela.

Nell’anno 2000, ma era successo anche l’anno precedente, sui giornali e nei talk-show della televisione era presente il tema del millennio trascorso e di quello imminente. Gli capitò per le mani, quella domenica di marzo aveva portato Gabriella in centro e in piazza San Francesco c’era il mercatino del libro, un saggio stampato di recente, intitolato: “Mille e non più mille. Viaggio tra le paure di fine millennio” della storica Chiara Frugoni.

Era ancora freddo ma la giornata era bella, luminosa. – ... guarda Romeo... le rondini... dicevano che non sarebbero più arrivate... invece eccole lì... – ... non sono rondini Gabriella, sono rondoni. –

Ne stava sfrecciando un bel gruppo. Giravano intorno al campanile della chiesa trecentesca, fischiando. Ma il garzatore era rimasto assorto, chino su quel libro.

Lo comprò e quella sera a casa lo lesse tutto d’un fiato. Si addormentò molto tardi e il giorno seguente scontò la mancanza di sonno. Il libro, tra analogie come la paura della miseria, della guerra, dello straniero, delle epidemie, e certe differenze, soprattutto sul modo di affrontare la paura della morte, la storica confrontava il mondo medievale del’anno 1000 con il mondo che stava per varcare la soglia del 2000.

Romeo realizzò che, nonostante il progresso dell’uomo nel campo della conoscenza dell’universo, quel mondo in cui, pur con umiltà, egli si era addentrato con passione, l’interesse per profezie e predizioni non sembrasse esser passato di moda. La preoccupazione per l’insorgere di una catastrofe cosmologica sembrava continuare ad incombere. Si chiedeva se ci potesse essere qualcosa di vero in quelle preoccupazioni.

Nel mese di luglio c’era un gran lavoro alla rifinizione Bel-Ma e gli operai facevano parecchie ore. Romeo da qualche tempo era più serioso e cupo del solito. – ... oh Romeo, tutto bene?... – Il garzatore rispose come faceva spesso a monosillabi. Inoltre quella mattina era molto concentrato, avendo da garzare “a molle” tre grossi pianali di un “velour” misto cachemire, molto delicato. Filippo era l’unico che, ogni tanto, poteva scambiarci un po’ di conversazione, ma lo lasciò in pace.

Un’ora dopo gli portò un caffè della macchinetta e una pastina: – Se non ti va, no problem, la mangio io... ho anche fame... – Romeo si mise a sedere, era stanco e gli ci voleva una pausa e prese volentieri il caffè con la pastina.

– ... che ne pensi del Concord? Hai visto quanti morti? – Il giorno avanti un Concord era precipitato poco dopo il decollo dall’aereoporto di Parigi Charles De Gaulle, causando 113 vittime.

– ... altro che Concord... le cose non vanno punto bene Filippo... – Cioè? icché tu vo’ dire? – Quello che ho detto... le cose vanno male. –

Il cimatore lo guardò con aria interrogativa. – ... ho capito... tu sei incazzato perché l’Italia ha perso la finale con la Francia. – Era successo tre settimane prima, ma Filippo aveva fatto quella digressione per buttarla sul ridere; sapeva che a Romeo, del calcio non gli importava un fico secco.

– Allora... me lo dici icchè tu hai?... è da un pezzo che ti vedo nero. – ... sono in pensiero Filippo... quest’anno finisce il millennio e... – esitò un istante mentre alzava gli occhi per guardarlo – ... può succedere di tutto. –

Filippo sorrise: – ... ma icchè tu dici?... – Lo vedi?... gli era meglio se un ti dicevo nulla. – Invece voglio sapere dicchè tu parli... vai... non scherzo, lo voglio sapere. – ... gli è un discorso lungo... io ora ho da fare. Se t’interessa vieni a casa mia insieme alla Mery... stasera o domani... e te lo spiego. –

Filippo, mentre faceva la “spuntatina a molle” alle pezze che prima erano passate dal garzo di Romeo, ripensò a quelle parole. L’amico, specialmente sul lavoro e in un momento “di furia” come quello, non aveva mai sprecato così tante parole tutte insieme come poco prima. Doveva esserci un motivo serio. Così gli disse che quella sera stessa sarebbe andato a trovarlo.

Erano tre mesi che il garzatore si informava, leggeva, ma stando sempre sul chi vive, nel senso che non desiderava abbandonarsi né a teorie superficiali, tantomeno a superstizioni. Tuttavia persisteva in lui uno strano fascino nei confronti del mondo dell’ignoto. Un ignoto come aveva sempre pensato che, avendo il solo difetto di essere ignoto, avesse specularmente il pregio di poter essere, invece, svelato. Seguiva un sesto senso molto personale che diceva di possedere.

Al riparo della curiosità delle due donne che stettero in cucina a disquisire di professori scolastici bravi e non bravi, ripetè al cimatore, prima di tutto, che era preoccupato dei molti segnali negativi che stava percependo.

Iniziò l’elenco con il “bug”, spiegando che, al cambio della mezzanotte tra il 31 dicembre 2000 e il 1º gennaio 2001 quel “bug”, un disastroso difetto informatico, avrebbe portato alla distruzione di ogni sistema operativo e quindi, con ogni probabilità, alla fine dell’umano consesso. Le ipotesi più aggiornate assicuravano che c’era stato un errore nell’averlo previsto per la fine dell’anno precedente; adesso la cosa sarebbe stata sicura, ma non per il passaggio dalle due cifre allo 00, ma per difetti molto più complessi. – Ora non ti sto a specificarli... anch’io non li ho proprio chiari, chiari... –

Altri segnali non erano meno inquietanti. Alcuni scienziati eterodossi, fuorisciti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, prevedevano per la fine del 2000 l’esplosione di una micidiale e misteriosa pandemia che sarebbe durata per anni: – ... a quanto pare in Africa c’è già un preoccupante focolaio... –

Altri scienziati, continuò, –... bada bene eh... parlo di scienziati, non di fattucchiere... – davano per certa la improvvisa compromissione della Biosfera a causa dell’inquinamento e della sovrappopolazione, con conseguenze di portata inimmaginabile, quali la siccità, trombe d’aria, le alluvioni.

– ... ma la cosa che più mi atterrisce è la fortissima probabilità di una terza guerra mondiale atomica. – ... scusa, ma non c’è... come si chiama? ... il trattato... aiutami... – dici quello sulla non proliferazione delle armi nucleari? Ma hai visto chi hanno eletto presidente della Russia? Vladimir Putin, un guerrafondaio che ha diretto per anni il KGB, e sai in che giorno è stato eletto?... eh?... nel 31 dicembre del 1999... non ti dice nulla questa data?... è tutta una promessa. –

Romeo proseguì, davanti a un Filippo esterrefatto, che gli scienziati, grazie al telescopio spaziale, non escludevano, anzi avevano preannunciato un impatto della Terra con un grosso meteorite. Questi avrebbe sconvolto la vita del pianeta, le cui polveri sollevate avrebbero oscurato il cielo per anni causando il crollo delle temperature e l'interruzione della catena alimentare. – ... ti sembra impossibile?... lo sai come si sono estinti i dinosauri? eh? in quel modo... rientrerebbe nell’ordine delle cose... la storia primordiale che si ripete –

Fece una pausa guardando negli occhi l’intelocutore come a prepararlo alla successiva rivelazione:

– ... hai visto che le api si stanno estinguendo?... secondo te, come faranno le piante a riprodursi senza l’impollinazione?... e senza piante, lo sai che non possiamo vivere... – sì, questo lo so... ma... sei proprio sicuro? – si limitava a borbottare Filippo.

Poi il garzatore continuò parlando dell’allargamento del buco dell’Ozono, provocato dalle emissioni abnormi di monossido di carbonio. – ... sembra che siamo arrivati al punto di non ritorno... arrivati al quale le radiazioni solari ci uccideranno tutti. –

Romeo proseguì ancora e per un bel po’ con altre cose di quel genere. Dopo quasi un’ora il cimatore era prostrato, come asfissiato da tutte quelle infelicità prossime future. Per amicizia, ma anche frenato dal ragionevole dubbio che avesse, almeno in qualcosa, ragione, l’aveva ascoltato con attenzione.

D’un tratto però drizzò la schiena, alzò lo sguardo verso di lui che intanto si era alzato e lo guardò in viso; proprio come un pugile che, messo ormai alle corde raccogliesse tutte le residue energie e, uscendo dall’angolo si lanciasse in avanti: – E perché dovrebbero succedere tutte nel 2000 queste cose Romeo, proprio tutte alla fine del 2000... perché?... e che ragione ci sarebbe ? –

L’altro non si aspettava quel tono deciso: – È una domanda giusta Filippo. Ci ho pensato a lungo... – Indugiò: – ... escludo le teorie millenariste che derivavano da angosce religiose... – In realtà il garzatore, anche se non ne era perfettamente consapevole, appariva molto suggestionato da quelle credenze millenaristiche, tuttora circolanti specialmente tra certi gruppi minoritari e a cui dichiarava di non credere, ma preferiva pensare di non esserlo affatto.

– La mia è una constatazione oggettiva nata dalla ricerca di persone preparate... vedi... non dico che questi fatti debbano succedere proprio tra il 31 e il primo gennaio. Ma tra la fine di quest’anno e... al massimo in tutto l’anno... tante di quelle condizioni stanno maturando proprio ora... –

Poi fece la faccia seria: – purtroppo dobbiamo prepararci Filippo... mi dispiace se t’ho messo i pensieri. –

Filippo uscì da quella casa sconvolto, faceva fatica a credere a tutte quelle profezie pseudo scientifiche le quali lo avevano messo comunque di cattivo umore. E poi non aveva mai visto Romeo in quel modo. L’aveva sempre visto e sentito sobrio e di pochi discorsi; non lo riconosceva: – ... era meglio quando parlava poco... mi piaceva di più... – disse alla Mery durante il viaggio a casa, dopo averle riferito a grandi linee ciò che l’amico gli aveva sciorinato: – ... secondo me non si sente bene... ma come si fa a dirglielo... parla con la Gabriella. –

– Il Vangi, il titolare del finissaggio, un uomo grosso, rosso in viso e di capelli bestemmiava senza ritegno. Quella volta Romeo aveva sfondato un pianale di “velour”. Non era mai successo. L’uomo grosso scorreva le pezze allo “specchio”; ogni tanto lo fermava, ne provava la resistenza provocandone uno leggero strappo nel senso della trama e si metteva le mani nei capelli. – ... via... un c’è nulla da fare... le son tutte uguali. – Romeo era dietro di lui, impietrito. Dire che gli dispiaceva sarebbe stato patetico e inutile. Il titolare se andò via prendendo a calci un pianale vuoto facendosi anche male alla caviglia.

La sera Filippo ne parlò con Salvatore: – ... unn’è più lo stesso Romeo, sta attraversando un periodo difficile.... pensa sempre a quelle cose, s’è fissato... si sta ammalando... –

Il giorno dopo Romeo non venne a lavorare e neanche il giorno dopo ancora. Aveva telefonato dicendo di avere la febbre, ma dopo quattro giorni non si era ancora presentato al lavoro. L’amico, che non credeva alla febbre, andò a trovarlo.

Romeo si era rifugiato in camera sua, faceva finta di dormire e non voleva vedere nessuno, neanche i figlioli. Gabriella, a dir poco era preoccupata e non capiva esattamente che cosa gli fosse successo. Quando aprì la porta e vide Filippo sulla soglia le vennero le lacrime: – Fai qualcosa te, Filippo... io un so più icché fare e icché dire... –

Gli bussò alla porta di camera che era solo accostata e si affacciò appena. Romeo gli fece cenno di entrare. Il garzatore era in uno stato di profonda prostrazione e di stanchezza e provava disprezzo per se stesso. Gli raccontò che quella sera, al ritorno a casa, – ... dopo quella figura di merda... – precisò, ebbe un attacco di panico. Lui non sapeva che cosa fosse, glielo aveva spiegato il dottore chiamato dalla moglie. Sudava, sentiva dolore al petto, aveva nausea e vertigini; provò angoscia e paura della morte. Per il giorno successivo aveva deciso di non andare al lavoro, ma solo per un giorno: – ... soltanto che quell’attacco s’è ripetuto al mattino dopo e poi altre volte... mi vergogno a dirlo Filippo... me la sono anche fatta addosso... –

Gli disse anche che dopo aver superato l’attacco, stava sempre in ansia aspettando che la cosa si ripeta: – ... e infatti la cosa si ripete. – Era per quello che non voleva ancora tornare al lavoro. Poi aggiunse: – ... il dottore mi ha detto che dovrei camminare... ma non me la sento... –

– Senti Romeo... ti devo dire due cose, la prima positiva... – attaccò il cimatore: – Nella disgrazia, t’hai avuto culo... – L’altro lo guardò perplesso. – ... sì, perché quelle pezze, per fortuna erano avanzi di magazzino che il cliente voleva rifinire per lo stock, sicché il danno è minimo... –

Romeo fece un sospiro di sollievo: – ... e l’altra cosa, qual’è? – L’altra è la mia opinione su quello che ti sta succedendo. Secondo me, ma non te la prendere eh... tutte quelle tue letture, da qualche tempo, non ti fanno altro che male... anzi ti dirò di più... quelle teorie, tutto quel catastrofismo... in gran parte son tutte stronzate... –

Romeo abbassò il capo. Seguì un po’ di silenzioFilippo andò alla porta per andarsene, ma mentre stava per uscire si voltò: – devo andare a casa, però... senti... domani gli è sabato e io avevo fatto l’idea d’andare sul Monte Ferrato... t’anderebbe? –

 

– Quella camminata, nonostante che il garzatore non fosse abituato, fu come la mano del cielo. All’invito dell’amico aveva inizialmente risposto che non se la sentiva. Ma poi ci rimuginò sopra mentre faceva finta di guardare la televisione; invece del film guardava dentro di sé. Sentì che Filippo non era venuto per offenderlo anche se non aveva avuto molto tatto, ma per dargli una mano ad uscire da quella palude. Gli telefonò a mezzanotte per dirgli che aveva cambiato idea.

Via via che salivano, erano partiti molto presto perché più tardi il sole si sarebbe fatto cocente, Romeo si sentiva rinascere. L’idea degli attacchi di panico persisteva in fondo al pozzo delle sue paure, ma invece non gli successe nulla. Non parlarono molto. Come fossero stati d’accordo evitarono di tornare sull’argomento.

C’era da respirare l’aria fresca del mattino profumata della resina dei pini marittimi, c’era da spaziare con lo sguardo verso la piana; in lontananza individuarono le proprie case e anche la Rifinizione Bel-Ma. Arrivati alla sommità si misero a sedere su un masso ben oltre il segnale del CAI per osservare la valle sottostante che conduceva al paesino di Albiano.

– Romeo quel giorno non ebbe attacchi di panico così volle andare a camminare anche il giorno seguente, ma soltanto per una passeggiata breve e in pianura; le gambe gli erano rimaste affaticate.

Percorsero una strada sassosa, ma in basso, lungo le pendici dello stesso Monte Ferrato, fino a Figline. Era domenica e la Pieve di San Pietro era aperta. Partiti più tardi del giorno avanti, in quel momento il sole di fine luglio era già alto e picchiava.

L’antica chiesa invece era fresca e si stava bene a sedere su quelle panche di legno marrone. All’altezza del transetto c’era una “Ultima Cena” e una “Crocifissione”, pregevoli pitture che attirarono l’attenzione di Romeo. – ... eccolo lì – pensò – eccolo lì quello che dice d’essere l’immagine di Dio.... chi vede me vede il Padre... – Gli sgorgò allora, dal fondo dell’anima, quasi senza volere, una preghiera, semplicissima: – ... Dio mio... Dio mio... –

 

– Romeo, ce ne fosse stato bisogno, toccò poi con mano che il nuovo millennio non aveva portato nessuna catastrofe, anche se rimase convinto che l’umanità, prima o poi, sarebbe sprofondata nel baratro creato dalla stessa sua cecità e inettitudine. In compenso, in seguito all’incontro con quell’antico crocifisso aveva acquisito pian piano una sua pace interiore, come gratuito dono della ritrovata fede.

Apparentemente, dopo quella crisi era tornato lo stesso Romeo di prima; concentrato sul lavoro e nuovamente parco di parole, continuava ad essere affascinato dal sapere, dalla scienza, dall’approfondimento.

C’era tuttavia una differenza; adesso sorrideva, sorrideva molto più spesso.

– fine –

IL CONSULENTE IN CINA

IL CONSULENTE IN CINA

 PAGODA

– Ivo era amareggiato per ciò che gli aveva detto il “coglioncino”, ma tant’è, adesso doveva dimenticarselo; “quello” non avrebbe avuto il merito di rovinargli la serata.

Si era messo accanto a Martina, una brunetta di 43 anni con gli occhi verdi. Aveva fatto in modo da prendere posto accanto a lei: – ... che dici, come si mangerà qui? – ... boh, io un son tanto esperta “di cinese”... cioè... ci andai una volta anni fa con la vecchia ditta e non ci son più tornata... ci rimasi quasi secca... tutta la notte a camminare in su e in giù per digerire quella dannata anatra alla pechinese... – ... ah, ah... oh che era ancora viva quell’anatra?... – boooh... so solo che patii tanto..–

Il ristorante Hong Li era carino. – Come arredamento mi sembra comodo e sobrio, un ti pare?... non ci sono quelle pacchianerie che ho trovato l’ultima volta in via Pistoiese. – Che tipo di pacchianerie? – chiese la ragazza, la quale trascurando la sua collega d’ufficio seduta accanto, mostrava di trovarsi a suo agio a fare due chiacchiere con il tecnico della ditta.

Le raccontò che in quel posto le poltroncine fossero tutte rivestite e legate con ampi lacci da una stoffa bianca di simil-seta. – ... si sembrava a un matrimonio... – ... scusa ma te sei sposato? – quella domanda non se l’aspettava; si impappinò un poco – ... chi, io? Sì... cioè, no... sono separato... – Martina rise. – scusa ancora... sai, per associazione d’idee... ti ho interrotto. – sì, dicevo... tutti quei dettagli... i draghi di terracotta all’ingresso, aggeggi portafortuna tutti rossi, le tende con gli ideogrammi rossi... l’è la su’ cultura lo so... ma mi sembravan tanto di cattivo gusto. – ... quelli son belli però... – interloquì la brunetta indicando certi sobri acquarelli appesi proprio davanti a loro... – ... sì, quelli son belli. –

Mentre lei parlava con la sua amica, si voltò un attimo per osservarla; in fabbrica non aveva avuto ancora modo di studiarla un po’; tutto il giorno di “furia” come un forsennato. Lei aveva ancora una pelle molto bella; gli orecchini di giada le mettevano in risalto il lungo collo e i perfetti lobi rosei; pensò che gli sarebbe piaciuto mordicchiarne uno.

Alla sinistra di Ivo si era intanto “accomodato” il ragioniere. Il ragionier Corradini era un uomo pacioso dai capelli rossi che in ufficio aveva un compito di scarsa importanza. Era anche simpatico a parlarci ma la gente alle cene preferiva starne distante. Sembrava che soffrisse di aereofagia ma lui, o non se ne rendeva conto o faceva finta di non avere quel problema.

In tutti casi si era messo lì accanto a Ivo il quale, in ditta, era uno dei pochi per cui provava simpatia; e poi erano entrambi sfegatati milanisti. Ivo però era un po’ imbarazzato, non tanto per sé, tra l’altro quella sera era anche raffreddato e non correva troppi rischi, quanto per lei; nel caso, che cosa ne avrebbe pensato “occhi verdi”?

Non ebbe modo di saperlo. Alla fine della cena non c’erano stati segni di alcuna anomalia di comportamento nella donna. Convenirono entrambi che la scelta del ristorante di Campi Bisenzio, soprattutto per la qualità dei piatti fosse stata azzeccata.

– Strano che siamo venuti fino a Campi però... con tutti ristoranti cinesi che abbiamo a Prato... – chiosò Martina proprio mentre si stavano alzando da tavola. – ... sì è vero ... – pensò Ivo.

Certi pratesi quando decidevano di mangiare cinese, la cucina cinese al netto dei sospetti problemi d’igiene piaceva a molti, si spostavano dalla città.

– Forse, l’affidarsi a qualcuno della chinatown per rilassarsi una sera a cena, magari soltanto psicologicamente suonava un’incongruenza. Chi percorreva più o meno spesso via Filzi o via Pistoiese, si sentiva innervosire piuttosto che rilassare. Erano troppe le irregolarità, gli abusi, il ricorso alla clandestinità di cui si sentiva dire, per non parlare proprio del disordine di quelle strade, dei rifiuti lasciati dappertutto, della sciatteria di certi negozi dai vetri sporchi di quelle desolanti vetrine.

I lavori stradali che il comune stava intraprendendo per dare maggior decoro al quartiere non trovavano il consenso di nessuno dei suoi abitanti ai quali non importava altro che lo spazio dei parcheggi.

Ad Ivo, che stava appunto percorrendo quella zona per tornare a casa, stava riaffiorando, al ritmo lento e ipnotico dei tergicristalli azionati per le prime gocce forse di un temporale, tutto il cattivo umore masticato all’andata.

Per fortuna che alla cena si era messo accanto alla nuova commerciale per la Germania; tra il “coglioncino” che dall’altra parte della tavolata, mentre faceva il brillante con gli altri gli aveva lanciato qualche occhiata, insieme torba e soddisfatta, e il resto delle conversazioni “da urlo”, ci sarebbe stato da spararsi. Nel tardo pomeriggio c’era stata la discussione che l’aveva messo in crisi.

Fece una doccia bollente, quasi a scrollarsi di dosso quell’amarezza e andò a letto subito. Lesse solo qualche riga del libro che aveva avviato: “I quarantanove racconti” di Hemingway, ma nell’addormentarsi rimase nella vaghezza di quella trama.

Harry, con una gamba in cancrena e la sua ricca moglie erano rimasti in panne nella foresta ai piedi del Kilimangiaro in attesa di aiuti che non arrivavano. Harry aveva sprecato la sua vita e il suo talento di scrittore recitando una parte ed ora stava vomitando su quella donna, anche lui, la sua profonda amarezza.

– Al mattino dopo, ripensadoci, si dette di bischero. Si prospettava una bellissima giornata di luce limpida guadagnata con quel temporale notturno e lui non aveva nulla da spartire con il povero Harry.

– ... io gli vo in culo a quello lì... “il coglioncino” m’ha belle e rotto... ora gli fo vedere io... –

Era arrivato in fabbrica in bicicletta, percorrendo la ciclabile lungo il Bisenzio, anche per scacciare quel denso malumore che gli camminava ancora, nonostante i proclami fatti, sulla pelle. Era ancora incazzato ma non voleva darlo a vedere. Ivo nutriva per il figliolo del vecchio Bartolini, gran cervello ma ormai fuori uso purtroppo, un sottile disprezzo. Non di rado, quando lo incrociava per i corridoi, gli veniva uno sgradevole pizzicore, e in questi casi non in senso metaforico, ai bracci e al collo. La stessa cosa gli succedeva in occasione di certi moti di disappunto o per altre improvvise spiacevolezze.

L’aveva visto crescere ma “quello” si era permesso da tempo di fare il sapiente imprenditore e lo stilista con lui. E adesso anche il benservito; era troppo.

Guardava fuori dalla porta a vetri che dava sulla “declassata”, pensando che non doveva avere fretta.

Separato dalla moglie da due anni, per noia, come amava dire lui, Ivo si stava avvicinando alla boa dei sessant’anni, gliene mancavano solo due. Erano sì ben portati, alto, con i capelli quasi tutti neri, piaceva ancora a qualche tardona; ma quando la consapevolezza di non essere più un giovincello gli ritornava alla mente gli montava quel fastidioso prurito.

Il babbo Fiorenzo morto da un anno non era nato operaio ma contadino, come la maggior parte della popolazione di allora, nella corte del Cerbai in zona Ponzano, dalle parti di Mezzana. Lui era stato garzatore-cimatore quasi per passione, di quelli bravi dicevano, nella fabbrica del Pecci, mentre questa si trovava ancora in via Valentini. Mamma Dora invece rammendava in casa, contribuendo al raggiungimento di un tenore familiare più che decoroso.

Ivo, che era nato quando la famiglia si era già trasferita a Narnali proprio accanto alla chiesa, bazzicando da ragazzo il circolo ARCI di quel paese, incrociò Francesco Nuti che di quel circolo era quasi frequentatore e quel film: “Madonna che silenzio c’è stasera”, ri-visto da lui almeno quattro-cinque volte, lo faceva “schiantare dal ridere”. “Puppe a pera” diventò la sua colonna sonora di quel periodo.

Nuti aveva fatto il “Buzzi” e quel fatto, insieme all’opinione favorevole del suo babbo che lo spingeva a studiare come “tennico”, contribuì, quando venne il momento di prendere una decisione, alla scelta della stessa scuola. Fece quella scuola con passione; nell’ingresso, dopo il pesante portone di ferro, vi era allocato il busto bronzeo del professor Tullio Buzzi, fondatore nel 1886 del “Regio Istituto Nazionale di Chimica Tintoria e Tessitura”. Ogni mattina, passandogli davanti, gli veniva di salutarlo con un cenno del capo. Egli dunque, partito da piazza Ciardi, era arrivato adesso all’anno 2022 potendo considerarsi un prodotto pratese tra i più riusciti dal punto di vista professionale.

– Il figliolo del Bartolini, non potendo mascherare la sua arroganza, si espresse senza tanti preamboli. Gli rinfacciò di aver fatto di nuovo una collezione troppo cara per la loro clientela e non compensata dal contenuto: i colori erano troppo maschili e i disegni, diceva il “coglioncino”, non emozionavano.

– tu lo sai bene Ivo... i tempi sono diffcili... anzi no, difficilissimi... ergo... visto che le tue collezioni non sono quel valore aggiunto tale... anzi Ivo, mi sa che hai perso il tuo vecchio smalto... questo devi ammetterlo, no?... che ci può salvare da una situazione così... –

Anche l’amministratore socio di minoranza, un meridionale laureato, un grassoccio con i capelli untuosi, sibilava da tempo che la ditta non si potesse permettere a cuor leggero uno stipendio come il suo: – Prima il duro periodo del Covid... ci ha messo davvero tutti in ginocchio.... il 2021 invece non sarebbe andato male come ordini... ma il ricavato è stato uno strazio... lo sai, no?... adesso, che il lavoro ci sarebbe... è un casino... non si può consegnare, i costi stanno saltando tutti e ora con quell’incredibile guerra russo-ucraina non si sa dove si va a finire. –

Lui, dal suo punto di vista aveva anche qualche ragione da sostenere, ma la cosa che faceva schiattare di rabbia Ivo era piuttosto il tono e le ipocrite motivazioni apportate da “quell’altro”.

Da quando l’ictus del babbo lo aveva portato a prendere il comando, tra loro era stata guerra aperta. Ivo era dirigente e poteva essere messo alla porta in qualunque momento. Il coglioncino, magnanimo, aveva concluso che gli avrebbe concesso tre o quattro mesi pagati. – Così passerai le consegne... ma se poi hai bisogno... Ivo, noi siamo qui. – aveva concluso andandosene via impettito.

– Fuori, vicino a quella porta a vetri da cui si accedeva al suo ufficio c’era una bella palma di trent’anni che sembrava suggerire assolate vacanze, magari alle Maldive. Era solo senza figlioli e con la sua liquidazione se lo sarebbe potuto permettere. Invece no, non ci pensava neppure: – ... porca puttana... gli fo vedere io... se t’ha bisogno... se t'ha bisogno... da lui... figuriamoci... –

Da un’oretta rifletteva a quell’incontro certamente casuale fatto a Premiere Vision, camminando e curiosando tra gli stand del salone sei. Pierino Rosati si era avvicinato molto cordiale e quasi affettuoso, quando lo aveva visto passare davanti al suo stand; d’altra parte Ivo lo aveva seguito nella sua maturazione quasi come un figliolo, durante i suoi dodici anni alla Balli & Rosati.

“..Sai Ivo, in Cina... lo so eh, che non hai troppo simpatia per i cinesi... cercano un consulente per fare la collezione, ti interessa? Loro sono indietro come il cucco come gusto e ricerca, non avresti problemi con la tua esperienza; l’ho vista, hanno i prezzi ma fanno una collezione che fa pena…”

L’aveva ringraziato, dicendogli che ci avrebbe pensato, ma dentro di sè aveva già accantonato l’idea. Avrebbe dovuto andare in Cina, che era un posto che non lo attirava. Ne sapeva qualcosa, già ci andavano diversi pratesi; la sera a Shangaji agli angoli delle strade della parte vecchia, a quanto pareva, se uno stava attento, sentiva l’eco della parlata becera e pungente dei pratesi.

E poi era un abitudinario; rinunciare anche per alcuni giorni al mese al giro dei suoi amici, molti dei quali separati o divorziati come lui, al suo percorso settimanale in bicicletta da corsa per monti e valli con Guido, no, non se la sentiva. E poi dal Bartolini, anche se non era il massimo, infatti aveva conosciuto soddifazioni migliori alla Balli & Rosati come professionista disegnatore, non ci stava male, e la retribuzione era ragguardevole.

– Invece quella mattina stessa, dopo aver contemplato bene bene la palma, gli telefonò: “Pierino mi puoi spiegare un po’ meglio di cosa si tratta? Quando posso venire da te?”

Con i cinesi si era trovato d’accordo facilmente tramite e-mail all’inizio, poi con Skype e whatsapp. Era stato molto pratico e veloce. Evidentemente, avevano buone referenze e un bisogno urgente di una persona esperta per lo sviluppo della loro collezione di tessuti Jacquard.

Avrebbe lavorato prevalentemente con il CAD ArahWeave che Ivo maneggiava benissimo, ma era necessario che andasse a Shaoxing, nello Zhejiang, almeno due volte nella prima stagione, ma una volta sola per quelle successive. Il contratto, non esclusivo, inizialmente sarebbe valso per due stagioni, rinnovabili e con un’ottima remunerazione.

Era finalmente diventato un “Consulente”. La figura del consulente a Prato non designava semplicemente colui che forniva la propria consulenza in qualche materia di lavoro.

Esser consulente, per antonomasia, voleva dire esser tecnico disegnatore affermato e d’esperienza il quale, proprio come un rabdomante della moda, avendo quel fiuto che non a tutti è dato, e avendo le giuste informazioni, o quantomeno dando la sensazione di avere entrambe quelle doti, forniva sapientemente il giusto orientamento per la nuova collezione, a cominciare dalle qualità, dai disegni e dai colori; egli, come un “brand” di successo, veniva guardato con rispetto e ammirazione da tutti.

–... ecco... – si disse Ivo con un sorrisino ironico: – ... ora io sono un Consulente... per la Cina. –

– Otto giorni dopo era sull’aereo. Nell’attesa, naturalmente, si era informato in che razza di posto fosse la “Zhejiang HirokiMa Jacquard Weaving Co.”

Quella città, Shaoxing, di cui non aveva mai sentito parlare, era una metropoli di quasi 5 milioni di abitanti, a 200 chilometri da Shangaji e circa da 300 chilometri da Wenzhou, la città da cui provenivano i cinesi di Prato.

Su internet aveva visto che nella stessa regione, ci sarebbero stati anche alcuni posti interessanti da visitare. I dintorni di Hangzhou, per esempio, città distante appena 70 chilometri, dovevano essere molto belli; quei suoi laghi incantati, quei paesaggi, diceva la pubblicità, erano mete turistiche di grande fascino e richiamo. Pensò che, se la cosa fosse andata avanti, una volta o l’altra gli sarebbe piaciuto visitarli, chissà, forse in compagnia.

Arrivato all’aereoporto di Hangzhou Xiaoshan, fu portato subito negli uffici dell’azienda. Durante il primo colloquio de visu si trovò spesso in imbarazzo; l’inglese apparentemente sicuro di Kumico e di Brigitte, due sorridenti manager dagli occhi a mandorla era un po’ difficile da capire, lo era stato anche attraverso Skype, ma lì c’era la scappatoia di poter scrivere in caso di incertezza. Tuttavia fece del suo meglio.

Il fabbricato, grande e moderno, si trovava nel distretto tessile di Keqiao. Seppe che fosse il distretto tessile più grande del mondo. – cavolo... altro che macrolotto... però è assurdo, sono arrivato a questa età e non lo sapevo ancora... credevo che Prato fosse l’ombelico del mondo –

Sebbene il pratese fosse poco portato ad apprezzare le bellezze orientali, riconobbe che Kumico, nome molto popolare in Cina il cui significato è “bambina dalla grazia eterna”, fosse davvero carina.

– A Prato, intanto, il figliolo del Bartolini era rimasto come “un fico secco”, non si aspettava un esito così veloce. E non si sentì poi così sollevato senza il vecchio Ivo, come presagiva di sentirsi. Gli vennero dei dubbi, ma ormai era cosa fatta. Non potè opporsi più di tanto al fatto che il tecnico non avrebbe potuto lasciare le consegne al suo successore poiché questi non era stato ancora trovato. Si rese conto che non sarebbe stato tanto facile sostituirlo e a un costo di molto inferiore come era nelle aspettative. Dopo qualche giorno se la prese con l’amministratore che lo aveva spinto a quel passo.

Martina seppe di quel nervosismo e, sapendo di farlo godere, inviò a Ivo una colorita mail per raccontarglielo. Loro, prima della partenza si erano rivisti altre due volte. Avevano parlato molto e si erano guardati negli occhi. Quel flusso di forte simpatia, che aveva prodotto soltanto qualche bacio sulle guance al momento dei saluti era vivo, e superava in quei giorni monti e deserti. La commerciale dagli occhi verdi era divorziata ed aveva Susy, una bellissima bambina.

– L’impatto con i due tecnici della produzione, sul momento non apparve semplice; uno di loro sapeva poco l’inglese, oltretutto storpiato da quella pronuncia, l’altro appena di più. Ivo non si scoraggiò e riuscì a ricacciare il prurito che gli stava montando. Fece in modo, pian piano, che si creasse un clima di empatia e di collaborazione, sfoderando sorrisi e leggere pacche sulle spalle.

Al netto di qualche momento di imbarazzo reciproco, esprimeva e intuiva bene il senso del discorso; d’altra parte i filati, i colori, le titolazioni e il resto erano materia a lui familiare. Fu abbastanza faticoso ma alla fine se la cavò.

Il Consulente buttò giù le sue proposte di colore e di qualità con professionale sicurezza attaccandole alla parete, non mancando di fare qualche osservazione riguardo alla loro produzione storica.

L’albergo dove era alloggiato era pulito ma anonimo. Per colazione, a parte il caffè e il thé, gli vennero serviti sapori che non conosceva. Anche a cena rimpianse il ristorante di Campi Bisenzio che in teoria, pensò, avrebbe dovuto assomigliargli in quanto al cibo. Dopo cena fece un giro a piedi per il quartiere, anch’esso anonimo, con il bavero del giubbotto tirato in su; per essere di fine aprile l’aria era freddina e anche molto umida.

Il giorno seguente Kumico e Brigitte lo portarono a cena nel vecchio centro della città. C’era anche il marito di Brigitte, un educato dirigente di un’azienda di logistica.

Ivo vide che la città era attraversata da molti corsi d’acqua. Seppe che tutta la provincia dello Zhejiang, che vuol dire appunto “fiume Zhe”, era ricchissima d’acque e di canali.

Gli spiegarono anche che Shaoxing fosse la città di Lu Xun e che molti posti e musei ricordavano quello che era stato il più famoso scrittore e poeta dell’intera Cina. Ivo non osò dire che fosse la prima volta che ne sentiva parlare.

Dopo un’ottima cena, pensò che quel posto fosse finalmente da mettere al livello del ristorante di Campi, salirono sulla “Dashan Pagoda” da cui si poteva vedere, by night, l’intero panorama della città.

Dopo due giorni cominciava ad avere dimestichezza con l’ambiente. Sembrava che andasse tutto bene, quando successe un fatto clamoroso.

– Il covid aveva fatto di nuovo il suo ingresso in Shaoxing e in altre zone limitrofe e le autorità sanitatrie, quasi “alla zitta” avevano predisposto un rigido cordone sanitario. La risposta del governo cinese paladino della strategia "zero contagi " contro il Covid variante Omicron, come spiegò un’affranta Kumico, era sempre la stessa: chiudere, testare, isolare. Il nuovo focolaio scoppiato rischiava di dare un pesante contraccolpo al fatturato anche della Zhejiang HirokiMa Jacquard Weaving. Era un disastro.

– ...mister Ivo, mi dispiace molto... corra via subito, farà il lavoro da casa, forse l’aereoporto è angora agibile... –

Non ci fu niente da fare, perfino i taxi erano stati tutti bloccati dalla polizia locale. In questi casi, anche se i numeri dei contagiati potevano apparire ridicoli in Europa, le aziende avevano l’ordine di sospendere la produzione per prevenire la corsa del contagio. Raduni e spostamenti erano vietati. Già nell’ultimo dicembre, in questa stessa regione, mezzo milione di persone erano state messe sotto osservazione, molti negozi chiusi, voli cancellati.

Ivo non poteva neppure tornare in albergo. Gli improvvisarono una camera e un bagno all’interno dell’azienda: – ... sono veramente nella merda... ma guarda in che situazione mi trovo... –

Dopo il primo moto di sconforto, Ivo pensò di approfittarne per finir bene e con calma l’impostazione del suo lavoro.

Le loro eccellenze, oltre al prezzo, erano i tessuti per abiti e giacche, prevalentemente da donna, in poliestere multibava in titoli finissimi, un poliestere morbido e performante. Ma le loro collezioni passate, effettivamente, mancavano di creatività e ciò, la creatività e la fantasia, purché non fossero espressioni di voli pindarici, ma valori legati al mercato, erano quello che Ivo era venuto a portare.

Una volta finita la parte pratica iniziale, filati, bandiere di qualità, chiarimenti, non potendo fuggire da quella prigione cominciò a disegnare con il suo prezioso CAD, come fosse stato a casa sua.

– Questa parte del lavoro, non sarebbe neanche un lavoro... – pensava, – ... è un godimento... dovrei pagare io... sì, sì, sì... dovrei pagare io... – Ogni tanto, tra sé mugolava qualcosa. “Tu hai le puppe a pera” era ancora il suo must preferito, insieme a certe reminiscenze canore degli anni ’80, i suoi anni ruggenti.

Martina per consolarlo, via web, dopo qualche giorno gli aveva scritto: – ... dopo codesta over dose di Cina ci pensi a come riuscirai ad apprezzare di più la vecchia Prato al tuo ritorno?... spero che potrai apprezzare meglio anche qualche matura pratese... come me per esempio... – ... io apprezzo già molte cose di te, specialmente il tuo lobo sinistro, cara mia commerciale per la Germania dagli occhi verdi e, a parte gli scherzi... mi vieni in mente davvero molto spesso... –

In altri momenti, più malinconici, ripensò a come aveva sprecato la sua vita fino a quel momento, non come professionista, ma come uomo. Non ce l’aveva con la moglie separata; lei non si era nascosta, era in quel modo anche prima, ma aveva fatto finta di non vedere. Non aveva mai voluto avere figli, desiderava le compagnie di persone brillanti, forse per riempire il vuoto con il brusio delle chiacchiere. Poi, con il tempo, non molto, venendo meno l’attrazione fisica, del loro matrimonio non era rimasto quasi nulla. Non aveva reagito, aveva lasciato che molti altri anni trascorressero nell’inedia, punteggiata solo dalle sporadiche e reciproche corna che ognuno di loro fingeva serenamente di ignorare.

– Una sera sul tardi era ancora immerso nel lavoro chino sul computer, tanto più che la televisione cinese faceva dei programmi che facevano schifo oltre che incomprensibili per la lingua, quando sentì bussare alla porta della sua camera-ufficio. Era un’ora inconsueta per le visite di lavoro.

– ... scusi tanto signor Ivo... sa... mi sento un po’ in colpa... chiuso in questa fabbrica come fosse colpevole di chissà che... anche se anch’io non c’entro nulla per la verità... mi chiedevo se... –

Era Kumico. Sorrideva imbarazzata. Si rendeva conto che quelle parole non riuscivano a giustificare la sua visita a quell’ora. Forse giocava a carte scoperte o forse era un’ingenua. O forse tutte e due le cose. Naturalmente la fece entrare.

Lei, intelligente e volitiva manager trentanovenne e, pur osservata con parametri europei, anche bella, disponeva normalmente di un suo appartamentino di servizio nella fabbrica.

Da giorni era incerta; l’italiano, anche se molto più maturo di lei le piaceva, ma lui non aveva mai fatto un gesto o detto una parola che le potesse far intravedere un qualche suo interesse. La donna era buddista di famiglia, ma da tempo in Cina la religione aveva scarsa presa sulla gente, in particolare con le persone più emancipate. Il Dio venerato da tutti in realtà era il dio Yen che non era né un dio comunista, né proprio capitalista. Il presidente Xi Jinping stava facendone un culto popolare. In tutti i casi poi, l’etica sessuale buddista, come in altri campi, cercava di seguire sempre una via di mezzo. Né troppa rigidità, né troppo lassismo: – L’importante è esprimere se stessi con moderazione. – era la sintesi più frequente.

Kumico si era confidata con la dolce Brigitte, la sua collaboratrice e amica alla quale aveva detto di sentire quell’attrazione per l’italiano. Il suo dubbio maggiore era se, nel caso, una relazione avesse potuto compromettere la loro importante collaborazione. Ma quella sera si era decisa.

Si accomodarono su due divanetti separati da un tavolino di legno. Riprese l’incerto discorso: – ... mi chiedevo appunto... sicuramente si annoierà signor Ivo... così... le ho portato dei nuovi film in inglese... sono in questa chiavetta... certo è un po’ tardi... – ... no, no, si figuri... macchè tardi... –

Ivo la levò d’impaccio con la sua cordialità. Prese due bicchieri e la bottiglia di Bourbon e li mise sul tavolo. Le dette una sapiente occhiata senza parere; lei era veramente graziosa. Aveva le unghie lunghe laccate di rosa chiaro e i jeans elasticizzati e attillati mostravano in tutta evidenza le sue attraenti sinuosità. Stava decidendo come impostare la conversazione.

– Da giorni non faceva che pensare a Martina. Il diverso fuso orario, le sei ore di differenza, non impedivano loro di scriversi spesso. Si erano telefonati invece soltanto due volte. La scrittura favoriva di più lo scavare dei sentimenti, la profondità del linguaggio, la riflessione. Intuivano entrambi che la loro vita poteva essere a una svolta. Capivano tutti e due la bellezza, l’autenticità del loro incontro. Si stavano innamorando l’uno dell’altra, a 14mila chilometri di distanza.

Ivo, assorto in quei pensieri non si accorse che la donna, perplessa, lo stava osservando.

– ... scusa, scusa... lo vuoi un altro po’ di Bourbon... oppure preferisci il whisky... ce l’ho sai... la tua Brigitte è bravissima, non ha trascurato nulla. Mi ero assentato per un momento... sai, con la testa... d’un tratto mi sono ricordato che dovrei telefonare alla mia mamma... la trascuro... lei è rimasta vedova da un anno... ma dimmi... i tuoi genitori dove abitano? Sono qui a Shaoxing?... –

Kumico lo guardava meravigliata, mentre lui imperterrito continuava in quella surreale inchiesta sulla vita di una manager cinese che stringeva in mano ancora quella chiavetta dei film.

– ... e dove hai fatto l’università, qui o a Shangaji?... o a Hangzhou?... pensavo che un giorno, magari quando ritornerò... sai quei laghi nei dintorni di Hangzhou?... – ... sì sono molto belli... – rispose lei in un sussurro.

Kumico fece allora una pausapoi si alzò e fece un mezzo inchino: – ... comunque grazie del drink Ivo... grazie davvero... è tardi... –

Si avviò alla porta; dal suo volto non traspariva nulla. Ivo l’accompagnò: – ... grazie per la visita Kumico, sei molto cara... –

– Contrariamente ai primi timori, dopo appena diciotto giorni, si era parlato inizialmente di almeno due o tre mesi, le restrizioni vennero annullateForse era stato un falso allarme, ma le autorità non lo ammisero.

– fine –

IL PROSCIUTTO NELLA CASSA

IL PROSCIUTTO NELLA CASSA

FOTO PRATO PT

  - Il Faggino con il suo solito grembiule blu stinto entrò nello stanzone sogghignando. L’anziano e canuto magazziniere appena un po’ incurvato ma ancora energico, aveva il cuore di un bambino. Portava un prosciutto con sé tenendolo in braccio ma non disse niente; sottecchi stava guardando la reazione, aspettava che i tessitori artigiani che a quell’ora popolavano lo stanzone lo notassero e gli chiedessero qualcosa.

Infatti il Sermi, quello più giovane dei fratelli, glielo chiese: – ... oh Faggino... o codesto prosciutto, icchè tu fai con codesto prosciutto in mano?... –

Il tessitore del Bottegone, un furbone che come al solito faceva mostra dei suoi denti bianchi in un gran sorriso incorniciato da baffetti scuri non ne era proprio sicuro, ma si aspettava la birbonata, l’abituale scherzo del Faggino. Stette al gioco, così alzò un po’ la voce voltandosi verso il gregge dei terzisti che facendo la fila davanti alla porta vetrata del dispositore aspettavano “la tela”: – Oh ragazzi... oh icchè fa i’ Faggi... oh che ha perso i’ capo?... oggi invece che prepararci i’ ripieno ci fa la merenda co’ i’ prosciutto! – ... ridete, ridete quanto vi pare – rispose lo stesso Faggi, rivolgendosi alla piccola folla di artigiani che intanto si erano girati verso di lui, alcuni riducchiando, chi invece incuriosito aspettandosi davvero una spiegazione.

– ... io... questo prosciutto... – scandì le parole mentre brandiva il prosciutto come un trofeo, – un vu ci crederete... ma l’ho trovato in una cassa sotto a i’ saldo del ripieno... però un so chi è il tessitore che l’ha messo... e lo volevo ringraziare... –

Scoppiò la risata. Il Faggi, quasi serio continuò a reggere la parte – ... come... un vu ci credete? Ferrero, un ci credono... diglielo te. C’era lui quando l’ho trovato. – insistè indicando l’altro magazziniere, il quale non essendo capace di sostenere la scena, per non mettersi a ridere anche lui scappò via.

Allora alcuni tessitori lo ripagarono con battute e colpetti sulle spalle: – ... oh fate piano... son vecchio... tra poco vo in pensione ... –

“La tela” era il subbio carico dell’ordito, il “saldo del ripieno” era l’avanzo della trama che era stata consegnata insieme allo stesso ordito per la commessa di tessitura in conto terzi, e tale era il clima più che rilassato che, non di rado, si respirava ancora a Prato nelle fabbriche nel 1993. Nel corso del decennio precedente l'industria tessile pratese aveva subito un deciso rallentamento, ma all’inizio degli anni '90 la produzione si era adeguata alle nuove esigenze merceologiche e verso maggiori livelli qualitativi, e si nutriva in giro un certo moderato ottimismo.

 - Intanto, mentre il tessitore, quello che aveva il merito di abitare accanto alla macelleria “Roma” si era fatto avanti per ri-avere i soldi dal Faggi, scese dalle scale il ragionier Cipriani il quale avendo fatto in tempo a sentire quel brusio ancor carico di ilarità, chiese spiegazioni.

Lui era un tipo gioviale e un bell’uomo e dicevano che se la intendesse con l’Ada, la commerciale belloccia che curava l’esportazione con la Germania. Anche lui si avvicinò al Faggi che in quel momento stava tirando fuori il portafoglio: – Faggino, tu se’ sempre il solito casinista... – esordì sorridente – digli piuttosto alla tu’ figliola di darsi una regolata... anche lei l’è come te... se la un fa casino la unn’è contenta. –

Si riferiva al fatto che Marzia, la figliola del Faggino e addetta in campionario, avesse sbagliato ad attaccare le etichette alle “bandiere”, sbaglio rilevato per caso proprio dalla nuova commerciale e che avrebbe potuto creare dei problemi.

Ma glielo disse con leggerezza appoggiandosi appena sulla sua spalla incurvata. Li accomunava la stessa sfegatata passione per il Prato, passione che entrambi condividevano con il vecchio titolare; e poi Marzia era simpatica a tutti, solare, sempre pronta a salutare a far battute, e sapeva spendere una parola buona con chi sapeva esser preso da qualche suo problema, sia che fosse inesprimibile o ben noto a tutti.

Il Faggi Faggino, ancora grato ai genitori che, a suo tempo, con quello sforzo di fantasia gli avevano messo un nome facile da ricordare, lo guardò con un mezzo sorriso amaro, inconsueto per lui. Aveva pensiero per quella figliola che a quaranta e più anni era ancora nubile, non contenta di esserlo.

 - Proprio il Cipriani, anche lui “ragazzo invecchiato” l’anno avanti, alla Marzia ci aveva un po’ pensato. Lei non era una gran bellezza anzi, a dirla tutta era bruttina; bocca troppo larga posizionata tra due orecchi a sventola come quelli del babbo, gli occhi piccoli, capelli crespi e biondicci né corti né lunghi, niente seno. – ... però l’ha un bel culo... – era il commento più ricorrente quando qualcuno cercava di trovarne almeno uno, dal punto di vista fisico, di lati positivi. Ma tutti, eccetto l’Ada, le volevano bene per quel suo carattere positivo.

Marzia ad un certo punto si era accorta dell’interessamento del ragioniere; qualche lampo nello sguardo di lui l’aveva fatta un po’ sobbalzare accellerandone il battito cardiaco; ma poi la dirigenza aveva assunto la nuova commerciale e tutto era finito lì.

I lampi adesso, Alessio Cipriani li indirizzava verso quell’Ada, una pugliese appena in carne di trentadue anni ma belloccia che era venuta su a Prato da poco. Laureata in lingue straniere all’università del Salento, non trovando di meglio, aveva raggiunto il fratello, a Prato da parecchio tempo e impiegato alle Poste.

A lei non piaceva la Marzia, erano troppo diverse; il ritrovamento di quell’etichette sbagliate l’aveva fatta godere. Ada era bella, mora, capelli lunghi ben curati, labbra carnose rese ancor più appariscenti dal suo rossetto preferito, il Christian Dior Rouge, però seriosa e sulle sue; l’altra pur benvoluta da tutti aveva quello scoraggiante aspetto insipido.

Non capiva come avesse fatto Alessio, sia pure in modo fuggevole, a farci un pensierino. Quella volta, alla fine di una serata intima ma un po’ spenta, il ragioniere di solito brillante era apparso invece melanconico, glielo aveva confidato, ma poi se ne era presto pentito.

– ... voce dal sen fuggita poi richiamar non vale... – si disse tra sé qualche giorno dopo quando si accorse dell’effetto ottenuto. L’impiegata era diventata gelosa della figliola del Faggino e aveva cominciato a scrutarne tutti i suoi atteggiamenti, a pesare le sue battute dolendosi finanche della sua simpatia.

 - Il titolare del lanificio, Nello Gualtieri, passava per un vecchio tirchio che non si decideva a lasciare libero il passo al figliolo, il quale mordeva il freno, ritenendo di avere – ... palle e polveri quanto e più di quel vecchio taccagno... – come si era espresso inopinatamente una volta con lo stesso ragioniere.

Certo, alle fiere, troppo faticose per lui mandava il figliolo e il dottor Quartaroli, ma molte decisioni, da quelle importanti a quelle più insignificanti le prendeva sempre lui.

Nei bagni degli uffici come in quelli attigui alle lavorazioni voleva per esempio che fossero utilizzate, insieme alle pagine dei quotidiani anche le pagine delle vecchie riviste, scivolose e rigide suscitando malcelate ironie e aperti malumori. A un certo punto se ne rese conto e fece togliere almeno quelle dei rotocalchi. Molti tuttavia si portavano da casa la carta igienica.

Il vecchio Nello, che sembrava il ritratto della fame per la sua magrezza e appoggiandosi alla sua mazza di olivo, girava lento per i reparti, guardando e valutando tutto. Non amava intervenire direttamente, ma poi ogni tanto chiamava in ufficio ora questo ora quello. Poche ed aspre parole se di rimprovero, scarne approvazioni che centellinava come rosolio quando era il caso di approvare.

Seppe anche che il Faggino, quasi l’unica persona in fabbrica con il quale si fermava a volte a chiacchierare, con lui soprattutto del Prato, aveva fatto il buffone come gli veniva di fare ogni tanto, ma il vecchio non dava peso a quelle cose, anzi: –... panem et circenses... – pensava Nello rivangando qualche reminiscenza scolastica – ... la plebe bisogna tenerla bona... – In quanto al pane, i subbi erano ricolmi di “tele” e il lavoro non mancava al lanificio Gualtieri.

Tutto sommato il vecchio titolare, se non fosse stato per quella sua incomprensibile debolezza riguardo al risparmio della carta igenica era un buon diavolo. Era cosa che non sapeva nessuno tranne il Cipriani che era tenuto alla riservatezza, il fatto che Nello aiutasse alcune famiglie povere e alcune case-famiglia e non solo per Natale come aveva fatto nel mese passato. Lui era nato orfano e quindi povero, anche se poi con grande fatica si era realizzato, e se ne ricordava.

Ma la cosa che meravigliava tutti, non poco, vedendolo sempre compassato e riservato, era appunto la sua passione per il Prato Calcio. Quello era uno dei pochi argomenti per il quale si lasciava andare.

Da giovane aveva giocato un po’ a calcio nelle giovanili del Prato, dicevano che fosse stato un buon centravanti, cosa difficile da immaginare per chi lo vedeva ora.

Poi dovendo studiare e insieme lavorare sodo come operaio lasciò la vita agonistica, ma gli era rimasta intatta quella gran passione. Alla domenica, nel periodo più glorioso, quando il club bianco-azzurro giocava in serie B, lui era fisso sugli spalti a fare il tifo.

Adesso il Prato navigava in acque più modeste, ma proprio in quell’anno, nel ’93, la squadra stava disputando un campionato di C2 nelle prime posizioni. Il figliolo, con una certa dose di cattiveria, lo prendeva in giro per quella che definiva una stranezza che non gli si addiceva.

Invece il motivo per cui Nello non desse alcuna o poca fiducia proprio a lui, ad Aurelio, era ignoto a tutti, meno che agli interessati. E a quanto pare, come si sussurrava, il vecchio non doveva avere tutti i torti a tenere quel comportamento; sembra che quell’Aurelio di guai ne avesse fatti alcuni di quelli grossi. Così nella gestione corrente del lanificio si appoggiava a tre colonne; il ragionier Cipriani per l’amministrazione, il tecnico Bogani che pensava sia alla collezione che alla parte produttiva e infine al dottor Quartaroli, un bolognese trapiantato a Prato che dirigeva la parte commerciale. Tuttavia voleva esser messo a corrente di tutto e l’ultima parola era sempre la sua.

 - Nell’anno precedente ai fatti sopra descritti, dopo decenni di lotta, Prato era diventata provincia e finalmente poteva esibire l’agognata targa PO. Le sirene delle fabbriche, i clacson delle auto e le urla di giubilo dei pratesi, il 16 aprile del ‘92 avevano salutato l’avvenimento. Ma lo stesso anno era stato anche l’anno di avvenimenti molto più importanti dell’istituzione della provincia pratese.

A due mesi di distanza, in Sicilia, in una drammatica successione di fatti che colpirono molto l’opinione pubblica, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino­­­­ furono uccisi dalla mafia.

Non meno clamoroso per le sue conseguenze fu l’arresto a Milano del socialista Mario Chiesa per opera di un altro magistrato, Antonio Di Pietro. Tale arresto determinò l’inizio dell’inchiesta “Mani Pulite” o “Tangentopoli” che tanta importanza avrebbe costituito nel futuro della vita politica italiana.

Invece l’anno in corso, il 1993, quello durante il quale si stava svolgendo la modesta vicenda di Marzia e del Cipriani sarà ricordato oltre che per un altro Pietro molto meno eroico, il Pacciani “Mostro di Firenze”, soprattutto per lo storico scioglimento del partito della Democrazia Cristiana che, insieme ad altri mescolamenti e rifacimenti, dette l’avvio alla cosidetta “seconda repubblica”.

Il primo novembre invece, il giorno di tutti i Santi, entrò in vigore il Trattato di Mastricht, pietra miliare della nascente Europa Unita.

 - Arrivò la fine di febbraio e con essa le esposizioni, prima quella di “Prato Expò” e poi quella di “Premiere Vision” a Parigi. A Parigi lo staff, qualificato ma abbastanza ridotto del lanificio Gualtieri si era sistemato in un albergo in zona Saint Michel Notre Dame, non lontano dalla stazione della RER. Da lì, ogni mattina potevano comodamente prendere il treno che portava diretto in meno di quaranta minuti al Parc des Exposition a Villepinte, senza rinunciare alla sera al fascino notturno della Ville Lumiere.

Una sera, la seconda, tornavano stanchissimi all’albergo dopo essere stati, tutti e cinque insieme, a cena a Saint Germain des Prés. Aurelio però era anche eccitato, forse per il consumo eccessivo di Vin Jaune del Giura, uno dei vini più buoni del mondo e aveva proposto, inascoltato da tutti, di fare un salto in discoteca. In taxi, durante il viaggio di ritorno si era messo accanto all’Ada e, fingendo di essere spinto dal terzo passeggero le stava molto addosso. Nell’altro taxi avevano preso posto gli altri due commerciali, quello per la Francia e quello che si occupava prevalentemente degli States.

– ... via Aurelio, non faccia lo stupido... stia fermo con quelle mani... dottore gli dica qualcosa... –

Il dottor Quartaroli stava allo scherzo e si guardò bene, visto anche che la donna dimostrava di prendere la cosa con una certa ilarità di dire alcunché. Il giovane Gualtieri si divertiva a sussurrare ogni tanto qualcosa all’orecchio di lei suscitandone a volte riprovazioni poco convinte, a volte risate.

I due, arrivati al Grand Hotel des Balcons salirono ancora ridendo e scherzando insieme allo stesso piano. Lui l’accompagnò alla camera e, appena Ada fu entrata lui mise il piede nell’atto vagamente scherzoso di impedirle la chiusura della porta. Non ci credeva molto, anzi non ci credeva affatto, sapeva della sua relazione con il Cipriani; era quasi un atto dovuto come maschio sano e normale che in quel momento avrebbe avuto l’attenuante di essere brillo.

– ... bisogna sempre provarci con le donne Aurelio... qualcuna ci sta... te prova sempre... – era l’insegnamento di un suo amico, un altro giovane imprenditore che frequentava al Bar Orgiu, noto per essere un “tombeur des fammes”.

Ada infatti ci stette. Ne aveva voglia; quella debolezza, anche solo con il pensiero, di Alessio nei riguardi della campionarista l’aveva sdegnata. Quella notte, pensò, l’avrebbe derubricata come momento di follia, come una piccola rivalsa: – ...come ha potuto quel cretino pensare a lei negli stessi termini con cui vuole stare con me?... non esiste. –

Invece non andò così. Anche Aurelio, nell’abbraccio voluttuoso con la florida Ada vi scorse la sua piccola vendetta. Anche lui aveva qualcosa da ridire nei confronti del ragioniere. Ci aveva rimuginato più volte: – ... ma icché crede di fare a snobbarmi... i misteri li tiene tutti per sé... gli è un imbecille... icché gli racconta il vecchio taccagno le son cose riservate... dice... –

E poi della bella pugliese, anche nei giorni e nelle notti successive, capì essere della stessa sua pasta. Gli piaceva e non solo per le fattezze; era ambiziosa, amava vestirsi bene e lo faceva sentire importante anche riguardo al lavoro; infatti Ada, anche davanti ai clienti, ignorando le perplessità del dottor Quartaroli, lo interpellò spesso per i prezzi e le consegne. La donna realizzò in quei giorni parigini che rimanevano ancora, che ad Alessio non ci pensava più. E poi, un po’ vergognandosene ma non troppo, fece il conto della serva: – Il vecchio quanto potrà campare ancora... è vecchio e malato... poi tocca ad Aurelio... –

Il Cipriani venne a sapere del nuovo sodalizio quasi subito, praticamente il giorno dopo. Al ritorno alla base dei commerciali fu molto sportivo, le augurò di essere felice, nascondendo come poteva l’orgoglio ferito. Naturalmente all’inizio si sentiva “scornato” in tutti i sensi ma, meravigliandosene lui stesso, cessò presto di avvertire la faccenda come vero dispiacere.

 - Successe che Il Prato, nell’aprile di quell’anno, si accingesse a giocare in trasferta proprio a Pistoia, contro gli odiati cugini. In classifica le due squadre, insieme al Castel di Sangro, si trovavano testa a testa. Non capitava da molti anni una situazione simile e la febbre tra i tifosi salì a mille.

Quella settimana fu visto confabulare con il Faggino, poi con lo stesso magazziniere e il Cipriani insieme; sembrava un’altra persona. L’argomento era quello, il giocatori, l’allenatore, la tattica; seppe che i due avevano già comprato il biglietto.

Nello, più che ottantenne, deboluccio e malazzato e l’anziano magazziniere erano praticamente invecchiati insieme in quella fabbrica, seppure in ruoli molto diversi e lontani. Il Faggi che pure gli era affezionato, non si sarebbe aspettato quell’uscita: – ... sentite ragazzi... e se volessi venire anch’io... mi ci accompagnate?... io non guido più la macchina. –

Ci aveva pensato a lungo prima di fare quella domanda. Si rendeva conto che fosse una cosa azzardata, ma ormai era deciso. Non avrebbe detto nulla al dottore che veniva due volte alla settimana a fare un controllo per il cuore, e neanche ad Aurelio. – ... fanculo il dottore... fanculo Aurelio e la sua puttana... – Lui non aveva molta simpatia per quella pugliese, anche se le riconosceva una certa professionalità.

Alessio rivendè i due biglietti di curva sud che aveva prenotato e ne prese tre in tribuna coperta. All’inizio lui e il Faggi avevano provato a fare delle obiezioni: – è una stagione ancora un po’ diaccina, Nello... che te la senti?... – ma in fondo, pur un po’ preoccupati, erano contenti anche loro.

L’esodo dei tifosi pratesi, rapportato alla categoria inferiore, era imponente. Le bandiere e gli striscioni bianco-azzurri sventolavano fitti nella curva riservata agli ospiti opportunamente lontana da quella degli ultras arancioni.

A Nello gli occhi, pur spenti in parte dall’età e dagli acciacchi brillavano dall’eccitazione. La giornata era freddina e asciutta e il vecchio imprenditore si era ben rinvoltato con sciarpa e cappello nel suo cappotto blu di cachemire. Non vedeva dal vivo una partita di calcio, e che partita, da molti anni.

La partita cominciò subito con grande accanimento da ambo le parti. A tratti pareva che la squadra arancione dominasse il gioco, ma la difesa laniera, costruita appositamente coriacea per l’occasione dal tecnico Bicchierai, reggeva l’urto con disinvoltura.

Nello seguiva con attenzione, si agitava, fremeva, si alzava in piedi. Il Faggi che lo seguiva con la coda dell’occhio a un certo punto lo vide fermo a sedere e con il viso sbiancato: – Nello, icche c’é, non ti senti bene?... – ... nulla, nulla... sto bene... ora mi passa. – Anche il ragioniere se ne accorse e aggrottò la fronte.

– ... signor Nello, prenda queste caramelle al miele... forse un calo di pressione... – Grazie Cipriani, ora mi passa... –

Nell’intervallo andarono tutti e tre al bar a prendere un bicchierino di Sambuca, il Gualtieri sembrava rinfrancato, poi riprese la partita nel modo di come si era interrotta; gli arancioni spesso in avanti, i bianco azzurri rispondendo con veloci contropiede. A otto minuti dalla fine il contropiede vincente, finalizzato con successo da un velocissimo Ceccaroni. Saltarono tutti e tre sulla sedia compreso il vecchio tifoso. Ma Nello non urlò come tutti, si limitò a coprirsi la faccia, come incredulo.

Pistoiese 0 - Prato 1. Gli ultimi minuti furono di una sofferenza atroce; si giocava davanti ad una sola porta, quella pratese. Alla fine l’urlo liberatorio; aveva vinto il Prato.

Sciamarono tutti lentamente verso l’esterno, alcuni eccitati e urlanti, altri dalle facce scure che procedevano abbacchiati come per un funerale, la felicità degli uni era a motivo dell’infelicità degli altri. Il Cipriani e il Faggino, non senza un po’ di apprensione, uno per parte tenevano a braccetto Nello il quale, visibilmente prostrato camminava piano e a fatica. L’arrivo alla macchina sembrò una liberazione.

A casa, il vecchio abitava solo in casa con una coppia di filippini, i due improvvidi accompagnatori già angustiati da una sorta di senso di colpa lo fecero mettere subito a letto. Il dottore che era stato subito chiamato, già molto scocciato per la visita in giorno di festa, tentennando la testa sbottò acido: – ... siete degli irresponsabili... portare il signor Nello a una partita di calcio... da denuncia... –

Dopo la visita aggiunse: – Gli manca il fiato, è in piena dispnea; è stato uno sforzo troppo grosso per il suo cuore indebolito, ormai da anni... è a rischio di edema polmonare acuto... andrebbe portato all’ospedale. – ... no all’ospedale no.. all’ospedale no... – intervenne in quel momento il vecchio imprenditore che stava ascoltando, con un filo di voce che sembrava venire dall’oltretomba. Il dottore lo guardò prima indispettito e poi rassegnato; sapeva che il Gualtieri fosse una testa dura, non avrebbe cambiato idea.

Allora chiamò d’urgenza l’unità medica con tutto il fabbisogno: medicine, bombola dell’ossigeno e il necessario per la flebo: – Naturalmente stanotte va guardato a vista, chiamate se c’è bisogno. – concluse prima di andarsene, non risparmiando un’ultima occhiata di costernazione mista a malcelato disprezzo in direzione dei due rei.

 - Si chiesero allora, non fidandosi del tutto dei due filippini, chi lo avrebbe assistito quella notte. – ... io ci posso stare qualche ora, ma qui ci vorrebbe una donna fidata, magari un’infermiera a pagamento – suggerì il Cipriani – ... no, ho un’idea migliore... – ribattè il Faggi.

Così fece venire la sua figliola la quale non era nuova a queste incombenze. Lei faceva le nottate spesso, bastava che qualcuno glielo chiedesse per piacere; e poi per il vecchio aveva simpatia. Nonostante la sua postura burbera, pensava che avesse un cuore d’oro, benchè malato; sapeva da fonte sicura delle donazioni e delle sue visite alle case-famiglia da lui sorrette. Inoltre, ed era fatto recente, le avevano riferito delle sue ostentate spallucce quando qualcuno, non certo disinteressato, gli aveva riportato con nonchalance l’errore delle etichette.

Il vecchio si era subito addormentato. Marzia e il Cipriani si erano accomodati ciascuno su una poltrona, uno a destra e l’altra a sinistra del letto.

– ... ma perché non vai a casa Alessio?... ci sto io qui... ci sono abituata.. e poi io non sono di quelle che dormono parecchio... vai... – mormorò Marzia. – ... ti do noia?... – fece lui. – ... ma che dici? – rispose sorridendo e ancor più sottovoce la donna. Aveva fatto anche il viso rosso, ma la stanza era quasi buia e non si vedeva. Seguì un lungo silenzio.

Alessio faceva finta di dormire, ma sottecchi la osservava. Quella sera gli sembrava che Marzia, la quale per puro caso il giorno avanti era stata dalla parrucchiera, fosse quasi bella; pensò che la sua fosse una bellezza diversa – ... sì, e poi lei è una donna vera. –

La campionarista dopo un quarto d’ora si alzò per cambiare la bottigliona della flebo e per farlo si chinò a prendere quella nuova da terra, mettendo in evidenza il suo bel fondo schiena fasciato da una gonna aderente. – ... è anche una femmina vera ... – aggiunse tra sé, tra il compiaciuto e il pensieroso.

Dopo un’ora, intanto Nello dormiva tranquillo, si alzò in silenzio e le si avvicinò all’orecchio: – vo via allora... grazie Marzia, sei un angelo... – Nel farlo perse per un attimo l’equilibrio, si appoggiò con una mano alla poltrona della donna, ma non potè comunque fare a meno di sfiorarne il volto con la bocca.

Rimasero entrambi sorpresi, fermi come statue per qualche istante a guardarsi da vicino; gli occhi si incrociarono, quelli di lei brillarono come per una lacrima repressa. – ... scusa, non volevo... – figurati... –

Sulla porta della camera, uscendo, Alessio si voltò trovando di nuovo gli occhi di lei che ancora brillavano, forse di speranza.

Dopo altre due serate spese insieme al capezzale di Nello, al giovedì, felici, dissero ai colleghi che si erano messi insieme. La novità mise di buon umore tutta la fabbrica.

Anche il vecchio Gualtieri che intanto si era ripreso un po’ ne fu contento, a modo suo, senza tanti discorsi; tuttavia non era ancora fuori pericolo, anzi, il dottore temeva il peggio.

Era a letto già da quattro giorni durante i quali mai gli capitò di recriminare per avere fatto quell’imprudenza che gli era tanto costata, quando ricevette una misteriosa visita. Si trattava del notaio Rindi, accompagnato da due persone sconosciute, come spifferò la donna di servizio filippina ad Aurelio che ogni tanto le faceva un regalo. Nessuno però ne sapeva il motivo.

Lo seppero tutti un mese dopo la morte del vecchio Gualtieri, al cui funerale, con sincero rincrescimento partecipò la fabbrica intera. Tutte le cure, benchè fossero state appropriate, non avevano potuto frenare l’edema polmonare, ma Nello era rimasto lucido fin quasi alla fine.

Aurelio ebbe un lungo colloquio con il suo babbo dal quale uscì con le lacrime agli occhi, ma all’Ada, molto contrariata, non disse nulla del contenuto del colloquio.

Il testamento, cambiato dal vecchio negli ultimi giorni di vita, decretava che la villa della Castellina diventasse come già previsto proprietà del figlio, ma che il lanificio con annessi e connessi, dovesse andare tutto quanto alla signorina Faggi Marzia.

Peraltro la suddetta signorina avrebbe avuto l’obbligo, a meno di gravi motivi nel futuro e certificati dal notaio, e qualora gli interessati fossero a ciò interessati per davvero, ad avvalersi delle prestazioni professionali del ragionier Cipriani, del tecnico Bogani, del dottor Quartaroli e di Aurelio Gualtieri, tutti quanti ben remunerati.

Inoltre un decimo dei profitti dell’esercizio imprenditoriale avrebbe dovuto andare alla fondazione curatrice gli interessi delle due case-famiglia a lui care.

Fu una grande sorpresa. Aurelio sapeva già tutto: – Conosco i tuoi limiti e anche tu li conosci, vero? Poiché ti voglio bene davvero, proprio per il tuo bene faremo in questo modo, così non ti mangerai la fabbrica, come avevi già cominciato a fare... – erano state queste le parole del suo babbo.

Alla lettura del testamento c’erano tutti e cinque i beneficiati, mentre Ada e il Faggi aspettavano in anticamera.

Marzia era incredula e comprensibilmente smarrita; mai avrebbe immaginato una cosa simile.

Il Faggino dalla gioia prese a fare il buffone per un bel po’, mentre Ada ebbe bisogno di un bicchierino perché stava svenendo.

L’A. C. Prato Calcio, quell’anno vinse il campionato e si aggiudicò la promozione in C1.

– fine –

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