IL GIUBBOTTO SBIADITO

2034  IL GIUBBOTTO SBIADITO – racconto breve –

 GIUBBOTTO 

 – ... sarò il sindaco di tutti... ringrazio chi mi ha votato... e anche chi non mi ha votato... è stata comunque una bella festa di democrazia che fa onore alla città... non era scontata questa partecipazione... grazie... grazie... –

– ... il pratese di Marco Huang non è perfetto... si sente un po’ troppo la calata fiorentina pe’ mi’ gusti... –

La battuta del Morganti era debolina ma fu accompagnata ugualmente dai sorrisi di chi gli era intorno. In piazza del Comune gremita di gente esultante, dall’alto del suo monumento anche il Datini, nell'atto di porgere il testamento ai poveri, i destinatari delle sue immense ricchezze, approvava.

– ... però è strano... ci son pochi cinesi... – ... eh già... un c’è il cocomero... – ... te tu se’ rimasto a i’tango... e poi oggi la unn’è la festa di Santa Maria... – Nel tripudio, non mancavano sprazzi di puro sarcasmo alla pratese.

Huang, avvocato quarantenne di successo, si era trasferito a Prato da Campi Bisenzio, dopo il suo matrimonio con la pratese Chiara Bardazzi, psicologa e impegnata in politica. Si erano conosciuti nell’ambito del “Progetto Interazione Comunità Italia Cina”.

La psicologa aveva favorito il suo inserimento nel partito e nell’amministrazione cittadina, ma poi l’avvocato per forza propria si era velocemente imposto per l’insolita statura culturale e per la sua propensione alla sintesi politica; da lì la scalata a candidato sindaco. Si era pensato che sarebbe stato il candidato ideale, potendo rappresentare più di settantamila cittadini di origine cinese senza che ciò, agli occhi della maggioranza “autoctona”, potesse costituire un difetto.

Appariva a tutti come preparato e pragmatico; talmente equanime come aveva già dimostrato in veste di assessore da non esitare, quando necessario, nel prendere duri provvedimenti nei confronti di quella parte di comunità asiatica ancora restìa all’osservanza delle leggi.

Un cittadino di origine cinese, oltretutto con quelle caratteristiche da primo della classe, era diventato sindaco in una città con più di trecentomila abitanti; la pera era matura da tempo ed era stata colta, ma era comunque una notizia da prima pagina. Vennero troupe televisive da ogni parte d’Europa e del mondo.

Un mondo, peraltro, già cambiato profondamente. Ai progressi tecnologici come l’uso ormai comune di droni e di auto leggere ad emissioni quasi zero, dei robot per l’automazione sostenibile, e l’uso della telemedicina per la salute virtuale, si erano accompagnati dolorosi avvenimenti e forti trasformazioni culturali e sociali.

Erano trascorsi quattordici anni da quando, nel 2020, era apparso il COVID 19. All’epoca si erano scomodati paragoni “orwelliani”, si era detto che l’umanità da allora non sarebbe stata mai più la stessa. Dopo due anni di sconvolgimenti sanitari ed economici la pandemia, ancora lungi dall’essere conclusa, aveva ceduto il primato dell’attenzione e della preoccupazione all’apparire imprevista della guerra russo-ucraina.

Una strana guerra che vedeva da una parte il difensore dell’Ortodossia sterminare interi villaggi in nome dei valori cristiani, dall’altra coloro che in nome della pace senza se e senza ma, auspicavano che un intero popolo si privasse a cuor leggero della propria libertà.

L’Europa assistè all’infinita guerra attonita e quasi impotente per tre anni, una guerra inimmaginabile nel cuore dell’Europa abituata ormai alla pace; una guerra che lasciò, ancora esistenti, forti tensioni e pericolosi focolai. La terza guerra mondiale allora evocata più volte, ritornava tuttora come un fantasma ad agitare i sonni dell’umanità.

In quel mese di maggio il caldo era già estivo; ormai la gente era rassegnata. Il riscaldamento globale troppo rapido, avendo già provocato siccità, trombe d’aria tropicali e pesanti effetti economici e sociali, non aveva dato il tempo alla specie umana di adattarsi. Purtroppo i grandi del mondo avevano chiacchierato molto sull’argomento, ma non si erano dati ancora una mossa sufficiente.

– ... e i problemi del pianeta?... i cambiamenti sembrano ormai diventati irreversibili... mamma mia... meglio non ci pensare... – Quasi isolandosi dal contesto festoso, a queste cose stava rimuginando Luca, pigiato come una sardina e appostato appena dietro a suo cognato, quel Enrico Morganti, il vero “deus ex machina” della vittoriosa campagna elettorale.

Per Luca Martini, un ottimista per natura, erano pensieri fastidiosi. Da giovane era stato tra quelli che attribuivano il cambiamento climatico a cause naturali; nel pensarla in quel modo si era sentito per molto tempo più tranquillo lui e la sua coscienza non dovendo lesinare la sua fettina di consumismo. Riguardo al virus non voleva sentir dire che l‘epidemia fosse stata deliberatamente provocata dai cinesi, ma neppure che fosse stata la stessa natura in qualche modo a ribellarsi producendo quell’entità aliena. Pacifista convinto, allo scoppiare della guerra in Ucraina era stato tra quelli convinti che la Russia avrebbe facilmente accettato un giusto piano di pace.

Preferiva credere sempre al meglio e alla buona fede della gente, anche contro ogni evidenza.

Luca peraltro era disegnatore tessile in una città che, dopo anni, anzi decenni, di frustrazioni e di decadenza aveva recuperato e incrementato molto la sua importanza nel suo tradizionale comparto tessile, quello dei tessuti ortogonali, rigenerati e non. Le grandi firme, non meno che le grandi e potenti catene di grandi magazzini, erano ritornati a Canossa.

Il mondo, per non farsi mancare nulla stava subendo da anni anche le pericolose tensioni tra Stati Uniti e Cina a causa delle pretese di quest’ultima su Taiwan. Da non molto era cessata un’altra guerra che per un miracolo non era diventata olocausto globale. In tale contesto i fornitori cinesi avevano perso molta affidabilità nelle consegne e l’antica città laniera era ritornata, almeno per i tessuti non troppo basici, padrona del campo.

C’erano stati nuovamente grossi investimenti nelle filature, nelle tessiture e in tutta la filiera tessile. Naturalmente le macchine, tutte super digitalizzate, avevano subito radicali trasformazioni e con loro la mentalità e il know-how del personale e dei tecnici.

Purtroppo, il progresso tecnologico non aveva impedito il ritorno alle pessime abitudini di un tempo. Lo sfrenato individualismo, croce e delizia da sempre dei pratesi, impediva qualsivoglia collaborazione producendo, in un clima di sconsiderata concorrenza la corsa al ribasso, a volte soltanto allo scopo becero di strappare il grosso ordine al lanificio accanto. La ristrettezza mentale anni 30.0 del secolo ventunesimo era uguale uguale a quella mostrata in passato dai relativi padri, nonni e bisnonni.

Al Martini tutto questo importava fino a un certo punto: lui era disegnatore di successo che si avvaleva di una tecnologia avveniristica sviluppata da pochi anni da un team tutto pratese fatto di geniali ingegneri informatici, molti dei quali di origine cinese e indiana.

Dei vecchi “fazzoletti” necessari per incrociare filati e colori, per produrre i quali occorreva tanto tempo e denaro, era rimasto solo il ricordo. Adesso si facevano dei provini in “3D” con un raffinato programma, erede dei vecchi e quasi rudimentali CAD, che permetteva non solo di realizzare velocemente le idee, i colori e gli aspetti con un’immagine digitale, bensì con un corpo solido dalle straordinarie caratteristiche di mano, di superfice, di peso, in tutto identiche al vero tessuto richiesto.

Le varianti ottenute in quel modo e poi scelte potevano essere riprodotte fedelmente in stoffa tessuta a telaio con enormi risparmi.

– Sembra una stregoneria... – sbottò ridendo il babbo di Luca quando vide per la prima volta quel prodigioso risultato al limite del credibile. – ... lo potesse vedere il vecchio Brunetto... chissà icché direbbe... – aveva aggiunto toccando sbigottito il campione con entrambe le mani, ripetendo un gesto sapiente fatto mille volte in passato. Brunetto era stato il suo primo titolare, presso il quale era cresciuto professionalmente negli anni ’70 anche lui come tecnico.

– Ma la sai una cosa Luca... mi dispiace dirtelo... ma io un mi scambierei punto con te... allora c’era un clima diverso, e non parlo del caldo... c’era tanto spazio davanti... – ... lo so babbo, lo so... me ne rendo conto... la tua generazione ha guardato al futuro con fiducia... credeva nel progresso... – forse anche troppa fiducia... con il senno di poi... – aggiungeva di solito Alberto a quel punto, quasi sempre sulle stesse note.

Voleva molto bene al suo vecchio, ma da quei discorsi la sua lineare visione delle cose ne usciva quasi sempre un po’ ammaccata. Invece davanti al computer e al suo mirabolante programma Luca riacquistava il suo ottimismo e si sentiva un re; si becchettassero pure gli imprenditori pratesi, per lui era un vero godimento creare disegni e realizzare nuove idee. Luca Martini che univa cultura tessile, raffinato buon gusto e preparazione tecnologica, lavorava come “free lance” ed era richiestissimo.

Passava per sgobbone, ed essendo single, all’occorrenza non aveva né sabati né domeniche: – Gli è bravo, ma gli è anche un bischero... mah... e dice che a lavorare lui si diverte!... – I suoi colleghi lo accusavano di scorrettezza perché consegnava dieci idee realizzate a chi gliene chiedeva cinque.

Non molti invece sapevano di certe passioni vintage dell’ingegnere informatico Martini, precedentemente diplomato presso il glorioso istituto “Buzzi”.

Ragazzo alla fine degli anni 80 del secolo precedente, nel tempo libero o negli interstizi ricavati tra la realizzazione di un tessuto in 3D Jacquard di gusto cachemire e l’impostazione di un altro lavoro, amava rifugiarsi nella musica di quegli anni, vederne i vecchi films, collezionare e usare oggetti di quell’epoca.

Nella grande casa alla “Pietà” dove viveva da solo con una anziana governante tuttofare, aveva messo in piedi un piccolo museo in una vasta sala. Era il suo “buen retiro” domestico.

Li si rilassava leggendo e a volte appisolandosi sulla sua poltrona “Lounge Chair & Ottoman” circondato da poster, oggetti mitici come il suo walkman Sony, le cassette in VHS dei films preferiti e ordinatamente disposti, il cubo di Rubrick, le racchette da ping-pong con la plastica a puntini e il relativo tavolo di legno con la retìna verde disposto in mezzo alla sala.

Ecco, a ping-pong era stato un campione e ancora se la cavava e se ne vantava: – ... oh... da giovane ho vinto du’ volte il campionato CSI... quello organizzato dai frati di San Domenico... –

Ai due lati di una luminosa finestra, come trofei, aveva piazzato un vero flipper d’epoca ancora funzionante e la sua antica, ma ancora lustra Vespa 50, coperta di vecchi adesivi.

Ma soprattutto ascoltava musica: Michael Jackson, Prince, i Rem e gli Spandau Ballet; canzoni insuperabili come “Beat it” e “ Thriller” del re del pop, “Moonlight shadow”, “Eye in the sky”.

Ogni tanto, specialmente d’inverno, lo vedevano passeggiare pacifico con qualche amico in via Pugliesi o in via Garibaldi con il suo sopravvissuto e un po’ stinto giubbotto Moncler. Quand’era freddo sotto quell’immancabile giubbotto portava il maglione navy Paul & Shark; mentre i jeans erano sempre quelli di Enrico Coveri appena sopra le caviglie a mostrare calzini decorati a rombi simil-Burlington: – ... era un grande Enrico... – Indossare Coveri era un’altra delle sue infatuazioni; ricordava spesso le sue famose stampe multicolorate ormai entrate a buon diritto nella storia del fashion e che ancora continuavano ad ispirare il suo lavoro.

D’estate invece godeva a sfoggiare i suoi vecchi occhiali Ray-Ban, indossava la sua cintura di pelle El Charro e le scarpe Vans senza lacci, certamente non quelle originali. Insomma, in generale gli anni ’80 erano la sua manìa.

Fin da ragazzo il suo babbo lo aveva inserito alla “Misericordia” quando l’antica arciconfraternita era ancora in via del Seminario. Tuttora, professionista affermato, una volta alla settimana ma non sempre, come fosse una buona abitudine da preservare, prestava il suo “turno di guardia”.

Il Martini era naturalmente portato ad aver fiducia negli altri simili a condizione che non fossero troppo invadenti. Egli, sebbene non fosse un animale tra i più sociali, teneva ad alcune amicizie maturate in quel contesto.

Tuttavia il suo migliore amico era il marito di sua sorella, quell’Enrico Morganti, lo spin-doctor del sindaco eletto. Ne condivideva vagamente gli ideali politici e sociali, informandosi di ciò che succedeva in quel mondo, ma avendo cura di non farsene travolgere più di tanto.

Dopo una cocente separazione, seguita a una lunga relazione matrimoniale con una bella donna, e di cui non amava parlare, aveva accuratamente evitato altri coinvolgimenti emotivi; l’ingegnere creativo era ormai contento così, protetto nel proprio guscio.

Ed era contento anche per Marco Huang; lo aveva conosciuto attraverso Enrico: “ ... è bravo se lo merita... ” ma il pensiero in quel rumoroso clima di festa gli correva al reparto di terapia intensiva dell’ospedale Santo Stefano. Il suo babbo vi era ricoverato in stretto isolamento.

Non si dava pace; non potendo visitarlo era davvero angustiato. Riusciva a malapena a dirgli qualcosa con il cellulare quando l’infermiere si prestava ad aiutare l’anziano Martini.

– ... babbo, Marco ce l’ha fatta.. e alla grande... ma te... come stai?... – un’ora prima si era messo in contatto per pochi istanti. Alberto Martini, classe 1947, attraverso il piccolo display si era sforzato di sorridere; anche lui, prima di ammalarsi, aveva seguito la campagna elettorale, ma gli venne solo una smorfia, senza poter rispondere.

Era uno dei primi casi rilevati a Prato; aveva contratto il COVID Εγώ 23, il nuovo spauracchio. Questo virus, secondo le prime inquietanti ricerche poteva diffondersi molto velocemente, ma la cosa più incredibile scaturita in modo evidente dalle stesse risultanze era il fatto che avrebbe contaminato e ucciso soltanto persone che avessero già compiuto i 77 anni. Sembrava che le persone di età inferiore a quegli anni potessero esserne portatori ma rimanerne completamente immuni perfino da leggeri sintomi; il che aggravava moltissimo il problema.

Una volta che tali dati furono diffusi fu il panico. Coloro che si trovavano sulla soglia di quel compleanno erano atterriti. Come animali in procinto di essere condotti al macello contavano le ore e i giorni. Molti impazzivano nell’attesa mentre ad altri non reggeva il cuore per la grande tensione.

Era un discrimine nettissimo, un fatto aberrante di cui gli scienziati non stavano capendo la ratio, ammesso che il comportamento di un virus ne avesse alcuna. Nonostante gli incontrovertibili dati anagrafici rilevati, essi rimanevano increduli.

– Enrico... icché tu ne pensi... è come la strage degli innocenti... solo che qui invece dei bambini ad essere sterminati sono i vecchi allo scoccare dell’ora fatale ... – Anche il cognato seduto a tavola davanti a lui era interdetto.

– ... che ci sia davvero un Erode... – borbottò ancora il tecnico con espressione facciale di disgusto, riferendosi a certi discorsi di sorde macchinazioni, questa volta, a quanto pareva di provenienza russa.

Luca spesso era a cena dalla sorella, valente medico di Careggi. Quella sera lei era particolarmente malinconica anche per la morte del babbo avvenuta esattamente il mese precedente.

Babbo Alberto che viveva con lei insieme alla badante ucraina era stato il loro forte punto di riferimento. Il genero lo chiamava ancora “il vecchio leone” e lo aveva da sempre considerato un esempio, un esempio di impegno civile; da lui aveva contratto la febbre della politica, quella con la P maiuscola.

Luca invece, del babbo aveva fatto tesoro soprattutto dei consigli e della sua esperienza di tecnico disegnatore, anche lui uno dei più affermati, ma negli anni ’80 e ’90:

– Chissà icchè la s’immaginava la gente, e nella gente mi ci metto anch’io... s’era convinti tutti che un giorno si sarebbe andati in giro vestiti in quel modo... – cioè... in che modo babbo?... –

Era stata una conversazione di pochi mesi prima, a Luca pareva ieri e se la ricordava bene: – ... con i tessuti di “Star Trek”... tutti in rosso, blu e giallo in tinta unita... – e qui aveva fatto una risata.

– l’ha’ ma’ vista la serie di “Star Trek Luca?... ecco... a parte gli scherzi... sembrava che un giorno ci dovessimo vestire tutti di grafene, di kevlar, di filo di carbonio, di elastan allo stato puro, o di qualche altra diavoleria dalle prestazioni avveniristiche e invece... invece, e siamo nel 2034... in giro per Prato icché si vede?... jeans, misti cotone, misti lana, i soliti sintettici elasticizzati... tutto come una volta... o quasi... 

Qui Luca cessò di riportare le parole del vecchio leone, sorridendo: – ... da come ne parlava pareva che un giorno sì e un giorno no fosse a passeggio per il centro... –

Invece da qualche anno il vecchio era relegato su una sedia a rotelle; guardava la televisione ed era comunque un attento osservatore: – ... è vero babbo, i tessuti son quelli, ma il modo di produrli e di progettarli ha fatto passi da gigante... – gli aveva poi risposto. I familiari ancora attenti alle parole e ai ricordi di Luca furono distolti dalla televisione accesa; un servizio dava gli ultimi dati sul COVID; ed erano tremendi.

Trascorso un mese dalla prima ondata iniziale, i peggiori timori si erano avverati. Erano già morte migliaia di persone a Prato e tantissime nel mondo, tutte con quella caratteristica d’età.

Il decorso si rivelava velocissimo, il decesso sicuro al novantanove per cento e il mistero si infittiva. Molti di coloro che vivevano da soli nella propria casa morivano alla svelta e da soli in assoluta mancanza di cure; la quasi totalità moriva nelle case di riposo diventate case di morte, altri ancora decedevano assistiti, ma molto frettolosamente in isolamento ospedaliero.

Dopo tre mesi diventò davvero un autentico sterminio; l’umanità si stava avviando alla perdita completa di babbi e nonni ultrasettantasettenni, alla scomparsa di coloro che in gran parte rappresentavano la memoria collettiva di un’altra Italia, quella del dopoguerra .

Qualcuno si esercitò nel trovare esoteriche spiegazioni nella simbologia dei numeri. Si disse che il 77 rappresentasse la libertà personale di perseguire qualsiasi voglia o capriccio, mentre il numero 100 ottenuto dalla somma del 23 con il 77, era portatore di bene, in quanto quadrato di 10 che è numero perfetto. Non si capiva bene però il legame tra le due simbologie.

Alcune sette protestanti, non meno che alcuni movimenti cattolici ultraconservatori parlarono di “punizione divina”, una specie di “redde rationem”.

L’umanità era vista come la grande malata: il sesso scelto ormai comunemente in base alla percezione del momento, l’omosessualità dilagante collegata spesso alla pedofilia, l’educazione diffusa a non frenare le proprie voglie da considerare legittime e sacre qualunque esse fossero, il disprezzo per la vita nascente e morente; il tutto che scaturiva dall’individualismo esasperato, dalla ricerca del piacere, dalla corsa al potere e al profitto, costasse quel che costasse. Si diceva che queste fossero le cause di quella malattia e che i conti adesso fossero venuti al pettine.

In proposito alcuni dubbi che incrinavano l’assoluta certezza nella Divina Misericordia, l’insegnamento liberante degli ultimi pontificati, sfiorarono il settantenne successore di Pietro. Egli si collegò con tutto il mondo, come a suo tempo aveva fatto il papa argentino, quello venuto dall’altro mondo. Nella sua preghiera accorata sembrò quasi rivolgersi non più al Dio dell’Amore, ma piuttosto al Dio dell’Antico Testamento, ad un Dio irato e offeso, al Dio degli Eserciti.

Tutto concorreva ad alimentare dubbi apocalittici. Sembrava infatti che, allo stadio terminale, all’ormai ben noto e critico stato polmonare si accompagnasse una specie di inconsueta perdita di memoria che non era vera demenza; non era la classica perdita di memoria breve.

I malati, pur intubati e tra tanta sofferenza, in qualche modo, come presi da un’ingiustificata e febbricitante smania si sforzavano di comunicare. E ricordavano di tutto come non mai, fatti lontani o recentissimi ma in maniera particolareggiata, purchè quel tutto fosse completamente all’esterno di loro stessi. A richiesta, non sapevano dire la loro identità; una vera perdita del proprio io. Forse per questo motivo, il ricercatore e medico che l’aveva isolato per primo, aveva poi chiamato quel virus: “Εγώ” cioè “io”

Attraverso i media l’umanità attonita poteva assistere all’agonia senza speranza di tanti vecchi arrivati come folla dolente e ammassati in fitte corsie. Essi, persi nel vuoto dell’autocoscienza di sé desideravano comunicare tanti inutili ricordi. Come tanti Giobbe gemevano senza che nessuno potesse venire ad ascoltarli.

Ad una prima ondata di compassione subentrò il disgusto verso il corpo deteriorato dei vecchi scheletrici imprigionati sui loro letti come tanti Cristo in croce. Ci furono proteste; si disse che la televisione non avrebbe dovuto mostrare quelle immagini ai bambini.

L’aggressione del nuovo mostro invisibile si dimostrava in proporzione dieci volte più potente di quella subita dal covid 19 , quattordici anni prima. Adesso, a differenza di quella storica ondata, insieme ai vecchi stava morendo il senso d’umanità, quell’afflato solidale che sembrava capace, come si diceva una volta, di superare tutti insieme difficoltà e differenze.

Come sembravano lontani i cori dai terrazzi, gli striscioni arcobaleno per le strade, i disegni dei bambini, tutti inneggianti alla speranza: – ... andrà tutto bene... –

Dieci anni prima, nel 2024, il parlamento italiano aveva prodotto dopo anni di battaglie ideologiche la definitiva legge sull’Eutanasia. Gli interventi medici per la somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente che ne avesse fatto lucida richiesta erano consentiti per legge. Contestualmente la legge riguardante il suicidio assistito che godeva di ampia apologia culturale fu rivista consentendolo a chiunque ne facesse richiesta senza necessità di alcuna motivazione.

In questo clima giuridico e culturale ormai consolidato da anni, era scoppiata l’emergenza sanitaria drammatica del COVID Εγώ 23 che stava mettendo a dura prova l’intero paese.

Tale emergenza spinse inopinatamente la magistratura, dovendosi esprimere su un contenzioso molto dubbio, a considerare legittima l’eutanasia anche nei confronti di soggetti non consapevoli e non richiedenti la propria morte, purchè ridotti in stato pietoso; e non solo i soggetti tenuti in vita artificialmente da polmoni d’acciaio o per nutrizione e idratazione artificiale.

Alcune associazioni che avevano auspicato una simile soluzione in nome della modernità esultarono.

Fu come il crollo di una diga; un’infinità di interventi eutanasici nei confronti di coloro che “ispiravano pietà” o, come dicevano gli oppositori, veri e propri assassinii, in breve tempo furono messi in atto. Gli operatori sanitari percepivano quasi di avere quasi un nuovo potere, un potere malsano che dava alla testa, quello di dare la vita oppure la morte a propria discrezione, e non si preoccupavano più di tanto delle residue formalità.

Il valore di mercato della sofferenza e della morte, era diventato maggiore di quello del mercato del sesso che era già rilevantissimo. Una eutanasia veniva fatturata in media 5000 euro, quando la dose letale del pentobarbital sodico costava appena venti euro e una cremazione economica era alla portata di tutte le tasche.

Ci furono alcune non affollate dimostrazioni spontanee di protesta e ce ne furono anche a Prato.

Il disegnatore sessantunenne, trascurando anche il poco lavoro che gli stava arrivando, infatti tutta l’economia era rallentata, partecipò d’istinto a tali dimostrazioni pacifiche.

Aveva sempre cercato, forse per amore del quieto vivere di non essere troppo coinvolto; gli piaceva partecipare ma senza esagerare. Stava invece scattando in lui una molla che non aveva creduto fino a quel momento di possedere. Qualcosa aveva manomesso il suo naturale freno automatico, quello che gli aveva sempre impedito di non superare un certo limite, un meccanismo interiore che gli aveva consentito di non eccedere troppo nelle passioni, a meno che non fossero il lavoro e la musica anni ’80. Così si offrì volontario, inizialmente per poche ore al giorno ma poi sempre di più, per lenire i disagi dei malati terminali nelle RSA e nei nosocomi.

Un giorno di fine giugno, uno di quei giorni insopportabili purtroppo da anni molto frequenti, in cui alla gente veniva quasi voglia, avesse potuto, di togliersi uno strato di pelle a causa del caldo opprimente, si avvicinò ad una barella: un uomo di colore molto anziano e malmesso dagli abiti cenciosi e puzzolenti. Aveva il viso emaciato, le mani intrecciate sul petto, respirava a malapena, sembrava quasi morto. Luca credette di sentire un leggero rantolo che via via, facendosi più vicino e accostando un orecchio, diventava più comprensibile: – ... ehi capo... dai questo... al mio amico Gerardo... tanto... per me è finita... capito?... sotto le logge... –

La mano tremante sbucata fuori dal lenzuolo conteneva un fagottino legato da uno spago.

Non lontano un’infermiera e un barelliere erano sprofondati in una poltrona, gli occhi inchiodati sullo schermo del cellulare. Erano lì ad aspettare l’ultimo di quei rantoli. Il medico era in ufficio, pronto a documentarne il decesso. Fuori aspettava la macchina per trasportare velocemente quel povero corpo alla sala mortuaria.

Luca e il suo amico, provvisti di pettorina gialla e blu erano già da un po’ nel mirino del barelliere, un uomo sbracciato, grosso e peloso. Non fecero neppure a tempo a dire qualcosa al vecchio morente dalla pelle ormai come incartapecorita.

– Voi non potete star qui... è un parente? ... è poi l’orario non va bene... – intimò l’uomo grosso, tralasciando per un attimo il suo dispositivo ultima versione. Vedendo allora che i due, dopo un primo attimo di esitazione si erano nuovamente curvati sulla misera lettiga, il barelliere si alzò con fare insolente e dette un leggero spintone da dietro al compagno di Luca.

Il tecnico reagì e lo fece come non aveva mai fatto in vita sua meravigliando anche se stesso; si mise davanti a quell’uomo ben più alto di lui con i pugni serrati e lo guardò diritto negli occhi: – ... come ti permetti? ... – Poi gli sventolò il permesso scritto procurato per loro personalmente dal sindaco Marco Huang: – siamo autorizzati... non vedi che questo anziano sta molto male?... chiama la tua infermiera piuttosto... –

Si rivolsero di nuovo verso l’uomo morente. Da giovane doveva essere stato grande e grosso. Luca, curvo sulla barella, dopo aver preso il minuscolo pacchettino, gli carezzò lievemente il viso e gli strinse la mano ossuta: – stai tranquillo, ho capito... è per Gerardo... ma come ti chiami?... –

Il nero non rispose ma ebbe come un tremore di commozione e i suoi occhi spenti nel vuoto si inumidirono. Come liberato dalla sua ultima preoccupazione dopo pochi istanti fece un lungo sospiro. Era l’ultimo sospiro.

Il senzatetto di colore, al termine di una vita grama, forse priva di affetti, sembrò morire con un sorriso, come sollevato. Proprio alla fine aveva vissuto un gesto di affetto.

Uscirono guardati ancora in modo storto dal barelliere. Non era una novità; i volontari andavano spesso incontro a queste discussioni. C’era un netto ostracismo da parte del personale paramedico nei loro confronti.

Quei duelli nelle corsie e all’interno delle RSA continuarono anche nei giorni seguenti; agli occhi dei responsabili essi costituivano un noioso rallentamento all’attività di nosocomi che pareva ormai diventata impresa di smaltimento di rifiuti umani. Era una sorda sfida quotidiana tra i volontari e il personale paramedico e medico.

Luca e i suoi compagni, prendendo sempre più a cuore la sorte di quei disgraziati, pretesero allora che la direzione della “Misericordia” sparasse a pagamento un articolo coraggioso sulla cronaca di Prato, ma alcuni maggiorenti della confraternita, ai quali stava già dando fastidio l’inattesa l’iperattività dei volontari si opposero adducendo non precisati motivi di “opportunità”.

Fu il Martini allora, il pacifico cultore degli anni ’80, l’ottimista per natura o per convenienza, quello che non si esponeva mai, a volerlo pubblicare interamente e a spese sue: – L’ospedale non accompagna il malato verso una morte dignitosa!... i parametri stabiliti dalla legge eutanasica sono disattesi!... l’ospedale non cura... non è l’eivò 23 che uccide... è l’ospedale che uccide... –

Seguiva una riflessione più ampia e circostanziata: – ...la vera ragione dell’eutanasia passiva non è la pietà per i malati... è la mercificazione della morte... è la non sopportazione di vite inguardabili e ormai inutili... –

Poi l’accusa più infamante: – Nessuno vuole più sapere che esistono... li tengono in posti speciali, fuori dalla vista degli altri esseri umani... –

Quell’articolo ebbe vasta risonanza al di fuori dei confini pratesi e a Luca fu riservata un’intervista in terza pagina nazionale. Parlò degli abusi ripetuti: – sta vincendo la “cultura dello scarto”... la nostra è una civiltà cinica che sta morendo... e se ancora non muore di siccità o di guerra, muore di stanchezza, di voglia di vivere... muore di disgusto di sé... di questo passo ci aspetta il baratro... –

La sorella e il cognato non lo riconoscevano ed erano fieri di lui. Lo avevano sempre visto come un timido dai buoni principi, mentre ora lo vedevano capace, quegli stessi principi, di sbatterli sul muso e sulla coscienza dell’opinione pubblica. Enrico, di cui tutti sapevano lo stretto rapporto con il Martini, si meritò varie e acide prese di distanza da parte dei compagni di partito. A Prato e dappertutto le lobbies del “caro estinto” erano potentissime, anche all’interno della stessa “Misericordia” e la faccenda, entrata nel mirino della Magistratura, dopo poche settimane fu insabbiata.

Dappertutto continuavano quelle morti accellerate, sia quelle legali che quelle illegali ma sulle quali ormai tutti chiudevano non solo un occhio, ma tutte e due. Era urgente fare posto e non impegnare troppo le strutture ospedaliere limitandone i costi.

Anche le cerimonie funebri comprese quelle cattoliche erano abbreviate senza ritegno. L’innovazione tecnica della cremazione permetteva di accellerare le procedure per sistemare alla svelta le cose.

A Prato come dappertutto, la dispersione delle ceneri era effettuata in modo silente da un componente della famiglia, oppure da un funzionario delle pompe funebri nel modo più pratico, cioè nel Bisenzio. Tuttavia le associazioni dei pescatori insorsero; si opposero decisamente a quella nuova abitudine a causa, dicevano, dell’apporto inquinante delle umane ceneri. La vita delle “alborelle” e delle “tinche” era in serio pericolo.

Ad un certo punto, come dal nulla, sorsero alcuni gruppi di intervento clandestino che si proponevano di “liberare”, o meglio di rapire in segretezza alcuni pazienti terminali dagli ospedali, per farli morire ma a volte anche vivere, nelle proprie case. Agivano mimetizzati con cappellini bianchi, occhiali e mascherine chirurgiche per non farsi riconoscere. Non era difficilissimo riuscire nell’impresa a causa del caos regnante tra le corsie, specialmente di notte. Dopo vari velocissimi blitz riusciti, la strana faccenda rimbalzò su i media, anche nazionali.

Nei talk-show, la stragrande maggioranza degli esperti asserivano che la legge dello stato dovesse essere rispettata anche con la forza. In un crescendo di discussioni appassionate, un professore del Cicognini, un tal professor Bugiani, non credente ma contrario all’eutanasia, arrivò a citare l’Antigone. Nella tragedia di Sofocle la giovane ragazza decise di seppellire il fratello e quindi di disobbedire al re e di affrontare la morte, sostenendo che da sempre esistessero leggi non scritte più importanti delle leggi fatte dall'uomo. Successe il finimondo. Per più sere, sul canale “La 7” non si parlò d’altro.

Da qualche parte si cominciò a mormorare del Martini, il noto creatore di stoffe in 3D che la gente vedeva spesso, d’inverno camminare tranquillo, in jeans Coveri e giubbotto sbiadito Moncler. Qualcuno disse che poteva essere proprio lui, il pacifico disegnatore di moda, fino a quel giorno mai stato accreditato di qualcosa somigliante a un atto sovversivo, il teorico nonché capo di quelle clamorose iniziative; ma nessuno ne aveva prove certe. Fu guardato con sospetto dalle persone benpensanti e componenti di influenti fondazioni umanitarie. Nel dubbio, alcuni suoi committenti cessarono di commissionargli i consueti studi.

Improvvisamente, in maniera altrettanto misteriosa di come tutto era partito, tutto cessò. Dal giorno sette di settembre, in tutto il mondo non si registrarono più contagi. Dappertutto si levò un globale e gigantesco sospiro di sollievo.

Gli scienziati balbettarono, erano disorientati; tutto quanto apparve incomprensibile. Non c’erano plausibili spiegazioni. Anche le sette millenariste e i cattolici ultraconservatori non avevano parole. Il papa, in collegamento “urbi et orbi” ringraziò il Signore, chiedendo pubblicamente perdono della sua mancanza di fede, avendo dubitato della sua immensa misericordia.

Tutto tornava alla normalità, un’inquietante normalità. I pericolosi focolai del Donbass continuavano a preoccupare come prima e i grandi del mondo continuavano a tentennare nel prendere drastici provvedimenti necessari per salvare il pianeta.

Ognuno ricominciò a guardare al proprio orticello. Il presidente dell’INPS, convocò il consiglio d’amministrazione per fare il punto e per conteggiare il risparmio che, provvidenzialmente, sarebbe piovuto sull’ente di stato. Il ministro dell’economia, preso atto del tesoretto non previsto, propose un aumento delle pensioni minime.

Quella sentenza che aveva fatto giurisprudenza, entrò a far parte, come comma aggiuntivo, nella legge già onnicomprensiva dell’eutanasia. Nessuno si curò delle proteste dei cattolici o di certi laici noti per la loro onestà intellettuale.

Le conseguenze peggiori furono per le imprese funebri, i fornitori di urne funerarie, i forni crematori, le cooperative improvvisate di servizi medici e paramedici. Tutti si liberarono del personale precipitosamente assunto per venire incontro alle richieste. In segno di protesta fu proclamato un giorno di sciopero.

Anche la vita pubblica tornava alla normalità; il governo in carica accusato di inefficenza si dimise e furono indette nuove elezioni. L’economia ignorando la crisi di governo riprese in pieno e gli ordini di stoffe fioccarono come e più di prima. Luca era nuovamente pieno di lavoro e nessuno si ricordava degli assurdi sospetti che lo avevano riguardato.

Tuttavia lui non era contento; aveva guardato in viso e toccata con mano la sofferenza, era entrato in contatto vivo con gli ultimi della società e constatato quanto fosse facile essere ingiusti nei loro confronti. La Confraternita della Misericordia, finita l’emergenza, aveva sciolto le squadre di intervento sanitario, ma per Luca quell’esperienza, avendolo segnato profondamente, non era finita lì. Quel virus Εγώ o “eivò” come veniva pronunciata quella parola, aveva prodotto nei contagiati una vera e propria perdita del proprio io, ma nel Martini aveva sortito l’effetto contrario.

Quell’esperienza gli aveva fatto scoprire non solo che esiste in ogni essere un’identità diversa ognuno dall’altro ma ugualmente dignitosa e meritevole di rispetto, ma che lui stesso fosse stato capace di definire la sua di identità come prima non era mai riuscito a fare; proprio come una pietra grezza che diventi preziosa una volta che sia lavorata e smussata.

Da allora, ogni tanto, qualcuno riferiva di aver visto passare il suo giubbotto sbiadito Moncler in posti diversi dal solito. Provvisti di thé caldo, di panini e di qualche dolce lui e altri compagni, a due, tre per volta, usavano aggirarsi in luoghi poco frequentati dove trovavano rifugio i senza tetto; luoghi dove non offendevano la vista e l’olfatto dei benpensanti 2034.0.

Il mistero del significato del 77 tuttavia rimase insoluto e nessuno, anche anni dopo, ebbe modo di darne una convincente spiegazione.

fine

IL MEDIATORE

IL MEDIATORE – racconto breve –

Premessa dell’autore:

È un racconto nel quale, in primo luogo, sono importanti i profumi di un passato ancora riposto nei cassetti della memoria e del rimpianto di molti pratesi come il sottoscritto.

La vicenda ambientata negli anni 70, disegnata nelle intenzioni come un bassorilievo grazie a certi tocchi di colore anche ironici, non vuole dimostrare nulla riguardo al tema dell’omosessualità, che è solo una delle caratteristiche dei due protagonisti i quali, oltre a subire sofferenza per certi gesti di discriminazione presentano, come tutti, una miscela di umani sentimenti. Sentimenti buoni come la fedeltà e il rispetto, e tratti più negativi come la propensione all’inganno.

Il tema dell’omosessualità oggigiorno è argomento sensibile nell’ambito dei diritti civili e può suscitare prese di posizione contrastanti, alcune di maggior buon senso, altre più intolleranti da ambo i lati del tavolo del dibattito. Ben venga, se sentito come utile, un confronto anche nella comunità parrocchiale.

 

 – ... noi mediatori siamo come e’ topi... la nave che affonda siamo gli ultimi a abbandonarla... sicchè sono andato a vedere a che punto gli è il naufragio... io m’ero basato anche su di loro... voglio di’ la verità... e mi fidavo... –

Il Bonacchi era dispiaciuto; si riferiva alla ditta Bellandi, il vecchio magazzino di cernita e sfilacciatura di stracci dove lui stesso si era fatto le ossa da ragazzo.

– ha’ visto?... eppure loro son nati cenciaioli... bisogna esser nati cenciaioli, bisogna essere stati operai a guanciale, avere agognato un magazzino per tanti anni per capire icché po’ l’essere i’ dispiacere... finiti ne’ fango, peggio che morire... –

Poi si rivolse, un po’ a sproposito a Duccio che non era fornitore, ma il suo maggior cliente quasi esclusivo: – ... ma con te... unn’ho di queste paure... tu se’ forte.... –

Sapeva esser untuoso ma con misura. Duccio era il maggiore di Brunetto Baroncelli, fondatore dell’omonimo lanificio, tra i più lanciati e fiorenti di Prato e del quale aveva ormai preso le redini. Quando Sergio Bonacchi ne aveva voglia, faceva leva sulla sua vanità facendolo gongolare: – senza uno che abbia l’idee chiare come te, una ditta la un pole andare avanti ... –

Il mediatore camminava eretto con le braccia lungo i fianchi, facendo ondeggiare la testa da una parte e dall’altra. Aveva una bella testa rotonda, il busto lungo e massiccio su un paio di gambe altrettanto lunghe. Ogni tanto si passava la mano a scompigliare i capelli a caschetto alla Beatles che non gli si addicevano ma di cui andava fiero, e pareva che schizzasse spilli dagli occhi, piccoli e luccicanti.

– ... eh sì... – sospirò Duccio - ... però unn’è facile... e ci vole gente fidata ... – ... se ora la vendita della flanella l’è un po’ ferma, alla prima mossa, tu lo sai te come fare a levare i’vin da’ fiaschi... – replicò il lungagnone.

– ... intanto da’ retta a me... lo stame gli è oro... fai un po’ di scorta... ma no tanti colori... i’ nocetta, il rosso, il blu... i’ nero no, quello si tinge da i’ rossino... – almanaccò ancora.

Erano in magazzino delle materie prime e, a parte le grosse balle di lana nuova australiana, per la quale ci pensava il tecnico Franceschini a fare gli acquisti, tutto il resto cioè il novanta per cento del fabbisogno, passava attraverso il Bonacchi in tandem con Pio, il magazziniere feltrinista. Schierati lungo il muro, tantissimi erano i colli pronti di lana “meccanica” e quelli dei “rinforzi”, cioè i fiocchi di nylon e di poliestere.

Si soffermò a gambe aperte dinanzi a un collo aperto di stame scavandovi a forza di braccia; quel che toglieva lo spargeva al suolo scotendo con delicatezza qualcuno di que’ ciuffi, e mostrandoglieli:

– ... guarda che roba, tutta fibra lunga... sfilacciata come si deve...– diceva; poi passava gli altri ciuffi di lana di color ruggine aranciato fra le dita come se li carezzasse: – ... Il mestiere lo conosco... di mediatori che ci stanno dietro passo passo un ce n’è tanti... –

Lui era stato garzone di cenciaiolo. L’attitudine al mestiere effettivamente gli risaliva ai tempi di quei gesti ripetuti mille volte. Ma, insofferente di lavorare tutto il giorno seduto a terra o a gambe incrociate su una specie di rudimentale guanciale, s’era presto messo nel mondo della “mezzeria” con sicurezza e competenza, aiutato da un certo intuito. Andava davvero sempre in cerca del lotto migliore e del miglior prezzo.

La sua era una faccia adatta a tutte le stagioni che asssorbiva delusioni senza rifarsene. In quel mestiere sfoggiava una duttilità, una parlantina non banale che gli consentiva di essere ben sopportato dai fornitori e dai clienti.

Duccio lo lasciava dire volentieri, toccando e guardando anche lui quei lunghi ciuffi filosi.

Superata in quel giro, Sergio gli stava facendo passare come in rassegna il suo operato, la catasta delle balle e dei colli, passarono dalla cardina che era in funzione.

Pio stava ultimando il feltrino del “ferroviere melange” in preparazione di una mista di dieci quintali, e in quel momento stava arrotolando a mano il morbido materasso dalla botte. Lo piegò in due e con dei piccoli tocchi lo fece assomigliare ad un grosso fungo per confrontarlo al feltrino originale: – ... icchè ti pare Bonacchi... gli è bello, però gli darei un altro un per cento di quella lana nova bianca... –

– ... te per fare e’ feltrini t’hai l’occhio bono... – rispose il mediatore che aggiunse, rivolgendosi con lo sguardo al titolare: – ... vero Duccio... lui gli è bravo... preciso... – Pio ebbe un lieve rossore.

- ...però... sta’ attento a icché ti dico Pio... i’ tennico gli ha voluto prendere la lana argentina per melangiare gli scuri... dice che l’è bona... a me mi pare che la un s’apra tanto bene... l’è nervosa... gli agnellini australiani son meglio... –

C’era un sordo contenzioso tra il tecnico responsabile dell’avanzamento di produzione e il mediatore che avrebbe ambito a prendere lui in mano anche l’acquisto della lana nuova. Così non perdeva occasione per mettere in dubbio la sua competenza in materia di lane.

Duccio non voleva entrare nel merito e non gli dette peso; a lui bastava che alla fine l’articolo 42.600, come in quel caso, venisse bene.

Mentre i due si allontanavano il feltrinista fece un gesto interrogativo al mediatore come a dire:

– allora... icché fo?... – Pio, un’andar via... ora torno... – gli accennò allora prima di sparire dalla porta.

– ... certo che tra te e Pio Nenciarini c’è una bell’intesa... eh, Bonacchi... – che voi, gli è il marito della mi’ sorella... – Non gli era garbato il tono di quelle parole, c’era un che di maliziosamente non detto. Non l’aveva visto in faccia, però aveva avuto la sensazione che un mezzo, ma neanche, un quarto di sorrisino, l’avessero accompagnate.

Duccio era un uomo di mondo. Che era l’espressione edulcorata che usava lui stesso per definirsi instancabile cacciatore di donne, possibilmente belle ma soprattutto disponibili. Ovunque andasse, alla fiera di Francoforte piuttosto che a quella di Parigi, appena dopo il lavoro che era lo scopo prioritario delle trasferte, il suo tempo era rivolto a quella ricerca.

Alla sera, in albergo o in qualche locale notturno, quando non bastavano i rozzi tentativi di un pratese vestito molto bene e sicuro di sé ma completamente analfabeta con le lingue straniere, si avvaleva del suo scudiero, il suo commerciale tedesco: – vai... Jancke, vai... chiedigli quanto la vole... –

Nell’accompagnare quelle parole, con gesto eloquente e spesso definitivo, tirava fuori dalla tasca interna della giacca l’involto di banconote da centomila lire legate da un gommino. Questo era Duccio Baroncelli.

Poiché apprezzava il Bonacchi come mediatore, anche per una sorta di riconoscimento professionale, più di una volta aveva cercato di ingaggiarlo: – ... oh Sergio... stasera vo a Montecatini con quei ragazzi... c’è da fa’ del bene... ho il giro giusto... che voi venire anche te? –

Ma il mediatore, tutte le volte aveva sempre da fare anche lui del bene. Diceva che proprio quella sera aveva fissato con una a Firenze che era la fine del mondo e che non poteva farle uno sgarbo.

Altre volte gli aveva sibilato, ma si raccomandava che la cosa rimanesse in confidenza, che lui fosse come sposato con due donne diverse, ma che l’una non sapeva dell’altra: – ... tu capisci... son parecchio impegnato... ho dei doveri... un le posso miha trascurare... – concludeva con una mezza risata che voleva essere di complicità.

A Duccio per molto tempo la cosa continuò ad importargli relativamente.

Ed era vero che la sua perspicacia quasi animalesca, somigliante a quella di un felino affamato, la riservava, oltre che alla caccia alle donne, quasi completamente all’attività commerciale, intuendo molto spesso quale fosse il prezzo migliore per un determinato cliente oppure quale fosse la tattica giusta per concludere un ordine; però, dai e dai, quei continui dinieghi cominciavano a restargli singolari.

Tuttavia, avendo molti difetti, non aveva quello di essere un chiacchierone; quella mattina quel sorrisino non ostentato ma un tantino malizioso gli era venuto spontaneo, ma poi non ci pensò più.

Il faro della sua attenzione, dopo aver lavorato tutto il giorno, quella sera sarebbe stato rivolto verso una meravigliosa mulatta di origine antillana; che non era una prostituta d’alto bordo, bensì la stilista olandese di una grossa ditta di Amsterdam. Sapeva bene l’italiano; pensò che avrebbe unito l’utile al dilettevole

Invece Sergio Bonacchi ci pensò eccome. Era la prima volta che accadeva, almeno con Duccio Baroncelli. Come era scrupoloso nel suo lavoro era ancor più era scrupoloso nel non dare il minimo adito a certi sospetti: – ... non ti voglio colpevolizzare... ma potevi fare a meno di fare quel viso rosso Pio... –

Il feltrinista disse che se n’era accorto ma che non l’aveva fatto apposta e che gli dispiaceva: – ... però Sergino... evita di farmi degli apprezzamenti in presenza d’estranei... per piacere... lo sai che mi fa quest’effetto... –

Avevano la stessa età, avevano fatto le stesse scuole elementari e le medie, sempre insieme. Dopo l’infanzia trascorsa serena nei comuni giochi di tutti i bambini, nell’età della prima adolescenza cominciò ad affacciarsi in entrambi una specie di strana e speculare simpatia che loro stessi faticavano a capire. Non era la stessa affinità che sentivano per gli altri compagni di scuola, era un di più. Ognuno di loro, alla presenza dell’altro sentiva affannarsi il cuore.

Pian piano capirono; scoprendo l’ebbrezza del contatto e la felicità nell’abbracciarsi. Avendo da subito, più che l’intuizione la certezza di essere diversi dai compagni di classe, furono attenti a tenere per sé quei sentimenti e assolutamente nascoste certe effusioni.

Qualche compagno delle medie che, vedendoli sempre insieme e non propensi a rincorrere le sottane delle ragazzine come tutti gli altri provò a fare delle mezze allusioni. Ma si scontrò con la forza fisica e la reazione del Bonacchi il quale, in parte istintivamente ma in parte con sommo studio reagiva usando pugni e spintoni: – icché c’è?... cos’hai da ridire... dillo se hai il coraggio... –

A tredici anni alla fine delle medie, per l’età Sergio appariva già un bestione alto e grosso. Anche se il suo cuore pulsava in un certo modo, l’apparenza era maschia e il comportamento ne era conforme. Pio invece era di tutt’altra pasta; crescendo ognuno dei due si era molto diversificato nell’aspetto. Magro e non molto alto, castano e ricciuto, dava l’idea di una certa fragilità, accompagnata di quando in quando, sia nella postura che nel camminare, da qualche movenza femminea che non avrebbe voluto assolutamente fare, ma che gli scappava.

Il suo terrore era di sentirsi dire, magari anche per scherzo: – ... ma che se’ un po’ buho Nenciarini?... –

Tra gli adolescenti quell’espressione, buco a Prato voleva dire omosessuale, a quei tempi era abusata, rivolta spesso a chiunque senza neanche pensare al significato, con la stessa disinvoltura con cui si poteva apostrofare qualcuno di grullo o di bischero. Ma Pio doveva fare uno sforzo per non farsi vedere particolarmente ferito, controllando sottecchi se quelle parole fossero state accompagnate da un sorrisino o da qualche bisbiglìo successivo rivolto a un compagno.

A quattordic’anni Sergio che, dato il suo carattere e il suo aspetto, non soffriva e non avrebbe sofferto così tanto come l’amico per quelle cose, per necessità economiche della propria famiglia, diventò presto cenciaiolo dal Bellandi.

Fu seguito non molto tempo dopo da Pio il quale, anche lui come lavorante a guanciale a fare quel mestiere polveroso, vi rimase molto a più lungo, fino a quando il Bonacchi, affermatosi intanto come mediatore non riuscì a farlo assumere dal Baroncelli come feltrinista.

Nel 1972, un anno pieno di lavoro per Prato, all’età di ventinove anni, a suggellare il loro nascosto ma forte connubio, il fragile compagno del mediatore si era congiunto in matrimonio con Ada, la sorella di Sergio. Era stato un autentico colpo di genio del Bonacchi. In un colpo solo aveva risolto due problemi.

Fino a non molto tempo prima, sempre fissa in casa, Ada era stata interamente occupata ad accudire i vecchi ed esigenti genitori fino a che il Padreterno li aveva chiamati entrambi, alla distanza di un solo mese l’uno dall’altra.

Rimasta quasi improvvisamente sola in casa, dal “trasporto” della mamma era già trascorso qualche giorno, e il fratello avendo i suoi giri in quella casa non c’era quasi mai, si era guardata intorno. Durante quella lunga clausura famigliare il mondo era andato avanti; tutte le sue antiche amicizie si erano spente, ognuna delle sue compagne di scuola e di vicinato avendo da pensare alla propria famiglia e ad allevare i propri figlioli.

Una mattina aprì gli occhi presto, svegliata da un cinguettìo sulla mensola della finestra. La prima trepida luce dell’alba traspariva dalle sgretole degli “scuretti”. Da quando non doveva accudire l’anziana mamma, si era abituata a dormire di più, così si raggomitolò nuovamente indugiando sotto le coperte. Ma dopo un po’ le riaffiorarono certi pensieri negativi della sera prima; spalancò le persiane dando luce alla stanza e, come volesse dare una risposta a quei pensieri, si guardò allo specchio.

Fino a quei giorni si era quasi dimenticata di essere una donna. Si passò le punte delle dita fra i capelli sulla sommità della testa come a riavviarsi un po’, poi si aprì la camicia davanti a quello specchio, qua e là macchiato di grigio. Vide sgomenta i suoi seni quasi flaccidi, li sollevò, li lasciò ricadere, passò la mano sul ventre magro. Le venne un gemito.

Alla sua naturale bruttezza, il mento e il naso entrambi ossuti e sporgenti, in certi momenti di depressione tendevano a toccarsi, si erano aggiunti gli anni. Gli occhi piccoli, piccoli come quelli del fratello ma non così svegli e luccicanti, erano attorniati da un ventaglio di fitte rughe. Quel crocchio di capelli tegosi anche se puliti e ancor neri era opaco e ridicolo, come opaca e inutile era diventata la sua giornata. Non c’erano dubbi che Ada fosse e si sentisse una donna, tuttavia quella creatura piccola di statura e di magrezza sconcertante, era quanto di più triste e sgraziato si potesse immaginare.

Consapevole della sua nullità cominciò a piangere. Piangeva di notte e poi seguitò anche di giorno, tantevvero che anche il fratello che di solito non si curava minimamente di lei, se ne accorse e gli si accese una lampadina.

Allora le fece frequentare Pio che conosceva solo di vista, invitandolo a cena in casa più volte. Il ricciuto amico del fratello era gradevole di aspetto e nei modi e prese a dimostrare interesse per la semplice donna, la quale non credeva ai suoi occhi e al suo udito, vedendo e sentendo quell’attenzione e certe interessate parole.

Era molto devota; da sempre in salotto teneva un altarino a santa Rita: – ... è un miracolo... la mia povera mamma mi assiste e santa Rita intercede per me... – Il cuore gli si gonfiò all’inverosimile dalla contentezza. Quando il Nenciarini le chiese la mano non esitò neppure un istante ad acconsentire.

Al lanificio Baroncelli, prima dello sposalizio, fu fatto un bel rinfresco nel salone della carda a campioni. Quella mattina anche i bussolotti trasparenti dei feltrini disposti in perfetto ordine dentro gli scaffali lungo la parete parevano sorridere alla festa, riflettendo lame di sole primaverile provenienti dal soffitto invetriato.

Pensò a tutto il mediatore, predisponendo ogni ben di Dio sulle casse del filato, rovesciate e coperte da tovaglie bianche. Arrivarono gli impiegati e i magazzinieri come uno sciame, poi ogni tanto qualcuno alzava il bicchiere per un brindisi o si complimentava con lo sposino.

Tutto filò liscio, e all’apparenza non ci furono battute strane di nessun genere, anche se Pio, pur non essendo certo di quale ne fosse il significato, fu gelato un paio di volte da certi mezzi sorrisi scambiati tra due impiegate, di quelle con la bocca larga che parevano saper sempre tutto.

La cerimonia nuziale officiata nella chiesa di Santo Spirito nella seconda domenica di giugno, fu molto semplice. La famiglia del fratello, ben contento di avere sistemato Pio in quel modo, era festosamente presente. Pio, mentre aspettava la sposa davanti all’altare ricordò con un filo di nostalgia che i propri genitori, anch’essi morti entrambi, avessero coltivato per lui fin da piccolo l’idea di vederlo prete, e che il nome Pio fosse stato scelto proprio per propiziare in qualche modo la realizzazione di quel pio destino.

Si rivolse a loro con il cuore: – ... babbo e mamma... spero che siate contenti lo stesso... io lo sono... –

Sergio invece accompagnò con solennità la sorella all’altare senza che gli venisse in mente alcunché.

Il breve viaggio di nozze a Portovenere fu una sofferenza per il feltrinista il quale, come sempre ligio al dovere, fece tuttavia del suo meglio cercando di dissimulare il disagio.

– ... lo devi aver dissimulato abbastanza bene quel disagio... – gli disse caustico il Bonacchi al ritorno, vedendo l’espressione beata della sorella, quasi da non riconoscerla.

– ... – oh che se’ geloso Sergino... tu lo sai... un penso che a te... –

In effetti il loro era un rapporto solido e duraturo e anche il mediatore, che pure aveva modo di conoscere tanta gente era rimasto praticamente fedele al sodalizio.

C’era stata soltanto una frettolosa eccezione con un compratore, un bell’uomo, del quale nessuno avrebbe sospettato condividesse con lui gli stessi gusti sessuali. Si erano annusati e riconosciuti. Ma quell’eccezione, come ebbe modo di pensare fra sé sul momento a giustificare la propria intemperanza, era stata fatta solo per incrementare il giro di lavoro.

E un giorno, preso da rimorso glielo raccontò. Sergio, al di là dei modi risoluti che, in certi casi gli avevano fatto gioco di fronte alla gente, era un sensibile; così gli chiese scusa. Pio non la prese bene; gli ci volle quasi una settimana per capire la faticosa sincerità di quella confessione che avrebbe potuto anche omettere di fare.

A modo loro, Sergio e Pio potevano dirsi un buon esempio di fedeltà quasi da additare se solo avessero potuto essere loro stessi anche in pubblico; mentre per anni avevano sopportato il disagio di incontrarsi nei posti più scomodi e disparati.

Ora invece abitavano sotto lo stesso tetto e, ad ogni buon conto la gente non poteva aver nulla da mormorare; gli sposi avevano la camera al pianterreno, mentre Sergio aveva la sua al primo piano, proprio alla fine delle scale, sopra al mezzanino.

Ada volava. Era al massimo della contentezza e non smetteva di ringraziare il fratello, il quale aveva davvero risolto due problemi con quell’idea, non parendogli per nulla che per quella risoluzione avesse ingannato la povera Ada, ma a fin di bene, s’intende.

Spesso, di notte, il feltrinista saliva dall’amico del cuore e ci restava fino all’alba, sicuri che Ada non si potesse risvegliare tanto facilmente con quella pasticchina che in quelle occasioni le somministravano insieme alla camomilla.

Va da sé che saltuariamente, diciamo una volta o due al mese, Pio dovesse fare il suo dovere coniugale. Lo viveva come una dovuta prova d’amore per il suo Sergio, una faticosa missione ma mitigata in parte da un sottile sentimento di rispetto per quella donnina che gli dimostrava tanta affezione.

Ada, in brodo di giuggiole, il giorno dopo metteva sempre una rosa o un altro fiore a santa Rita, non mancando di manifestare in quel modo tutta la sua riconoscenza nei confronti della buona sorte, avendole riservato un marito così caro.

Successe che, dopo qualche tempo Ada rimanesse in cinta; d’altronde aveva trentaquattro anni, quattro più del fratello, e l’accadimento rientrava nell’ordine delle cose naturali. Pio, più o meno faticosamente, aveva posto più volte il suo seme nel grembo ancor fertile della buona e sgraziata Ada.

Alla notizia Sergio e Pio si guardarono negli occhi dallo stupore. Non avevano mai preso in considerazione quella possibilità. Dopo qualche giorno lo stupore si volse prima in quieta accettazione e poi, soprattutto in Pio, in contentezza. – ... vuol dire che il bambino sarà come il figliolo di tutti e tre... non ti sembra una bella cosa Sergio?... –

Ada era al settimo cielo. – ... sarò mamma... sarò mamma... – Ogni tanto si guardava la pancia, ancora meravigliata che dal suo ventre così sgraziato, che fino a pochi mesi prima sembrava destinato a sicura aridità e inutilità, potesse scaturire la vita. Cercava tutti i giorni di individuare le prime avvisaglie della nuova condizione; ma era così magra che occorse arrivare al quarto mese perché si scorgesse una qualche timida rotondità, accompagnata da un altrettanto timido turgore del seno. Soltanto i capezzoli, meravigliandola un po’, si erano scuriti e di molto.

Lei non aveva mai avuto sentore che tra il fratello e Pio ci fosse un qualcosa di più di un bel rapporto di amicizia. Era molto contenta che fossero così tanto amici. A tavola parlavano tanto tra loro, prevalentemente di lavoro, e anche se a volte aveva notato degli sguardi di intesa molto intensi, li attribuiva a quella forte amicizia.

I doveri coniugali di Pio cessarono quasi del tutto durante la gravidanza: – ... per rispetto del bambino... – gli spiegò il marito dimostrandosi dispiaciuto. E un po’ lo era veramente, non tanto per la rinuncia ai piaceri carnali del caso di cui non sentiva minimamente la mancanza, ma per il più o meno innocente inganno perpetrato nei confronti di una donna buona.

Ada di solito dormiva molto profondamente anche senza quelle pasticche che i due compagni avevano cessato di somministrarle, in questo caso veramente per rispetto del bambino.

Una notte, avvertendo un gran bruciore accompagnato da tanta voglia di urinare si svegliò di soprassalto. Sapeva che la gravidanza avrebbe portato con sé quei disagi, così si alzò andando a tentoni non volendo svegliare il marito. Tuttavia, attraverso una persiana rimasta socchiusa una pallida spera di luna illuminava il letto sponsale e vide che Pio non c’era, ma non se ne preoccupò; sapeva che a volte si alzasse per bere.

Corse in bagno che era situato sul mezzanino e, mentre si liberava la vescica avvertendo il forte bruciore dovuto alla cistite sentì dei gemiti provenienti dal primo piano. I gemiti seguitavano, così temendo che al fratello si fosse riacutizzata l’ernia di cui soffriva ogni tanto, scalza com’era salì le scale.

La porta della camera era appena socchiusa e l’interno era illuminato dalla minuscola lampadina dell’abat jour.

Ada si fermò impietrita fuori della porta; non si aspettava di vedere quello spettacolo. I due uomini, completamente nudi e accaldati erano avvinghiati tra loro e ansimavano muovendosi lentamente. Rimase lì, immobile per alcuni istanti senza neppure respirare. Poi, in assoluto silenzio scese le scale e si buttò bocconi sul letto.

Non riusciva a piangere; non riusciva a pensare alcunché. Per molti minuti si rifiutò di capire.

Era una donna semplice ma non era scema, così realizzò finalmente il significato di ciò che aveva visto. Ne aveva sentito parlare in passato, ma come una cosa strana che, come pensava, non avrebbe mai potuto appartenere al suo mondo, al mondo delle persone normali come lei.

Non chiuse più occhio e finalmente sentì Pio che, adagiatosi al suo fianco si addormentò placidamente russando piano. Ma non disse nulla né il giorno dopo né nei giorni seguenti.

Guardava stupefatta ma senza farsene avvedere quei due uomini che conducevano la loro vita come prima, ed erano contenti. A cena commentavano euforici l’ordine arrivato finalmente da Steilmann.

– ... ci pensi Pio... un ordine di duecentomila metri in quattro varianti... bisognerà che domani faccia una scappata in vallata... c’è un magazzino con carbonizzo e stracciatura che voglio visitare... le consegne sono scaglionate... però non c’è da scialare... – Pio annuiva, mentre gustava una odorosa minestra di verdure ma poi, come si fosse ricordato di qualcosa d’importante aggiunse d’un tratto: – ... a proposito Ada... Duccio ha saputo della gravidanza... ti fa tanti complimenti e auguri... –

Ada sorrise e lo guardò un po’ inebetita. Mentre i due continuavano a discutere, si sentì all’improvviso come un essere librato in aria ad osservare la scena dall’alto. Vedeva Sergio e Pio che, seduti ai due capi della tavola mangiavano di buon gusto e parlavano sereni, vide una donna magra a cui la maternità stava rendendo più morbidi i tratti del viso. Considerò se stessa e, ancor più stupefatta vide quanto bene lei continuasse a volere a quei due uomini.

Era come morta e le avevano reso la vita. Ringraziava e pregava tutti i giorni Santa Rita, la “santa degli impossibili”. Infatti ogni tanto poteva godere anche lei della consolazione dell’amore o quantomeno dell’affetto, e stava custodendo una creatura che sarebbe stata lo scopo della sua vita. Tutte cose che un tempo le sarebbero apparse impossibili.

Non disse loro mai una parola di ciò che sapeva; ma sapeva che loro invece supponessero che lei sapesse. La bambina nacque e le misero nome Sophia.

 fine

GOCCIOLINO

GOCCIOLINO – racconto breve -

FOLA 3 

- L’ operazione di bagnatura della pezza in doppia corda, dopo aver controllato che le cuciture fossero state fatte correttamente, era già stata sapientemente ultimata. Roberto, mentre teneva un pezzettino di spago stretto tra i denti, appuntò la prima “chiama” alla pezza con un grosso ago; poi prese l’asta di legno per fissare l’altra chiama alla distanza di un metro.

Era la prima prova di un nuovo articolo di flanella più leggera e soffice e il tecnico era lì in giacca e cravatta per il varo della sua creatura, ma un po’ nervoso. C’era in ballo un grosso ordine per Bidermann e il titolare ci teneva.

Prato aveva il vento in poppa, nel 1981 correva come correvano gli ordini; tuttavia si diceva ci fosse una certa differenza tra un cliente e l’altro; l’importante francese era un pagatore puntuale e non procurava troppe grane per la qualità.

Anche Roberto Ciolini detto Gocciolino era nervoso, ma non tanto per quella prova; lui sapeva il fatto suo, era un follatore esperto e affidabile: – ... il Ciolini gliè una sicurezza... gliè difficile che sbagli... – dicevano di lui negli uffici della Giraldi & Co. Oppure veniva evocato quando c’era un problema di peso o di mano: – ... senti icché ne pensa Gocciolino... –

Quel lavoro era la sua vita. Roberto era follatore per passione, aveva imparato da ragazzo nella fabbrica del Calamai, quella con la facciata imponente di fronte al Bisenzio. Più tardi continuò a fare lo stesso lavoro al lanificio Ciabatti vicino a piazza Ciardi e da lì non si era più mosso.

Nella stessa ditta aveva conosciuto la Livia, che abitava invece dentro le mura. Per anni tutte le mattine, partendo presto da Ponzano, con la sua bicicletta nera a bacchetta aveva continuato ad arrivare puntuale al suo lavoro, dove nel periodo di fidanzamento l’aspettavano i suoi amori, cioè la fola e la Livia.

- Invece quella mattina, appena inforcata la bicicletta gli era tornato in mente quel discorso e la strada che solitamente percorreva con animo leggero, gli parve come in salita. Aveva il cuore stretto di preoccupazione per la moglie che era in cinta di quasi quattro mesi. La sera prima il dottore aveva detto che sarebbe stato meglio fare degli accertamenti.

Adesso, mentre faceva i consueti gesti di preparazione della pezza, la testa gli andava da un’altra parte. Il dottore non solo aveva suggerito di fare quegli accertamenti, ma aveva fatto anche delle supposizioni: – ... oh... magari va tutto bene eh... ma trentanov’anni per fare un figliolo un son pochi... – poi, distante dagli orecchi della moglie, fuori della porta dove il follatore lo aveva accompagnato, aveva aggiunto: – ... io non mi preoccuperei più di tanto Roberto... ha’ visto... d’altra parte se ci fosse un problema... ha’ visto... c’è la legge... tutto regolare... non stare a preoccuparti più di tanto... –

Loro avevano già due figlioli, maschio e femmina, di dodici e di dieci anni; bravi a scuola, obbedienti. Quella gravidanza non era voluta; dicevano che due figli fossero già abbastanza ed effettivamente l’età della Livia, che soffriva anche di glicemia era un po’ avanzata, ma lei, dopo un primo momento di smarrimento si era voltata alla contentezza:

– ... Roberto... e se la fosse davvero il bastone della vecchiaia? eh?... belliiina... mi par di già di vederla... –

Lei avrebbe preso volentieri un’altra femmina, ma disse che le sarebbe andato benone anche un maschietto.

A quel discorso dell’accertamento, la Livia non aveva dato tanto peso; pensò si trattasse quasi d’un ordinario controllo, soffrendo lei da sempre di quei benedetti zuccheri nel sangue. Il riferimento ai suoi anni poteva esser derivato dalla necessità di una cura specifica e di più vitamine.

- La pezza di flanella “Blu notte melange” intanto girava gonfia a dovere, prometteva bene. L’efficace soluzione follante era un po’ cara ma era di prima qualità; su questo Roberto era intransigente.

Un mese prima l’agente della concorrenza gli aveva sibilato a mezza bocca, tra il detto e il non detto, che con il suo prodotto lui potesse rimediare un qualche arrotondamento al suo stipendio: – .. ma no per questa sciocchezza te lo consiglio Roberto... non mi frantendere, ma per la qualità... –

Non ci fu nulla da fare; lui si trovava bene con il suo prodotto della Dye-Fin e poi quel gesto lo aveva un po’ indisposto, non gli era piaciuto.

Roberto era un puro, lo era sempre stato, fin da ragazzo. Anche allora il sereno e giocoso aspirante di Azione Cattolica soleva prendere tutto sul serio, gli orari, gli impegni presi. Arrivato all’età del fidanzamento, lui pur attratto moltissimo dalla Livia, ragazza florida e aggraziata, sapeva bene quale fosse il suo dovere di giovane cattolico, così la prima notte di matrimonio fu per entrambi una meravigliosa scoperta. Onesto in tutto era rimasto onesto anche sul lavoro.

Fecero un primo controllo alle chiame e alla larghezza, così decisero di aumentare leggermente la pressione. Ogni tanto sia il follatore che l’occhialuto tecnico stendevano la mano all’ingresso dei cilindri, sulla pezza via via sempre più gonfia, annuendo: – ... bona, bona... viene bene... –

Roberto prese la caraffa del prodotto per aggiungerne dell’altro sulla pezza che correva all’insù verso i “cilindri”, ma non troppo, non volendola bagnare più del necessario.

Tra un controllo e l’altro, andando tutto regolare, Roberto con la mente tornava sempre lì. Si chiedeva che cosa avrebbero fatto, lui e la sua Livia se messi di fronte ad una brutta realtà come quella che aveva vagamente prospettato il dottore.

- Il tecnico, un lungagnone un po’ curvo dal ciuffo nero e tegoso e dal viso butterato solitamente serioso, tradiva invece la tensione del momento. Le lenti cerchiate da una leggera montatura d’oro gli si appannavano, costringendolo spesso a pulirle con un fazzoletto a quadretti.

Aveva atteso con apprensione con l’antico metro di legno in mano, attento a non farsi macchiare i pantaloni dagli schizzi umidi e sporchi che fuoriuscivano dalla fola.

Era il momento: – ... fermala vai Ciolini... vediamo icchè gli è venuto... – ... aspetta Lastrucci, diamogli i’ gocciolino finale... – suggerì invece Roberto. Era il suo personale accorgimento, quello di dare, quasi alla fine e allentando la pressione della “ciabatta”, un minimo quasi omeopatico supplemento di sapone follante. Quel gesto, lo sapevano tutti, era come un gesto scaramantico anche se non lo voleva ammettere, ed era per questo motivo che lo chiamavano Gocciolino. Lui ci rideva sopra: – noo... macché... gli fa ma bono... per la mano, coglione... –

Dopo un giro o due fermò il vecchio follone di legno toccando il dispositivo d’arresto, e tirò fuori la pezza umida e calda fino a lambire il pavimento. Il Lastrucci misurò le chiame e l’altezza. Sussurrò che la percentuale gli sembrava giusta poi, appoggiata l’asta di legno, prese una cocca della pezza con entrambe le mani. La toccò per qualche istante ad occhi socchiusi roteando delicatamente i pollici, mentre i polpastrelli delle dita sottostanti amorosamente la carezzavano.

Roberto lo guardava con aria interrogativa; poi il tecnico, sollevando e appoggiando gli occhiali sulla testa tegosa, si espresse: - ... Roberto, tu m’ha fatto godere... l’è proprio come la volevo io... morbida, soda, saponosa... l’è viva... tu m’ha fatto godere... –

Rimase male, s’aspettava che anche Roberto sorridesse contento: – ...icche c’è... la un ti piace a te?... –

– ... no, no... la mi piace... la mi piace... gli è un bell’articolo... gli è che che ho un po’ di mal di testa... nulla di che.. –

Dette disposizione di metterla e di farla girare nel purgo in un certo modo. Anche il lavaggio finale sarebbe stato della massima importanza per la mano e per l’aspetto.

- Poi corse a casa. Non che potesse fare qualcosa; la visita specialistica ci sarebbe stata dopo alcuni giorni al “San Giorgio” e poi pensò che non si sarebbe potuto spiegare con la Livia; preferiva risparmiarle l’attesa e il dubbio, ma sentiva di far bene standole vicina.

A volte, in silenzio, benchè rivolto verso il televisore acceso, la seguiva con lo sguardo mentre finiva di preparare la tavola già odorosa di sapori caldi e fumanti. Si era abituato ogni giorno a seguire le varie vicende nazionali e quell’anno erano state molte quelle rilevanti; dall’attentato al papa, gli omicidi delle brigate Rosse, alla lista degli affiliati alla loggia massonica P2, senza parlare del recente Referendum sull’aborto.

Livia non lavorava più, avevano deciso che avrebbe fatto meglio a dedicarsi alla famiglia a tempo pieno; i ragazzi andavano seguiti e Roberto guadagnava benino. Dopo quindici anni, gli sembrava di aver scelto non solo la persona giusta come carattere, ma anche, almeno ai suoi occhi, la più bella di tutte. Agli “specchi” c’era ancora come maestra la Cristina; era una bella donna anche lei, di capelli lunghi e corvini che usava fermare in un alto crocchio, attualmente un po’ ingrassata. La “papessa”, è così che la chiamavano per le sue arie, c’era rimasta male quando il giovane follatore capo le aveva preferito una sua sottoposta; ma poi si era consolata sposandosi con uno di Pistoia. Eppure, era come se le fosse rimasto un conto in sospeso; non perdeva tuttora occasione per fargli qualche discorsino allusivo o di lanciargli di quando in quando certi inusuali sguardi. Gocciolino però faceva finta di niente.

Livia era già di quasi quattro mesi ma non si vedeva ancora un granché. Ci erano già passati, quindi sapeva benissimo che potevano fare all’amore. Era innamoratissimo e lei lo stesso ma, sarà stato il caldo o più facilmente erano quei fastidiosi pensieri ad inibirlo, a Gocciolino non gli saliva facilmente l’abituale passione.

Piuttosto, la sera a letto si limitava ad abbracciarla da dietro, ad accarezzarle la pancia e i seni ora più pieni e turgidi: – ... icchè tu hai Robertino, ti vedo serio... che va male i’ lavoro? eh?... – gli sussurrava lei.

Però le sembrava strano; ora che potevano amarsi senza preoccupazioni, dopo anni di affannate precauzioni, combattuti tra le improbabili raccomandazioni della Chiesa in materia di maternità responsabile e l’uso del condom nelle situazioni più dubbiose, Roberto sembrava come spento.

Livia dava la colpa al lavoro particolarmente impegnativo di quel periodo e al caldo; al sedici di settembre la coda dell’estate si faceva ancora sentire, pesante e afosa. Alla sera, anche con il riscontro e le finestre spalancate la casa quasi bolliva.

Così, mentre la prima luce dell’alba si insinuava tra le persiane illuminando la camera degli sposi raffrescata dalla brezza notturna Livia, che era più mattiniera, si girava dalla sua parte. Sbaciucchiandolo e stuzzicandolo gli diceva piano: – ... oh... svegliati... è quasi l’ora... ma che sarà quella scemina agli specchi de’ Ciabatti eh!... che ti fa confondere... eh!... oh... guardami... –

A Gocciolino quel tepore e quei leggeri baci gli risvegliavano i consueti ardori che gli facevano accantonare i cattivi pensieri e che insieme provvedevano a spengere. A quel punto tra le sgretole arrivavano anche le prime lame di sole; le fole e gli operai lo aspettavano.

- Passarono i giorni e, l’uomo di fiducia del Lastrucci, quello che non sbagliava mai un campione, prese una mattinata libera per accompagnare Livia allo studio medico per l’analisi. Mentre aspettavano il loro turno, gli si affollavano alla mente mille ragionamenti.

Tre mesi avanti c’erano stati i due referendum sull’aborto. Non era stata approvata dalla volontà popolare né l’abrogazione di alcune norme per renderlo più libero, né la speculare abrogazione per renderlo più restrittivo. Agli italiani era piaciuta la legge centonovantaquattro, così com’era uscita dal parlamento.

– ... Dio non voglia eh!... però meno male che c’è quella legge... lo sai che incubo un bambino malformato... non ci voglio neanche pensare... – rimuginava il Ciolini, senza pensare che lui e la moglie avevano votato no al quesito dei radicali e sì a quello dei cattolici. O meglio, se ne ricordava, ma ora che quella legge era stata confermata quasi a furor di popolo, anche lui era portato a pensare che fosse davvero necessaria, almeno per i casi gravi: – ... ma quali saranno i casi gravi?... – si interrogò voltando lo sguardo verso la pancia di sua moglie, la quale però non gli badò affatto, stava sfogliando la rivista “Oggi”.

Poi ricordò anche, quei dibattiti li aveva seguiti, che ci sarebbero stati anche i cosiddetti Consultori; sarebbero serviti per aiutare  le donne a superare le cause che, in certi casi, potessero indurre a pensare all’aborto, anche con aiuti economici. Lui l’aveva capita così e gli sembrava una cosa fatta bene; lo avevano spiegato tante volte.

Due giorni dopo andò al San Giorgio a ritirare i risultati dell’amniocentesi. Il dottore di famiglia che li esaminò il giorno stesso fu abbastanza schietto: – ... Roberto, purtroppo i miei timori non erano infondati... mi dispiace veramente... l’esame accerta al novanta per cento la trisomia ventuno... –

Gocciolino sbiancò: – ... ma... che cos’è dottore... come sarebbe?... – Il dottor Pistelli gli spiegò che si trattava di un’alterazione di cromosomi; in pratica, sospirò: - ... il bambino, che sia maschio o femmina ancora non lo sappiamo, avrebbe la sindrome di Down... –

Finalmente Gocciolino capì. Crollò a sedere guardando nel vuoto: – una mongolina... Dio mio... una mongolina... come farò a dirglielo... – ... comunque Ciolini... l’aborto terapeutico non è niente... in poche ore si torna a casa... non si preoccupi... glielo spieghi alla Livia... non ci sono complicazioni... lo so... dispiace... –

Uscì dallo studio medico come ubriaco, ma andò direttamente in fabbrica. Doveva andarci; il Lastrucci voleva che i campioni li facesse soltanto lui e ce n’era uno urgente.

Aveva il cuore stretto in una morsa, tra il dispiacere di perdere la bambina, sì proprio così la bambina, perché Livia ne era sicura avendola sognata anzi, le aveva già messo il nome, e la prospettiva per quella creatura di una vita intera con una malformazione così grave. Quella malformazione l’avrebbe condannata per sempre ad un’esistenza miserevole e marginale e loro due ad una sofferenza quotidiana.

- ... che c’è Gocciolino?... non ti vedo tanto bene in questi giorni... ti vedo distratto... guarda, questa volta l’impiumatura non è un capolavoro... la flanella è troppo soda... – Il tecnico andò via un po’ scocciato; era abituato a godere di più, quando davanti alla fola c’era il Ciolini.

Alla sera, quando i bambini che già ciondolavano dopo aver visto l’Ape Maia e Candy Candy furono messi a letto, le spiegò con trepidazione quello che le doveva spiegare.

Fu subito pianto; alternava gemiti sommessi al pianto dirotto: – ... la mia Caterina... nooo... la mia bambina... – Ci mise parecchio ma poi si calmò un po’. Singhiozzando, se ne andò a letto.

Quella notte nessuno dei due riuscì a dormire.

Nei giorni seguenti sembrava che Livia, pian piano se ne facesse una ragione; l’intervento, al “Misericordia e Dolce” era stato programmato per il lunedì della settimana successiva, dopo nove giorni.

– ... ciccina, senti... – nell’intimità la chiamava così nei giorni più felici, – ... perché non ne adottiamo una di bambina... eh?... che ne pensi... eh?...così facciamo anche del bene... – Livia si scansò ancor di più, non voleva sentire niente, neppure quei discorsi.

Quel riferimento al “fare del bene” non era buttato lì per caso. In entrambi, ma ancor più in Roberto anche se non lo dava a vedere c’era un pensiero fisso, come se in casa aleggiasse un’atmosfera di rimpianto, un preventivo rimpianto. Sapeva che avrebbero tradito certi valori che un tempo assomigliavano a certezze, a cui si erano appoggiati con convinzione e che ora si sarebbero infranti di fronte al crudele realismo della vita.

Tutti e due, qualche anno prima, a distanza di pochi mesi, avevano fatto l’esperienza dei “Cursillos di Cristianità”, un nuovo movimento cattolico venuto dalle isole Baleari.

Tre giorni densi ed entusiasmanti, durante i quali, in un caldo clima di amicizia avevano riscoperto il valore del loro battesimo. Ne erano usciti con il cuore colmo di gioia, sicuri che non avrebbero più potuto fare a meno di raccontare a tutti la bellezza di quella loro scoperta. L’amicizia con Dio, l’amore per il prossimo, la solidarietà nei confronti degl’ultimi sarebbero stati i pilastri di quella nuova visione del mondo.

Poi con il tempo entrambi si erano un po’ allontanati, non tanto da quei valori rimasti loro molto cari, quanto da certe opportunità loro offerte, utili per fare un ulteriore cammino.

- Fu assolutamente casuale; quella domenica durante la Messa, nel banco davanti capitò una famigliola composta da due figlioline accompagnate dai genitori una delle quali, la più piccola di circa sei anni, aveva riconoscibile la sindrome di Down.

A Livia le cascarono le braccia, avrebbe voluto scappare ma non osò, e anche Roberto era inquieto.

Fu tutto un susseguirsi di forti emozioni. Quella bambina, bellissima nonostante i lievi segni della sindrome, si girò più volte indietro guardando soprattutto Livia, sorridendo continuamente e tendendo la mano per toccare i lacci della sua borsa.

I suoi genitori, ancor giovani, si scusarono sottovoce per il disturbo arrecato, ma i loro sguardi non erano troppo dispiaciuti ed erano luminosi; guardavano compiaciuti le due bambine vestite a festa e sembravano felici.

Livia non si sentì di fare la Comunione, non era in pace con se stessa, perché tra qualche giorno avrebbe abbandonato la propria creatura. Roberto invece se ne accostò. Le avrebbe spiegato più tardi che considerava l’Eucarestia come medicina per i malati, non per i sani. In proposito aveva letto un libro di un popolare predicatore e teologo.

All’uscita, sul sagrato della chiesa, la bambina che come seppero dopo si chiamava Gianna, inaspettatamente si gettò nelle braccia della donna e le schioccò un bacio umido sulla guancia.

I due si scusarono di nuovo. – ... no, no, per carità... è così cara... –

Roberto e Livia i cui volti ombreggiati tradivano poca voglia di chiaccherare fecero per affrettare il passo ma, dovendo fare un tratto di viale insieme fino al parcheggio, fu inevitabile scambiare qualche parola con i due giovani genitori. I quattro figlioli intanto, senza mettere tempo in mezzo stavano già legando tra di loro, volteggiando intorno e correndo.

– ... ma lei è il Ciolini, il capo della Giraldi & Co... se non mi sbaglio... – ... sì, sono io... e lei chi è?... – non si ricorda?... sono il chimico della Dye-Fin, la ditta fornitrice del follante... – ... sì, mi scusi... non ho tanta memoria fotografica... –

Nel frattempo anche Livia stava scambiando qualche parola con quella mamma che si chiamava Antonia. Seppe che Gianna non fosse loro figlia naturale, ma adottata.

– ... adottata?... ma... mi scusi... non... – ... non si preoccupi... capisco quello che vuol dire... anche i nostri parenti sono rimasti... diciamo, perplessi... – Aggiunse in breve che l’avevano presa nata da pochi giorni.

Si salutarono affabilmente ma, appena saliti in macchina Livia, appena fu sicura di non essere vista da nessuno, cominciò a piangere silenziosamente.

Roberto non disse nulla; capiva benissimo che cosa le stringeva il cuore. Si limitò a sfiorarle la mano e poi ad accarezzarle il ginocchio; spesso erano sufficienti gesti semplici per capirsi.

Livia trascorse tra continui sobbalzi umorali e crisi di sconforto quella settimana.

- Roberto si rifugiò nel lavoro; senza rendersene conto tendeva a fare molte ore e tornare tardi a casa sperando di trovare la moglie già a letto; si doleva di doverla guardare negli occhi.

D’altra parte c’erano molte pezze campioni da rifinire. La collezione era andata bene, aldilà delle più rosee previsioni, non soltando per gli uniti che, da sempre erano il punto di forza del lanificio, ma per la prima volta da anni in modo così massiccio, per i tinti in filo.

A Premiere Vision appena terminata, erano piaciute le giacche a fili doppi ad imitazione del lambswool biellese, fatte con lo stesso nuovo filato della flanella più fine.

Però si stava presentando una problematica seria. Le relative miste, economiche perché di lana rigenerata e fatte con colori “in natura” contenevano spesso una parte poco solida. Durante la follatura “scaricavano” e le fantasie si sporcavano diventando impresentabili. Era un vero problema anzi, dopo le prime pezze rovinate il problema diventò un vero dramma.

Il titolare andò su tutte le furie e se la rifece con il disegnatore il quale ributtò la colpa al tecnico responsabile degli acquisti.

Venne fuori che le due varianti per fare le “bandiere” erano, la prima fatta da una combinazione di bianco e nero, dove il nero era stato ottenuto tingendo uno “stame” rossino chiaro e comunque appena decolorato in vasca prima della tintura; la seconda variante, molto raffinata, era formata da un beige chiaro e da un cammello medio evidentemente abbastanza solidi. Nessuno capì bene perché i “fazzoletti” per ottenere lo sviluppo delle fantasie non avessero “scaricato” se non in misura minima.

– ... e ora icché si fa?... puttana miseria!... che figura di m... – Il furibondo Piero Giraldi non si teneva, faceva il fumo dagl’occhi.

- Gocciolino si ricordò allora del giovane chimico della Dye-Fin, incontrato appena tre giorni avanti in chiesa. Gli telefonò esponendogli la questione poi, pieno di speranza avendo sentito da lui di un innovativo prodotto, lo raggiunse al suo magazzino in via Galcianese. Quel chimico aveva anche qualche idea abbastanza chiara riguardo ai processi di nobilitazione.

In primo luogo sarebbe stato necessario lavorare quella qualità in un moderno Purgo-Fola di cui la rifinizione interna del lanificio non disponeva. In tale macchina un pre-lavaggio fatto a fondo avrebbe preceduto la fase di follatura, durante la quale quel nuovo prodotto “ferma-colore”, da dare insieme al prodotto follante si sarebbe dimostrato determinante.

Fu la salvezza. Quella combinazione di più accorgimenti riuscì ad ottenere il risultato desiderato.

Due giorni dopo il “dies irae” il temporale e i fulmini erano quasi cessati: – ... Gocciolinooo... tu m’hai salvato la vita... – Il Lastrucci passò dall’inferno al paradiso, o meglio al purgatorio; sì perché non la passò completamente liscia; gli ci volle del tempo per rientrare nelle grazie del titolare.

In quei due giorni il Ciolini ebbe modo di parlare spesso con Massimo, il chimico che si era dimostrato così provvidenziale e una volta il discorso cadde anche sulla bambina con la sindrome di Down.

Una cosa che Gocciolino non sapeva era che Gianna quando era stata adottata si trovava in un brefotrofio privato che raccoglieva neonati abbandonati, oppure neonati la cui mamma, per una ragione o per l’altra non si sentiva o non poteva tenere il bambino.

Questo istituto del nord che solitamente navigava in cattive acque, recentemente era stato finanziato dal Movimento per la Vita: – ... è nato un anno fa questo movimento... – fece Massimo per rispondere all’espressione interrogativa del follatore. – anch’io e Antonia collaboriamo con loro... sai, è un modo per ringraziare il Signore per il dono delle nostre bambine... sì... anche per Gianna... lei è un dono speciale... –

Poi, vedendolo così attento, continuò: – ... leggemmo sul giornale del ritrovamento di una bambina appena nata in un cassonetto a Brescia. Lì Antonia ha una zia che, sentita per telefono aggiunse che si trattava di una bambina affetta da sindrome di Down... ha un cognato in quell’ospedale dove l’avevano ricoverata... –

Disse poi che loro da tempo volevano adottare un bambino ma non si decidevano. Ma la stessa sera, precisò, avendo sentito quel particolare si erano emozionati.

Per ore ed ore lui e Antonia quella notte parlarono a lungo: – ... ci sembrò come se la Provvidenza ci avesse mandato un messaggio... sì era proprio un messaggio d’amore... –

Due giorni dopo erano in viaggio. La bambina era sana ed era già stata trasferita nel brefotrofio.

– ... fu davvero amore a prima vista... un’infermiera le aveva messo nome Gianna... –

- Lui e Livia anche quella notte non riuscirono a dormire o quasi. Si addormentarono alle prime luci dell’alba dopo aver fatto all’amore.

Il loro cuore traboccava di gioia. Più tardi avrebbero telefonato al “Misericordia e Dolce” per annullare l’intervento abortivo. Aveva vinto la vita.

fine

MUSCIATTINO E I GLIFI

MUSCIATTINO E I GLIFI – racconto breve –

 PORTALE LATERALE PRATO

 – nooo ... guarda Maurino... alzati un po’ su’ pedali... così... morbido... sposta i’ baricentro all’indietro... così tu sei più stabile in discesa... vai... –

il Cecchino non si stancava di dargli i primi rudimenti da discesista. Scendevano dagli Acquiputoli e la strada era stretta, molto ripida e sconnessa: – ... ora facciamo raffreddare il cerchione e i tasselli... guarda... scendi a volo... guarda me, non ti fermare... –

Il Cecchino staccò il piede destro dall’attacco e passando sopra al sellino con la gamba, lo mise a terra insieme all’altro, continuando a correre a piedi mentre teneva la bici con la mano. L’altro, dopo un po’ d’incertezza lo imitò goffamente.

Scesero fianco a fianco corrucchiando e conducendo le bici a mano per qualche centinaio di metri.

Una strana coppia. L’apprendista ciclista era un disegnatore tessile, abituato a stare parecchio tempo alla scrivania o al massimo in piedi, e che non aveva mai fatto un’attività sportiva, tantomeno faticosa come quella; l’altro era un tessitore dallo sguardo strano e dalla voce stentorea, tarchiato e tutto muscoli che, una volta fermato il telaio a campioni, non faceva altro che correre.

Con quelle cosce spropositate, simili a due grossi prosciutti, le aveva provate tutte: la bici da strada, da montagna, corse lunghissime a piedi come la Firenze- Faenza, lo sci di fondo come la Marcialonga in Val di Fiemme.

Mauro Settesoldi in quel periodo andava spesso nel suo stanzone buio dove, nell’aria carica di afrori oleosi ondeggiava felicemente leggero il pulviscolo della peluia. I telai del Cecchino era antidiluviani, quasi da museo del tessuto, però per fare i provini dei cardati a fantasia andavano benissimo; le “licciate” era facili da montare e smontare e la macchina svelta a partire.

La Marisa era fatta su misura, pareva il Cecchino in gonnella; piccola, scattante, dal viso nonostante la mascella un po’ quadrata, espressivo e di un’empatica dolcezza, sempre disponibile. Non avendo figli e ormai di mezz’età avevano un canino che tenevano come un figliolo.

In quello stanzone avevano piazzato anche un grosso pallone da pugile ancorato al soffitto e al pavimento con una fune elestica. Così tra una prova e l’altra, mentre i due coniugi preparavano i cannelli dei colori richiesti e l’armatura, di quelle ancora con le rotelline di metallo, Mauro si infilava i guantoni e faceva un furioso corpo a corpo con quel pallone gonfiato.

Era nervoso, così in quel modo si spolmonava un po’ e si sfogava. II suo lavoro era complicato e in famiglia le cose non andavano bene.

- Con l’Ornella erano continui battibecchi; su tutto, proprio su tutto. Anche quella mattina lei aveva da ridire sul fatto che si interessava poco del figliolo: – ... eh... ma te un tu lo guardi mai... da’ professori ci vo sempre io... anche a i’ dopocresima mi tocca ad accompagnarcelo io... un tu ci tenevi tanto all’educazione da’ preti eh? ... lo vedi? un ti considera neanche... –

Si chetò un istante ma solo per riprendere fiato: – ... ma che c’hai l’amante in fabbrica?... o l’amante gli è quel bruttacchiolo di tessitore... tu se’ sempre in bicicletta con lui... eh!... ma un tu sarai miha anche finocchio eh?... – concluse la volgaretta con una risatina amara.

Se Mauro fosse stato gay, quel Cecchino con tre peli sul capo, di viso e occhi piccoli e quasi deformato da iper allenamento non sarebbe stato motivo di tentazione. Semmai il disegnatore era molto distratto dalla sua aiutante di sedici anni più giovane. Lei, ventenne appena uscita dal Buzzi era già fidanzata con un pistoiese, ma dava la sensazione, da qualche mezza parola, di non esserne proprio entusiasta. Certi suoi sguardi che si posavano velocissimi, la dolcezza di quegli occhi chiari e grandi, quella quotidiana presenza davanti alla sua scrivania non lo aiutavano certo a sopportare facilmente gli isterismi serali della moglie. Mauro tornava tutte le sere all’otto, ma praticamente con la testa continuava a lavorare anche a casa. Quel tipo di lavoro gli mangiava anche l’anima.

– ... oggi, lo sai? s’è fermata anche l’autoclave... e te un tu sei neanche tornato a desinare... l’ho dovuto chiamare da me il fontaniere... –

– ... Ornella, te l’ho detto... avevo i giapponesi di Takisada in fabbrica... ma come facevo a tornare, me lo dici? ... – ... e domani chi lo porta Mirko a Follonica alla gara di basket? eh? a me mi tocca...sempre a me... –

Arrivava la domenica e Mauro, esasperato, sentiva ineludibile la voglia di evadere; così andava volentieri con il Cecchino e altri due che lo portavano su e giù per i monti ad ammazzarsi di fatica in bicicletta. Ma la situazione in casa diventava sempre più pesante.

- L’Ornella, a parte il viaggio di nozze in crocera, era sempre stata una piaga fin dal primo anno di convivenza matrimoniale, mai contenta, ambiziosa; ma il disegnatore aveva sperato che migliorasse con il tempo. D’altra parte era una bellissima donna; alta, statuaria, con dei seni che erano una meraviglia. Scoprì presto che fosse una donna abbastanza vuota nonostante asserisse, poiché dipingeva ad acquarello dei motivi floreali, di avere interessi culturali.

Il suo babbo era un “impannatore” affermato, dettaglio che agli occhi del tecnico era apparso interessante, essendo la pittrice figlia unica.

Al Copernico tutti le avevano fatto la corte e quando era arrivato lui a conoscerla in senso biblico, non era più vergine, ma la cosa non lo aveva sorpreso più di tanto. Alla fine, circondato da un alone d’invidia da parte dei suoi coetanei l’Ornella toccò proprio a lui. L’aveva sposata dopo averla messa in cinta e il matrimonio officiato nella chiesa di Santa Cristina con il pranzo a seguire nell’omonima e vicina villa era stato all’altezza della nuova e ricca borghesia tessile pratese.

Adesso tuttavia le sue continue lamentele gli sembravano eccessive e sproporzionate; non capiva dove volesse arrivare. Poi un giorno seppe finalmente del fontaniere, quello che molto spesso veniva a ripararle l’autoclave difettosa.

Il fontaniere, o “trombaio” come si dice a Prato con voluta e maliziosa allusione, a dispetto dell’idea proletaria che la gente ha di questa categoria, aveva una grossa ditta con undici dipendenti che alimentava con chiacchierata abilità di milionarie commesse pubbliche. Possedeva una potente Audi, una bellissima casa in via della Torretta non lontano dalla villa del Palco e un’altra piccola villa in stile liberty a Forte dei Marmi. Mirko aveva undici anni quando, dopo qualche mese, i due coniugi arrivarono alla separazione consensuale, seguita a distanza di un anno dal divorzio.

- Nel mese di luglio del 1986, in una caldissima domenica di sole Mauro, non avendo più nessuno che avesse da borbottare alcunché per la sua insana passione partì con la sua Colnago in fibra di carbonio. Aveva intenzione di arrivare all’Abetone e ritorno: centoquarantaquattro chilometri.

Voleva misurarsi con una prova molto dura, ma da solo: “... tanto Mauro... – pensò tra sé crogiolandosi in una sorta di appagante autocommiserazione – ... se schianti nessuno ti rimpiange... neanche Mirko... e forse neanche Limberto –.

Era amareggiato; il ragazzo, ormai tredicenne, da quando si era accasato con la mamma nella bella casa alla Castellina, lo cercava poco.

Quel Limberto era il suo titolare; e in quei giorni con lui era in aperto dissidio. Gli stava contestando i primi sviluppi dell’imminente collezione invernale 1987-88. Dicevano, lui ma soprattutto i suoi due figli, che il pre-campionario si stesse rivelando un dejà-vu, privo di colore e, per giunta, senza abbastanza di quelle novità merceologiche di cui si parlava in giro. A Prato in quell’anno, i lanifici stavano provando infatti a metabolizzare la crisi causata dal forte calo di richiesta del cardato di lana, cimentandosi nell’utilizzo delle fibre aliene come il lino, la seta, il cotone.

- Cecchino e il suo gruppetto invece erano partiti due giorni prima per Arabba. Quella stessa mattina avrebbero partecipato alla “Maratona delle Dolomiti” una lunga classica che percorreva i luoghi più belli del mondo, in scenari mozzafiato intorno al massiccio del Sella e non solo. Avevano invitato a partecipare anche lui, ma inutilmente: – ... dai... vieni... ce la fai benissimo... non hai problemi... –

Lui aveva addotto problemi di lavoro che erano anche veri; era sotto collezione e in posizione psicologicamente difensiva a fronte dei continui e critici mugugni. Oltretutto, in mezzo a tanti ciclisti allenati di tutta Italia temeva di fare una figura mediocre. Del suo gruppo di amici era il più scarso; più volte in salita con loro si era sentito “al gancio”.

Però la grinta e la determinazione non gli facevano difetto, le stesse che aveva sempre messo nel lavoro. Già, il suo amato lavoro; gli aveva dato tante soddisfazioni in passato che adesso non valevano abbastanza per rassicurarlo nel momento presente.

Ogni sei mesi, da una vita, era come si ripetesse un vero e proprio esame, i cui esaminatori erano gli uomini stile e prodotto delle più importanti firme. Il tempo di respirare, sempre che fosse andato tutto bene, altrimenti si accumulavano tensioni e ripensamenti, e si ricominciava daccapo con le informazioni, le fiere, la progettazione, lo sviluppo delle nuove idee per la sfida successiva.

– ... ma guarda quei due cretinetti... l’ho visti ragazzini e ora si sentono dei gran stlisti... e invece un ci capiscan nulla... – rimuginava mentre, le mani ben afferrate alle leve, pedalava deciso per quella bella strada di montagna, fresca e ombrosa e circondata di alti e profumati boschi di conifere. Quando arrivò alle “Regine”, a tre chilometri dal traguardo, si sentì sollevato; era felice di avercela fatta senza eccessivi affanni.

Dopo un ricco spuntino al fresco nei pressi della “Piramide”, prese la strada del ritorno. La strada inversa, con tutta quella salita già nelle gambe non sarebbe stata una passeggiata; il caldo si faceva sentire anche a quelle quote e c’era da salire il “Mammiano” e poi l’”Oppio” dalla parte di San Marcello.

- Arrivato ormai in fondo alle “Piastre” era stremato, ma contento. Dopotutto era un ciclista della domenica che aveva iniziato con le due ruote soltanto da tre anni. Si rilassò pensando alla doccia che lo aspettava a casa.

Sì, era quasi vuota ma era ancora la sua casa di Via Pasquetti, a Mezzana; non essendo stati in comunione dei beni era ritornata a lui dopo una parentesi di pochi mesi trascorsi da mamma Elvira. Ornella, risposata con il “trombaio” aveva fatto finalmente il suo trionfale ingresso in quella villa immersa tra olivi e cipressi digradanti da Filettole.

Per qualche istante gli venne in mente Marzia e si sentì intenerito. Da un mese lei si era lasciata dal pistoiese: - ... ha fatto bene... dimmi te icché ci po’ esser di bono in un pistoiese... – chiosò tra sé sorridendo.

Era vero che ci fossero sedici anni di differenza, ma lui si sentiva fisicamente in forma, era capace di intrattenersi con brillantezza con qualsiasi interlocutore e, la cosa più importante, gli pareva di essere in grado di far davvero felice una donna. Si erano parlati e anche qualcosa in più. Una sera di pochi giorni prima l’aveva portata a Legri alla Festa dell’Unità. Avevano parlato e parlato, non di lavoro, e al ritorno si erano sfiorati con un bacio sulle labbra prima che scendesse dalla macchina; nulla di che, ma quel gesto gli era sembrato somigliasse in qualche modo a una promessa.

Così, in quello stato d’animo, parendogli di sentire ancora il profumo di quelle labbra giovani e così ben disegnate, fin troppo intenerito e rilassato affrontò uno degli ultimi curvoni in modo troppo disinvolto, appena dopo il bivio per Campiglio.

Una grossa macchia d’olio lasciata lì, chissà da un vecchio camion, gli fu fatale. Non fece a tempo a scansarla. La botta fu tremenda, come una forte martellata sull’anca sinistra. Andò anche troppo bene: la macchina che veniva subito dietro si bloccò senza investirlo e lo soccorse chiamando subito l’ambulanza della Croce Verde.

Trascorse così, tra radiografie e ingessatura una settimana all’ospedale di Pistoia. Era stato ingessato in maniera molto invasiva, dal torace fino alla caviglia. L’acetabolo, cioè l’osso che contiene la palla del femore, rotto in varie parti ma composto, avrebbe avuto bisogno di un mese di immobilità assoluta che Mauro trascorse a letto nella sua casa vuota, quasi sempre da solo.

A parte una donna a ore e salvo la rapida visita giornaliera dell’aiuto tecnico, non la “tennichina” come avrebbe sperato, ma quello più anziano che veniva a sottoporgli i campioni usciti dal telaio e gli studi ancora da completare.

E salvo per fortuna anche lo sporadico pellegrinaggio di alcuni amici, compreso il Cecchino che, entrando in camera, sorridevano scuotendo il capo, in segno di compatimento e di ironica commiserazione.

Altre settimane, fin quasi alla fine di agosto gli occorsero per le cure fisiche, cosicché quando in fabbrica riprese in pieno il lavoro e alla fiera di fine settembre non sarebbe mancato molto, Mauro era ancora frustrato e arrabbiato con se stesso.

- In agosto e anche dall’ospedale, aveva cercato più volte Marzia per telefono, ma non si era fatta mai trovare. La trovò soltanto la volta che sarebbe stata l’ultima quando, con un fil di voce lo fece rimanere di sasso: – ... Mauro, mi dispiace... l’ho già comunicato al titolare... ho trovato un altro lavoro... non ci rivedremo... non è il caso... – ... Marzia... come mai... ti ho fatto qualcosa?... – ... non mi hai fatto nulla Mauro... sei molto caro... ma non è il caso... non mi cercare... ciao... –

Riattaccò e in seguito nessuno seppe dirgli dove avesse trovato da lavorare. L’aspettò senza successo più volte sotto casa sua dove l’aveva accompagnata quell’indimenticata sera di Legri, fino a che prese coraggio e salì al piano dove sapeva fosse l’appartamento. Rimase sconvolto quando l’uomo che venne ad aprire gli disse che la famiglia Luccianti si era trasferita da pochi giorni, ma non sapeva dove, e che lui era il nuovo affittuario. Non la cercò più.

La collezione a ”Premiere Vision” andò molto male e l’acetabolo continuava a dolergli. Mirko non voleva venire quasi mai a passare il fine settimana con il babbo e lui non volle forzarlo. In tre mesi era ingrassato di dieci chili e la bicicletta non l’attirava più come una volta.

- Una mattina il signor Limberto lo chiamò: – ... vedi Mauro, il lavoro ora c’è... va tanto la flanella, ma certamente non grazie alla collezione... lo vedi, le pezze campioni non arrivano... –

Gli fece capire che il suo stipendio fosse troppo alto ormai per quella ditta. Poi esitò un istante, per lui non era facile arrivare alla conclusione. Mauro era lì da dodici anni, insieme avevano vissuto momenti anche esaltanti, ma i suoi figli lo avevano convinto: – ... Mauro... non hai certo nessun problema a trovare un lanificio valido che sia alla tua altezza... –

Rimase scioccato; gli ci volle un giorno intero per realizzare di essere stato liquidato; non se l’aspettava. Fu l’ennesima goccia traboccante il vaso già pieno. Gli dettero alcune settimane di tempo per sistemarsi ma il morale gli era scivolato fin sotto i tacchi anzi, diceva a se stesso di sentirsi proprio uno schifo.

Quelle settimane passarono presto senza aver trovato nulla di buono. Si sentiva sempre più come avvolto di un sottile mantello intessuto d’ansia e di delusione, e pervaso da profonda stanchezza fisica e mentale. Non erano davvero i problemi economici che lo preoccupavano, era il suo ego ferito e sanguinante che lo faceva star male. Aveva fallito in tutto.

Ben presto si trovò all’imboccatura dell’oscuro tunnel dell’esaurimento nervoso. A niente valevano le telefonate e le visite del Cecchino; anzi gli davano fastidio e alla bicicletta non ci pensava più. Un passo ancora e quel tunnel lo avrebbe fagocitato.

- Verso le dieci di una giornata ancora tiepida di ottobre, con le mani in tasca e con l’aria di uno che non avesse niente da fare, vagava per il centro di Prato.

La buonuscita da dirigente era stata buona, tuttavia era ancora un disoccupato e come tale si sentiva, pur avendo rigettato alcune opportunità che non gli erano sembrate consone all’idea che aveva della propria professionalità.

La notte era diventata complicata; preso dai suoi fantasmi non riusciva a prender sonno e si svegliava spesso, così quella sera aveva preso una dose più forte di sonnifero.

Era ancora un po’ annebbiato, e non ricordava bene perché si trovasse lì in piedi sugli scalini sotto al pulpito di Donatello; ma quando le sinapsi cominciarono a funzionare il viso gli si illuminò: – ... ah sì... già... che bischero... i simboli... la macchia sul marmo... –

Qualche notte precedente, per riprendere sonno si era messo a sfogliare senza entusiasmo un sottile libro ma riccamente rilegato in doppia copertina, un omaggio della banca. “I simboli, i misteri, la storia e le leggende del Duomo di Prato” ne era il titolo. Ma poi, cominciando a leggere qualche descrizione si era un po’ incuriosito, soprattutto della storia di Musciattino.

Quella mattina, al risveglio, palpebre tuttora mezze chiuse, lo sguardo si era posato incidentalmente di nuovo su quel libro, lasciato sul comodino. Dopo una mezz’oretta, ancora con la tazza di caffélatte in mano sbottò: – ... fanculo il lavoro... fanculo Limberto... fanculo tutti... –

Gli era scattata, chissà per quale meccanismo mentale, la voglia di andare in piazza Duomo.

- Adesso era lì davanti al portale. In vita sua ci era passato davanti mille volte, eppure non ci aveva mai fatto caso veramente. Quel libro ne spiegava molte cose che ora faceva fatica a ricordare:

– ... accidenti... ma perché un l’ho portato con me?... –

Gli era rimasto in mente soltanto il fatto che il secondo portale del fianco sud del Duomo avesse dato origine da tempo a molte suggestioni, leggende e misteri. In effetti quei chiari intarsi sulle due colonne di marmo verde di Figline erano singolari e suscitarono anche in lui, sul momento, stupore e curiosità. Pensò che sarebbe valsa la pena di fare un salto a casa per prenderlo, tanto era in bicicletta, quella da passeggio. L’altra, quella da corsa in carbonio, era appesa tristemente ad un gancio nel suo garage.

Ma prima appuntò lo sguardo in alto per trovare quella macchia rossa, e questo se lo ricordava, che avrebbe dovuto trovarsi nell’angolo sinistro, sotto l’architrave. E la vide; quell’arrossamento sul marmo bianco c’era davvero.

- Dopo mezz’ora era già di ritorno con il libro dentro uno zainetto ma, mentre si accingeva a consultarlo avvertì con piacere quanto quella sfuriata sui pedali gli avesse fatto bene.

Dopo mesi di apatico intorpidimento aveva avvertito, come gli succedeva una volta, lo scorrere veloce del sangue, aveva sentito di nuovo aprirsi in pieno i polmoni, e perfino riconosciuto l’effetto sia pur minimo dell’endorfina, l’”ormone della felicità” come lo chiamava il Cecchino, prodotto nello sforzo aerobico.

Aprì il libro e vi lesse innanzitutto di Musciattino, secondo la cui leggenda quella macchia rossa non era altro che il sangue rappreso della sua mano mozzata. Era lui il ladro sacrilego che tentò di rubare, per conto dei pistoiesi, la preziosa reliquia della Sacra Cintola custodita gelosamente dai pratesi nel loro Duomo.

“Aprite, aprite pistolesi, che ho la Cintola de’ pratesi!”: queste erano state le sue ultime parole. Scoperto e riconosciuto, venne subito catturato dalle guardie pratesi, processato all’istante e condannato a un orribile supplizio. Poi una delle mani del ladro sarebbe stata gettata contro il muro del Duomo, e avrebbe lasciato quel segno rosso.

– ... i pistoiesi... sempre i pistoiesi nel mezzo... ladri di cintole e di cuori... – Con un po’ d’amaro in bocca Mauro sorrise della propria battuta, pensando a Marzia.

Poi vi lesse che gli intarsi in verticale lungo le due colonne, fossero segni di altissimo valore esoterico, rappresentando i “glifi” remoti da cui, si supponeva, ogni credenza avesse avuto origine. Volse allora il capo all’insù per confrontare quell’introduzione con gli intarsi, poi riaprì la pagina: “ ... il principe eterno luni-solare è chiaramente espresso dalle due stelle a otto punte rappresentanti i due astri alla maniera tradizionale: la luna più piccola a sinistra e il sole a destra... ”

A questo punto Mauro si grattò il capo: – il principe eterno luni-solare?... che vuol dire?... –

Quell’espressione gli parve oscura ma non così criptica come le parole successive: “ ... le otto punte sono legate all’influenza alchemica di Mercurio, essendo l’otto il suo numero sacro, determinato dalla fusione dei due elementi maschi e femmina nell’androgino mercuriale. Sotto la luna quindici simboli di natura palesemente fallica... ”

Il testo continuava menzionando Saturno, Venere, Giove e Urano e spiegava il valore dei numeri contenuti nei simboli e delle somme tra loro degli stessi numeri. Gli pareva tutto abbastanza affascinante ma molto, molto complicato.

A quel punto Mauro, stanco, entrò nella cattedrale e si mise a sedere davanti alla cancellata della “Sacra Cintola”. Era confuso, non capiva come mai avesse provato e provasse tuttora quella strana attrazione verso il portale e le sue lapidarie figure che il testo chiamava “glifi”.

Alzò il capo verso la “Madonna con Bambino” del Pisano. Una lama di luce intensa ne metteva in risalto il sorriso mite e la singolare postura. Da ragazzino, mamma Elvira lo portava spesso a dire un “Ave Maria” davanti alla Cintola; si sentì contento di trovarsi lì, non gli succedeva da molti anni.

- D’un tratto si accomodò proprio accanto a lui, pur essendo libera un’altra panca, un signore anziano.

– ... mi perdoni signore... mi rendo conto di apparire importuno... – ... prego... mi dica... –

Mauro, scostandosi appena per poterlo guardare in viso, non nascose la sorpresa per quell’approccio. Era un bel vecchio con ancora tanti capelli completamente bianchi e insolitamente ricciuti. Gli occhi chiari che nonostante le spesse lenti gli luccicavano con particolare intensità, distoglievano l’attenzione dalle numerose e profonde rughe del viso.

– ... passo spesso da questa piazza... ho visto che guardava il portale... lo ha osservato a lungo... e che consultava un libro... mi dica... contiene delle spiegazioni sul portale?... – sì, certo... parla di quello... – ... mi perdoni di nuovo... vero che le persone anziane bisogna sopportarle?... – sorrise bonariamente guardandosi attorno: c’erano dei fedeli in piedi dietro di loro.

– ... mi consentirebbe di dargli un’occhiata?... – ... ma certo, si figuri... tenga... –

Lo sfogliò in poco tempo, leggendone a tratti alcune spiegazioni, mentre Mauro, perplesso, lo sbirciava sottecchi.

- Il vecchio chiuse il libro, poi si rivolse piano al disegnatore: – ... lo sa che lì dentro c’è scritto un sacco di balle, vero?... se vuole ne parliamo... – poi aggiunse ancora più sottovoce: – ... ma fuori... qui ho già chiacchierato abbastanza... – ... va bene... andiamo pure... – annuì Mauro.

Si presentò: – Sono un vecchio rompiscatole di professore di liceo... ho insegnato per tanti anni Storia e Filosofia al Cicognini... mi scuso ancora, ma non sono molti quelli che guardano con interesse quel portale, lo sa?... –

Mauro replicò dicendo che non aveva nulla di cui scusarsi: – ... io invece ho fatto il “Buzzi”. Non me ne pento, ma ho sempre avuto qualche interesse per l’arte e per la storia... s’intende ... da ignorante. Mi fa piacere sa?... parlare di queste cose. –

Propose al professore di andare dal “Betti” per un aperitivo. Passando scorse la sua bicicletta appoggiata alla cancellata del Palazzo Vescovile. – ... per fortuna non l’hanno ancora rubata... – pensò mentre l’allucchettava velocemente.

- Parlarono molto a lungo, per quasi due ore. Mauro si sentì riavere. Parlare di quelle cose lo rigenerava. Tuttavia, anche in quel contesto, una punta d’amaro sarcasmo ad un certo punto gli fece ugualmente capolino: – ... ma icché avrò io... che le mi spariscon tutte dalla circolazione... –

Infatti, durante gli ultimi due anni del Buzzi e in parte anche dopo, andava spesso a Firenze per musei e chiese antiche in compagnia di Valeria, una ragazza che gli piaceva molto. Anche lei però, con dispiacere, era scomparsa dal suo giro per vari motivi.

In tutti i casi gli era rimasta la consuetudine di osservare con un certo approccio contempativo le cose belle, specialmente quelle antiche, ovunque si fosse trovato, anche per lavoro: a Parigi, a Colonia, piuttosto che a Londra, appena ne avesse avuto il tempo e la possibilità.

Il professor Marchi, originario di Firenze ma pratese di adozione non si era mai sposato. Disse sorridendo che aveva sposato la scuola e la cultura. Gli spiegò che tutti quei discorsi che aveva letto tutto d’un fiato nella pubblicazione bancaria, fossero in gran parte delle superstiziose fandonie.

– ... quei glifi hanno un grande valore culturale e storico; sono come “una scrittura viva” ma sono semplicemente testi di teologia, alta teologia, magari riservata a una ristretta cerchia. I simboli rappresentati ai due lati del portale indicano la via, il percorso, per arrivare a Dio.
Vede Mauro... a sinistra, partendo dal basso verso l'alto, il percorso è guidato dalla Razionalità.

A destra, partendo sempre dal basso verso l'alto, il percorso è guidato  dallo Spirito Santo.... –

Il tecnico stava a sentire a bocca aperta; l’eloquio del vecchio professore era affascinante

- Aiutandosi con le foto pubblicate sul libretto di Mauro, gli fece osservare quanto, ogni simbolo, per la cui interpretazione fosse fondamentale anche l’analisi dei numeri, avesse un proprio significato in ordine al messaggio finale. – ... vede Mauro... gli elementi di tonalità scura rappresentano la Terra e quelli chiari il Cielo... –

I glifi sul lato sinistro del portale erano dominati dal numero cinque, numero considerato come simbolo della ricerca, l'essere umano consapevole di sé che continua a cercare; mentre il lato destro era dominato dal numero otto, numero che indica il percorso, il passaggio, la trasformazione.

Gli mostrò, tra le altre cose, che il primo disegno in basso a sinistra poteva essere la sezione  verticale  di una struttura immaginaria che si innalzasse verso l'alto, rappresentando in tal modo, mediante la razionalità, l'inizio del percorso dell’uomo dalla Terra verso il Cielo.

Poi gli indicò il primo disegno in basso a destra: – ... guardi... il cerchio tagliato dalla croce, invece, rappresenta l’equilibrio e l’ordine... –

Nel disegno soprastante, il cerchio interno indicava invece l’inizio della conversione spirituale. Dopo averli passati tutti in rassegna il Marchi si fermò qualche istante per sorseggiare il suo Campari Soda.

– ... Il messaggio allora direbbe che la razionalità possa e debba andare a braccetto con la fede, mi sembra di capire... – interloquì il tecnico disoccupato.

Gli occhi del vecchio professore si illuminarono: – ... certo, certo... è proprio così Mauro... la Chiesa d'altronde ha sempre affermato che attraverso la ragione si arriva anche alla dimostrazione  dell'esistenza di Dio.... è l’incontro tra l’intelligenza umana che è dono di Dio e il divino che dona la fede... –

Si era creata una certa empatia tra l’anziano studioso e Mauro Settesoldi, ma era abbastanza tardi, così si salutarono stringendosi la mano, ripromettendosi di incontrarsi di nuovo.

Il tecnico volava ritornando a casa, accumulando ancora una piccola dose di “endorfina”. Almeno per quella mattina aveva quasi dimenticato le sue frustrazioni.

- Circa un mese dopo era in trattativa con un noto lanificio ma non ne provava alcuna apprensione:

– ... loro son di braccino corto, si sa... anzi... lo sai icché... se un mi pigliano gli è quasi meglio... mi metto per conto mio e fo le consulenze esterne... –

Era un pezzo che ci pensava a prendere la partita IVA. Voleva avere più tempo libero per coltivare altri interessi che non fossero solo il lavoro, la collezione dei tessuti.

La prima chiacchierata con il professor Marchi gli aveva risvegliato un mondo che gli era un po’ appartenuto ma poi sopito da lungo tempo.

Lo aveva ancora frequentato; passava a prenderlo per portarlo a pranzo o a colazione, benché non mangiasse quasi nulla. Sentiva che quel vecchio potesse aiutarlo a considerare l’esistenza umana con sguardo diverso, mettendone i valori nel giusto ordine e a scoprirne il senso autentico.

A Mirko intanto aveva comprato una bici da corsa della sua misura, casco, montura e scarpette. Nonostante l’accanita contrarietà dell’Ornella era stata una mossa indovinata. Il ragazzo si appassionò, e al sabato veniva volentieri a Mezzana per pedalare con il babbo.

– ... va bene “tennico”... va bene... – Il Cecchino con un largo sorriso si volse all’indietro: “ ... credevo di ritrovarti più bolso dopo l’ingessatura e tutti questi mesi da vagabondo... vuol dire che t’hai i’ fisico bono ... –

In realtà Mauro, in solitaria, aveva ripreso la bicicletta da tre settimane e, piano piano, si era rifatto un po’ di fiato e di tono muscolare. Adesso aveva più tempo con le consulenze.

Si trovavano, dopo aver affrontato la dura salita di Sammommè, sulle prime rampe verso Pian di Giuliano e la mattinata era splendida. Il sole di fine novembre faceva risaltare i magnifici colori autunnali e tutt’intorno era una festa di gialli, ocra, rossi e aranci, verdi e sontuosi marroni.

– ... la vedi Cecchino tutta questa bellezza, questi colori... la senti quest’aria? ... – ... in do’ tu voi arrivare tennico con codesti discorsi?... – ... semplice... secondo te come l’ha fatto a venire? ... –

– ... boh... come sarebbe a dire? ... – ... questa bellezza l’ha creata Dio!... –

Poi lo affiancò mettendogli una mano sulla spalla: – ... oh la Marisa, che tu dici che tu se’ sempre innamorato come un ciuho in calore, chi l’ha creata?... eh?... l’ha creata Dio!... –

Il tessitore prima lo guardò perplesso ma poi sorrise sotto i baffi: – ... oh tennico... secondo me... quella botta la t’ha proprio rintronato... –

     fine

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