SLOT MACHINE

racconto breve

SLOT MACHINE

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... sei solo e, sotto la pioggia battente, fai con grinta la tortuosa e stretta salita da Tobbianella al passo degli Acquiputoli. Con sadica indifferenza avverti che i vecchi pneumatici aderiscono ben poco sulla viscida stradaccia, e sui tratti coperti di foglie secche e scivolose pigi al massimo. Vuoi smaltire la rabbia e qualcosa di più, ma non succede niente.

Hai ancora il nodo alla gola, anzi il nodo si stringe ancor di più come un cappio; senti dentro il vuoto completo, avverti che anche dopo la pazzia che ti cova in mente non starai meglio, ma non cambi idea.

Superato il passo, lanci la tua Golf a centotrenta sulla strada della Val di Bure, tagliando curve che, pur ampie, diventano incredibilmente strette; una velocità pazzesca, ma va bene così.

Sfiori due ignari ciclisti che, nonostante il freddo e la pioggia, stanno sbuffando e sudando in quella lunga salita.

L’odore della tua pelle e quello delle Lucky Strike miscelati insieme nell'abitacolo formano insieme un’aria vomitevole; non la sopporti, sei accaldato, il riscaldamento è violento. Fai scivolare il vetro del finestrino ma a metà della discesa s'inceppa; lanci urli blasfemi e versi disumani: – ... porca troia... porca puttana... ma perché?... – ma sai che non ti aiuteranno a scaricarti.

Poi uno schizzo di pioggia sporca uscito dalle ruote di un’altra macchina scansata per un pelo, ti schiaffeggia la barba incolta. Non hai preso il rasoio in mano da parecchi giorni.

– ... Piero... forse è un errore, sono in confusione... non sono più sicura... non chiamare, ci devo pensare... – le sue angosciate parole sussurrate al telefono ti hanno paralizzato, hanno fermato il mondo e non hai avuto neppure il tempo di chiederle alcunché. Non si fa trovare e non risponde da giorni.

Non vedi la curva, non la stai neanche guardando, per un pelo non investi un gruppetto che sbuca dal bosco; uno di loro ti lancia una bestemmia.

– ... fanculo!... ma che ci fanno con questo tempo... –

Adesso stacchi tutte e due le mani dal volante e chiudi gli occhi per qualche secondo. Riapri gli occhi prima dell’altra curva. Hai l'acceleratore a tavoletta. C’è ancora un’altra curva che non seguirai per sprofondare nel vuoto di una scarpata profonda; con un solo rammarico: ti manca la musica adatta.

– The doors – è questo che desiderano con dolorosa intensità tutte le fibre del tuo corpo, ma l’autoradio è fuori uso; e sei dentro la curva, sei la curva, stacchi piedi e mani da tutti i comandi; mandi un forte grido:

– … puttana miseria, ma… icché succede… s’è spento tutto... – non solo le luci, anche il joystik era insensibile nelle mani di Piero che non comandava più nulla; anzi, gli sembrava di non averlo neppure tra le mani. – Mario... Mariooooo… ma perché s’è spento tutto?… –

– non lo so che succede mannaggia… dev’essere un altro di quei black out del cavolo – mugolava Mario dall’altra parte della sala Slot, mentre inciampando in una sedia continuava ad imprecare: – non trovo le candele… eppure l’avevo messe qui…. –

Fuori, da come era scuro sembrava già notte, e all’interno ancor di più. Il pallido sole già al tramonto, era stato completamente sovrastato da enormi nembi neri, gonfiati ed espanti a vista d’occhio.

C’era anche un cinese di mezz’età che stava giocando nella sala, ad una slot machine poco distante. Lui, come altri cinesi di via Pistoiese era uno di quei clienti che facevano gola ai gestori delle sale giochi Slot & Vlt; ci passava molte ore lasciando spesso un bel po’ di quattrini. Il suo brontolio in mandarino durò più delle urla di Piero ma alla fine cessò, evidentemente rassegnato.

– Stavo prendendo delle curve da Dio… cazzo… s’è spento ogni ‘osa – aggiunse con una strana voce bassa e impastata Piero, mentre il gestore, intanto, riusciva ad accendere le due candele, tremolanti per gli spifferi gelidi che soffiavano a raffica dal portone socchiuso.

– Fuori intanto si era scatenata una bufera tremenda di pioggia mista a leggero nevischio, molto forte per essere ancora ai primi di novembre; i tuoni che rintronavano il locale e i lampi, anche prima del black out, avevano zittito i pochi avventori infreddoliti.

Era durato poco; dopo mezz’ora il temporale era cessato, era ritornata la luce e con essa la corrente ai giochi elettronici che si stavano rianimando come per magia.

– ... ma lo sai… – disse Piero con voce strascicata, pensando di rivolgersi a Mario che però, rinvoltato nel suo mantello cerato, era fuori della porta mentre cercava di spazzare via il fogliame secco dal marciapiede, e non sentiva: –… mi pareva proprio d’esserci… guarda… sono ancora sudato –

Vide che il gestore era lontano, allora si rivolse a voce alta al cinese che nel frattempo aveva già fatto ripartire il suo gioco: – questo videogioco novo gliè una bomba… sembra tutto reale... è una bomba! –

Poi, come avesse avvertito all’improvviso una gran pesantezza addosso, aggiunse in un soffio:  – … ma lei non c’era… –

L’asiatico, che non capiva, gli lanciò appena uno sguardo interrogativo. Piero Dabizzi gli si avvicinò barcollando per dare un’occhiata; vide che il cinese premeva convulsamente un tasto e aspettava, premeva il solito tasto e aspettava. La serie di rulli e di auto rally utilizzate come simboli allineati, creavano delle combinazioni. Poi riguardò la sua postazione; non c’era più il joystick, ma un semplice pulsante.

– Piero era frastornato, uscì dal locale e si accese una sigaretta. Ripensò a quelle curve che gli erano sembrate vere. Si fermò all’angolo con via Bonicoli e, incurante del traffico serale e di ciò che girava intorno a lui, si mise a sedere su di un umido muricciolo con il cappuccio del giubbotto in testa.

ll cielo era tornato chiaro con un filo di viola all’orizzonte e cosparso di nubi sfilacciate; il tempo si era sfogato.

Stette lì seduto al freddo come uno scemo per una buona mezz’ora; poi rabbrividì, sentiva che stava bruciando per la febbre. Abitava non lontano; finalmente si alzò e si trascinò faticosamente fino alla porta di casa. All’improvviso rabbuiò davvero; le giornate di novembre, con l’avvento dell’ora solare finivano molto presto.

Viveva solo, aveva trent’anni ma si sentiva già vecchio. La testa gli scoppiava e non aveva fame, anzi aveva voglia di vomitare ma senza gli venisse alcunché: – ... ma icché mi succede? ... – Trascorse tutta la notte tra il letto e il bagno, una notte quasi insonne e quando riusciva a chiudere gli occhi veniva assalito da visioni spaventevoli di incidenti, di lamenti e di morti. Era davvero una grossa sbornia quella che aveva preso a forza di grappini alla pera e di vodka ghiacciata Keglevich.

– Al mattino, era sabato e l’orditoio quel giorno era fermo perché non c’era abbastanza lavoro, rimase a letto; riuscì finalmente ad infilare qualche ora di sonno. Quando si alzò erano le undici passate. Si dette subito un’occhiata allo specchio: – ... son proprio un cencio... fo schifo... –

Poi, seduto di nuovo sul letto trasalì un po’; il ricordo della serata trascorsa via via si faceva sempre meno nebbioso. Realizzò che nel bar di Mario non ci fosse mai stato nessun videogioco; c’erano invece le slot, le macchine mangiasoldi adesso anche in versione Vlt. Si rendeva conto da tempo che anche lui era preda di quella dipendenza: – ... accidenti, mi devo staccare da quelle macchine... ma non ci riesco... –

Era stato il vero motivo che aveva fatto allontanare Cristina. Lei gli voleva bene ma aveva la testa sulle spalle e già da tempo lo aveva avvertito: – ... se non smetti... mi dispiace Piero... non me la sento più... – Poi una sera si era messa a piangere: – che futuro ci può essere... pensavo che tu potessi farcela... – Un altro giorno gli aveva fatto un discorso strano: – ... qualche volta ci rimetto le penne per te... ma che te lo meriti?... eh?... –

Tuttavia la sera precedente gli era sembrato davvero di star scendendo come un pazzo dalla Cascina di Spedaletto – ... quel videogioco... era talmente reale... boh... e invece non c’è nessun videogioco... stavo solo schiacciando un pulsante... –

– Scese, era una bella giornata luminosa. Da Mario prese un cappuccino, la febbre era sparita e, incollati alle macchinette c’erano già i cinesi ipnotizzati dai rulli girevoli con le immagini impazzite. Li guardò, gli fecero pena, come si faceva pena per se stesso. Ognuno di loro si stava auto ingannando; una parte del loro cervello sapeva che alla fine avrebbe sempre perso; ognuno di loro aveva il proprio slot preferito, la propria grafica preferita, quasi una variabile di un misterioso e diabolico antropomorfismo. Anche Piero lo sapeva, non tanto vagamente lo aveva sempre intuito, ma l’attrazione del gioco era potente.

Uscì e corse alla macchina con la sigaretta in bocca; voleva scappare di lì, almeno quella mattina. Ma dopo pochi passi si fermò: – ... ma in dove sto andando... ma quale macchina?... – disse a voce alta con un sorriso amaro, facendo voltare un passante pensando che dicesse a lui. I fumi dell’alcol, a cui Piero non era abbastanza abituato, erano finalmente scomparsi del tutto e con loro la nebbia della ragione. Aveva cercato senza accorgesene, di rimuovere tutto.

La sua Golf si trovava al deposito dei vigili urbani di Pistoia e aveva una fiancata quasi distrutta. Anzi, avrebbe dovuto essere andato dai vigili, già da diversi giorni. Doveva firmare delle carte, ma non sapeva davvero come fare; c’era da pagare il costo del deposito, quello per il carro attrezzi e sicuramente anche una multa; un automobilista aveva visto quella macchina scendere ad una velocità incredibile. – ... e poi?... chi ce l’ha i soldi per accomodarla?... – Non aveva più un quattrino, l’aveva messi tutti in quelle macchinette elettroniche.

– La corsa a rotta di collo giù per la panoramica l’aveva fatta proprio la mattina di Tutti i Santi. La sera precedente, in trance alcolico e obnubilato dallo spasmo del gioco d’azzardo, l’aveva vissuta di nuovo. Si mise a ridere. – ... son proprio un bischero... non mi riesce neanche d’ammazzarmi... –

Oltre quella curva affrontata a mani sollevate dal volante, non c’era né una scarpata né un muro d’alberi; c’era un largo prato sconnesso e in salita e poi una fitta macchia fatta di rovi e d’arbusti. La corsa della Golf, ormai rallentata, era terminata contro i faggi che si ergevano subito dietro quella macchia.

Si era risvegliato stordito per una lieve commozione cerebrale e ammaccato, ma senza gravi conseguenze. La Croce Verde avvertita da qualcuno l’aveva trasportato velocemente all’ospedale San Jacopo, dove l’avevano tenuto due giorni in osservazione.

Quella mattina intanto, come cieco, incurante di sapere neppure dove fosse, aveva continuato a camminare. Come non vedesse null’altro, vedeva davanti a sé solo il suo futuro, un futuro nero e incerto. Fu pervaso da una tristezza infinita; aveva gli occhi umidi e gli venne in mente Cristina. – ... ormai l’ho persa... ormai l’ho persa... –

– Non si era reso conto che intanto erano già passate le tre del pomeriggio, quando sentì prima un brusìo, poi delle voci più forti: – ... guardate... che fumo... laggiù... – La gente indicava una colonna molto alta di fumo nero in direzione della Porta Pistoiese. Nell’aria si sentiva l’odore acre di bruciato e in lontananza il suono delle sirene dei pompieri.

Piero Dabizzi si scosse dai suoi pensieri; si trovava in Via Cesare Guasti davanti alla vetrina di un fornaio. Intorno a lui tanta gente per il consueto spasseggìo in centro del sabato.

Ebbe uno strano presentimento, come se quell’incendio in qualche modo lo riguardasse. Sentì il bisogno di tornare sui suoi passi; si incamminò ma una volta raggiunta piazza San Domenico si mise a correre.

La colonna di fumo e fiamme veniva proprio da Via Pistoiese; attraversò di corsa il semaforo con il rosso e in breve si trovò vicino all’incendio, ma non potè avvicinarsi, i carabinieri lo stavano impedendo a tutti. Capì subito che stava bruciando proprio il bar di Mario e le case appena adiacenti.

– ... ci son dei morti là dentro... almeno quattro... tre son cinesi... – Piero sentì con un tuffo al cuore quei discorsi; poteva trovarsi anche lui lì dentro: – ... ma come è successo?... – chiese angosciato ad uno che sembrava informato.

– ... parlano di una bomba incendiaria a tempo... – ... a tempo? ma icché vuol dire?... – sembra che l’abbiano messa stanotte... – spiegò quello che sapeva tutto. Un altro, da dietro sibilò: –... ve lo dico io... c’è di mezzo la n’drangheta... – Un uomo di mezz’età, anche lui sembrava uno che la sapesse lunga, accennò al fatto che in quel bar, forse protetto davvero da qualche cosca, le slot fossero completamente fuori norma, prive di autorizzazione e non collegate all’agenzia dei Monopoli.

E una donnina in tono acido aggiunse piano, ma non abbastanza: – ... comunque, meno male... son tutti cinesi quelli morti... – ... no... forse c’è anche il barista... come si chiama... Mario, il napoletano... – aggiunse un altro ancora.

Piero rimase sconvolto. Mario era simpatico e faceva di tutto per tenersi i clienti; raccontava perfino le barzellette in dialetto. – ... e poi icché c’entra?... cinesi o no, i morti son tutti uguali... – pensò girandosi accigliato verso quella donnetta.

– Poi volse lo sguardo dall’altra parte del cordone di sicurezza delimitato dai nastri bianco-arancio e la vide; era proprio lei. Cristina, rossa in viso discuteva animatamente con un carabiniere, il quale però la stava trattenendo per un braccio.

– ... Cristina!... Cristina!... – la chiamò forte ma non sentiva; la confusione era enorme e lei era ad una certa distanza. – ... ma icché la ci fa qui... – pensò, chiedendosi anche, meravigliato, di che cosa avesse mai da discutere con quel brigadiere. Allora prese a correre per raggiungerla. Le strade intorno erano state chiuse e c’era un certo tragitto da fare intorno all’isolato.

Non aveva ancora fatto in tempo ad arrivarle vicino, da dietro, quando Cristina, che pure non aveva una gran forza fisica, era riuscita d’un tratto a divincolarsi dalla stretta del brigadiere e, come una furia, aveva iniziato a correre verso la porta del bar vomitante fiamme paurose.

Il carabiniere, preso di sorpresa la rincorse, ma inciampò goffamente in un grosso idrante dei pompieri. Dietro di lui intanto, attraverso il varco lasciato libero, Piero si era lanciato in una folle corsa, come folle d’amore era il tentativo messo in atto di Cristina.

La raggiunse con un balzo facendola cadere per terra, appena prima che l’enorme vampata di calore dell’edificio in fiamme la potesse ustionare e uccidere. Quell’impatto le aveva fatto perdere i sensi; lui subito la sollevò, la prese in braccio e corse via lontano da quell’inferno.

– Piero si accucciò accanto alla lettiga, mentre l’ambulanza della Misericordia a sirena spiegata filava verso il Pronto Soccorso.

Cristina durante il tragitto riprese presto conoscenza; si guardarono, si spiegarono con gli occhi velati, poi piansero e si scambiarono umidi baci.

Il mondo per loro ricominciava a girare; nulla era perduto.

IL LADRO SENZA UNA GAMBA

 IL LADRO SENZA UNA GAMBA  – racconto breve     

GAMBA                                                                          

– Riccardo era polemico e scontento; non gli andava proprio giù di condividere il marciapiede con il suo vicino di negozio. – ... vieni a vedere, che macello... vieni a vedere... nella raccolta della plastica icchè ci mette... roba da pazzi –
Riccardo Scuffi era un negoziante storico di via Santa Trinita; da sempre vendeva belle scarpe, non tutte all’ultima moda, ma di buona qualità; tuttavia, da quando quell’accidente del Ricci aveva venduto la propria licenza di cartolibreria era cambiato tutto. Aveva affittato il suo fondo ad un ortolano cinese: – ... un cinese mi doveva capitare... della roba... certi carciofi strani... fanno paura a vederli... o i cavoli?... son grossi il doppio... –

– La Sandra non ne poteva più di quei discorsi: – ... oh... se un tu n’hai più voglia... oh affitta... fai come i’Ricci... e s’ha un’età che la sarebbe anche l’ora... –
Ma lui non ne voleva sapere, il negozio era sempre stato la sua vita. Ci teneva parecchio alle sue griffes; è vero che la vendita stentava: – Ma vuoi mettere la soddisfazione... il cliente che compra qui... un altr’anno ci ritorna! –
E poi raccontava volentieri dei suoi rapporti privilegiati con gli agenti delle grandi firme come Gucci o Prada. Ma Tod’s era il suo must: – in tribuna numerata son accanto a Diego... mi chiede spesso come vanno le vendite... sai... sono suo distributore da anni... –

– La blasonata squadra di Diego Del Monte non andava particolarmente bene, ma Riccardo aveva l’abbonamento e quando l’amaranta giocava in casa lui era lì. Poteva spendere quell’ostentazione con i suoi clienti e ciò gli valeva almeno quanto il margine troppo stretto sulle scarpe che non era tantissimo con tutte quelle rimanenze alla fine dell’anno.
Resisteva; non avevano figlioli e non avrebbe saputo cosa fare senza il suo negozio di lusso. L’aveva restaurato alla grande.

– La Sandra ogni tanto glielo rinfacciava: – ... tu c’hai speso un patrimonio Riccardo... oh che ne valeva la pena?... tu hai settantaquattro anni... oh un si poteva fare delle belle crocere e riposarsi... – facendolo incupire.
Non le rispondeva sempre ma ne risentiva, tenendosi il suo nervoso represso. Intuiva che alla lunga lei avesse ragione, ma non sopportava di sentirselo dire. Così la Sandra dopo essersi sfogata, per qualche settimana stava zitta.
L’aveva arredato in stile Art Deco, uno stile glam e opulento, ricercato e caro da morire.

– Un martedì mattina si era visto arrivare proprio il Del Monte; lui era a Prato per altri motivi così gli era venuta la curiosità di vedere l’esercizio commerciale del suo vicino di tribuna.
In effetti lo Scuffi fece un figurone. L’arredamento messo a punto da un mese appena era sfolgorante e di buon gusto: i montanti di ottone ad angoli stondati, i ripiani in spesso vetro, i due specchi antichi, certi elementi decorativi in verde acqua pastello che ricordavano i vecchi cinematografi; tutto l’insieme piacque molto anche allo stilista che lo accompagnava: – ... ma voi mettere la soddisfazione? – si gonfiò con la Sandra.

– Non era uno stupido lo Scuffi; queste cose le sapeva fare, ma il sorriso di soddisfazione gli si spengeva quando si affacciava sul marciapiede. Quel cinese proprio non riusciva a sopportarlo.
Ruì Chen non si era accorto di niente. Quasi ogni giorno, sorridente, salutava il vicino negoziante anche con un accenno di inchino, ricevendone in cambio un mezzo grugnito. D’altra parte, come spiegò un giorno alla signora Sandra, Ruì significa felicità. Non ambiva proprio a tanto, anche lui aveva i suoi problemi ma era abbastanza contento.

– La Massai in Scuffi, accompagnata dai brontolii di disapprovazione del marito, quella volta volle provare i piselli e i fagiolini; a vederli nella cesta non erano proprio brutti. Così si avventurò per la prima volta dentro all’ortofrutta.
La mattina di un tepore già da primavera avanzata era splendente e tersa. Due rondini fischiavano arrivando veloci e quasi in coppia da Piazza del Collegio. La nettezza urbana appena passata con i suoi camiocini rumorosi aveva restituito il giusto decoro alla via Santa Trinita, già di suo una delle vie più ordinate e piacevoli del centro cittadino.

– La Sandra aveva già preso e pagato il suo sacchetto di verdura al magro omino venuto dal lontano oriente quando, già sulla soglia dello stretto negozio le venne di dire: – ... venga anche lei a vedere che belle scarpe abbiamo signor Chen... –
Il signor Chen annuì con le mani giunte: – ... sì signola... vellò... – ma lo disse con un ombra di incertezza. Sicuramente per lui quelli erano oggetti troppo cari, ma non lo disse per riguardo.
– E infatti due giorni dopo si affacciò. Chiese di vedere dei sandali, quelli che aveva erano vecchi e laceri. Ne scelse un paio modesti ma robusti e di buona fattura e la Sandra, che in quel momento era sola in negozio, gli fece un prezzo molto scontato. L’opulenza dell’arredo e il brillìo degli specchi lo aveva fatto sentire subito in soggezione, ma lei lo aveva accolto con semplicità.

– Ruì Chen era già sul marciapiede con la scatola dei sandali quando Riccardo Scuffi entrò in negozio naturalmente notando, in mano al cinese, il sacchetto con il suo logo.
Aveva fatto una pausa per la consueta colazione di mezza mattinata. Era goloso della schiacciata ripiena dello storico bar Magnolfi e raramente ometteva di adempiere a quel rituale. E la Sandra non si risparmiava nel punzecchiarlo : – ... si può sapere quante colazioni tu fai?... guardati la camicia, come la ti tira... – e giù una risatina.
– ... Oh che!... allora fammi morire... piuttosto icchè tu gli hai venduto al cinese?... ma che ha pagato?... –

– Lei non gli rispose neppure. Non l’avrebbe fatto comunque, tantopiù che in quel momento stava entrando un cliente. Più tardi, Riccardo Scuffi stava rimettendo a posto alcune scatole negli splendidi scaffali e aggiustando la vetrina: – ... Sandra... non trovo la destra di questo quarantatre in vetrina... la vedi?... –
– ... no Rik... – era così che lo chiamava nei momenti di intima familiarità. – non la vedo... non c’è... –    - La scarpa, un modello nuovo di Gucci, non si trovava. Venne un cliente accompagnato dalla moglie, così dovettero interrompere la ricerca. Alla chiusura erano ormai sicuri, la scarpa era sparita.

– Quella notte lo Scuffi non si voleva addormentare e non fece dormire: non era tanto il valore in sé del paio di scarpe a bruciargli, quanto lo spregio subito: – ... un ladro... un ladro nel mio negozio. Lo sapevo... lo sapevo... quel... –  
– ... non lo dire eh... non lo dire!... lo so icchè tu pensi... ma ti pare che sia stato il cinese... non ci crederei neanche se lo vedessi... è un brav’uomo... non può essere... falla finita... – ribatteva, pur perplessa anche lei. –... ma poi... icchè ne faranno d’una scarpa sola... boh... –

- Si addormentarono tardi e al mattino, appena arrivati al negozio lo Scuffi prese la scarpa scompagnata e filò subito alla questura. Dal parcheggio in centro fino a Mezzana gli ci volle più di mezz’ora che passò come al solito ascoltando la radio, ma neppure il consueto ascolto del – Ruggito del Coniglio – gli era bastato per distendere i nervi. Fece regolare denuncia al brigadiere il quale, mentre gli veniva mostrata la scarpa orfana, lo aveva guardato con un mezza smorfia divertita; non gli era mai capitato un caso simile.

– In poco tempo la notizia si era diffusa; ne parlavano tutti in via Santa Trinita e lo seppe anche Ruì Chen.
Qualcuno trovò la cosa divertente; il proprietario di una bottega di telefonia poco distante volle fare lo spiritoso e si affacciò alla porta: – ... Riccardo... ma sei sicuro che non sia una nuova moda di Gucci... – ma non fece ridere i due coniugi. Mentre altri esercenti trovarono quel fatto preoccupante.
Chen invece nel pomeriggio, subito alla riapertura, entrò nel magnifico negozio arredato di Art Deco scusandosi: – signor Liccardo, io un’idea ce l’ho... –
– ... che cosa vuole... che idea?... – rispose sospettoso e lievemente scortese il pingue negoziante.

– Raccontò di aver visto passare, a volte, uno strano tipo con una gamba sola. Chen usava uscire spesso per ravversare le sue ceste di verdura fresca messe in mostra su dei cavalletti e aveva buona memoria.
Dubitava di un mendicante con delle vistose stampelle ascellari che transitava di lì per andare alla sua postazione davanti al negozio di – Mattonella – o davanti al portale della chiesa di San Francesco. Da questi ogni tanto si faceva derubare di qualche mela o di qualche arancia a seconda della stagione. Disse che gli faceva pena e che faceva finta di non vedere. Aggiunse che gli sembrava italiano o quantomeno non asiatico o africano e sulla quarantina d’anni.
Non che ne fosse certo, però aveva notato che, stranamente, avesse allungato più volte lo sguardo alla vetrina delle scarpe: – ... non va bene lubale scarpe di tlecento eulo... non va bene... non sono due mele... ma non sono siculo pelò!... –

– I due coniugi rimasero a bocca aperta; lo Scuffi non disse una parola, mentre la moglie, riavutasi anch’essa dalla sorpresa, si affrettò a ringraziare il signor Chen.
La polizia, informata del sospetto, non ci mise molto a rintracciare Gheorghe Costaniniu, un povero diavolo con una gamba sola senza fissa dimora. Gheorghe con la lussuosa scarpa destra allacciata al piede destro era stato colto in flagranza di reato.

– Gli avevano amputato la gamba in Romania all’età di quattordici anni, dopo che un’automobile lo aveva falciato mentre, sul marciapiede, stava andando a scuola. Era arrivato a Prato in cerca di fortuna disse, da otto anni, gli ultimi due dei quali, trascorsi alla – Dogaia –
In carcere dopotutto non si era trovato male, non gli era mancato niente. Adesso passava alcuni periodi nei pressi della stazione centrale ed altri, come recentemente stava facendo, nel centro cittadino. Ma la sua vecchia scarpa era sfondata da tempo e anche una delle stampelle aveva il supporto superiore quasi disfatto.
– ... Rik... lasciamo perdere... è davvero un poveraccio... vuoi essere da meno del signor Chen?... –

– Riccardo Scuffi si fece convincere dalla Sandra, ritirò la denuncia e a Gheorghe Costaniniu che venne poi preso in carico dall’assistenza sociale del comune, lasciò anche la scarpa.
La scarpa sinistra, di vera pelle color tabacco conciata alla perfezione e tomaia morbida e resistente marchiata a fuoco al di sotto con il famoso G di Gucci, la portò a casa sua la sera stessa. La mise in mostra sopra al suo efficiente e moderno camino, di quelli con il vetro davanti. Ogni tanto, riconoscente, le lanciava un’occhiata.

– E alle coppie di amici che venivano nella sua taverna per il burraco, non volle mai spiegare il significato di quella presenza insolita. La Sandra lo sapeva, ma seppe mantenere il segreto.   

                                                                         

ESPRIMERE DELLE EMOZIONI, VOGLIA DI RACCONTARE

Intervistatorel’aspirante scrittore in questione è un parrocchiano di Maliseti, Luciano Paoli, di età non più verde, che si è scoperto con la voglia di raccontare.

... qual è stata la molla che ti ha fatto venire questa, diciamo, vocazione?

Luciano Paoli: ... tre, quattro anni fa, i miei figli mi suggerirono di mettere nero su bianco le tante storie della nostra famiglia, specialmente le storie vecchie, quelle raccontate dai nonni, l’Adriana, l’Ida, Angiolino e Leonardo. Ne avevano sentite parecchie, specialmente dalle due nonne, narrate anche in modo buffo e singolare. Si sa che con il tempo le cose si dimenticano.

Mi misi all’opera ma non avevo mai fatto una cosa del genere. Terminai il lavoro divertendomi, non essendomi limitato a riportare in ordine cronologico e direi quasi storico, risalendo la data di nascita del nonno Luigi al 1876, quello che ci ricordavamo, ma chiedendo ancora notizie a parenti, andando a cercare tra carte vecchie, stornelli in rima baciata e lettere d’amore scritte da Venaria Reale con grafia ottocentesca.

Ne scaturì il libro intitolato:

– IL POMO E L’ORTO - Una catena di vita per cinque generazioni –

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/543992/il-pomo-e-lorto-10/

includendo nelle cinque generazioni i miei nonni e quelli della Carla, oltre s’intende, i nostri nipoti.

Ho fatto del mio meglio e, pur non avendo avuto pretese letterarie, e avvalendomi della sapiente consulenza di Carla Belli, quella fatica fu apprezzata dai familiari e anche fuori del cerchio familiare. Si sa come vanno queste cose; si comincia per scherzo... e si continua a scrivere ancora per scherzo. Scoprii però che trasmettere un’emozione agli altri raccontando delle storie, dava a me stesso la medesima emozione, e anche di più.

Quel lavoro servì molto a me e ai miei familiari, ma non credo, essendo autobiografico, che possa riscuotere molta attenzione tra i comuni lettori. 

Così, più di un anno dopo, decisi di scriverne un altro:

- NIRMAATA – Un pratese in India –

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/538115/nirmaata/

Intervistatore: ... che cosa vuol dire Nirmaata, e perché ambientato anche in India?

Luciano Paoli: ... questo libro parla di un tecnico, disegnatore tessile pratese, figura molto nota e importante per coloro che hanno vissuto nel mondo tessile di Prato, purtroppo adesso alle prese con una crisi strutturale, il quale, dopo una vita trascorsa in fabbrica, decide di fare lo stesso lavoro, ma girando il mondo, in particolare in India. Nirmaata in hindi vuol dire “creatore”, ed è così che gli indiani di Varanasi, chiamano il protagonista, autore molto creativo dei loro tessuti.

È un romanzo e, in quanto tale non è autobiografico, tuttavia si avvale di varie esperienze personali dell’autore, affini ma non uguali a quelle del protagonista. Penso che sia godibile per tutti, offrendo sia squarci pittoreschi e colorati della Grande Madre India, sia realistici di quella umanità complessa; ma è ancor più godibile per chi ha vissuto la tipica atmosfera tessile pratese degli anni ruggenti.

L’anno seguente è stata la volta di un romanzo storico:

– PER FILO E PER SEGNO – Vicende ottocentesche di Giovan Battista Mazzoni –

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/551167/per-filo-e-per-segno/

Intervistatore: ... perché hai scelto come protagonista proprio Giovan Battista Mazzoni?

Luciano Paoli: ... da sempre appassionato di storia in generale, ed anche di storia pratese, ho voluto, avvalendomi anche di personaggi, mero frutto di fantasia, ripercorrere la vicenda di un grande pratese, purtroppo non molto conosciuto perfino sulle sponde del Bisenzio, che ha contribuito in modo determinante allo sviluppo dell’industria tessile di Prato. Osservando più volte la sua lapide e quella della moglie Margherita nell’antica chiesina di Sant’Anna in Giolica, che ho modo di frequentare, cominciai ad occuparmene, leggendo la sua vita molto piena. Per questo motivo l’ho scelto come protagonista del romanzo; ho voluto rendere alla comunità pratese un servizio di verità storica.

La storia parte dall’Orto del Lupo dentro la cerchia muraria, luogo dell’infanzia del Mazzoni e del suo amico Ugo, si sviluppa in Francia al tempo dei cento giorni di Napoleone e ritorna nella città laniera, snodandosi tra i tanti fatti domestici e quotidiani e gli avvenimenti storici ben noti del Risorgimento italiano. Il romanzo parla molto di Prato ottocentesca, con i suoi antichi toponimi e le sue radici popolari; penso tuttavia che possa appassionare molti lettori soprattutto per le sue umanissime vicende.

Nel gennaio del 2021 un altro romanzo storico:

- ANDREA DI BANDINO GORI – Fatti e misfatti al tempo del Mercante di Prato –

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/578713/andrea-di-bandino-gori-5/

Intervistatore... il Datini invece non è sconosciuto; ci sono tante pubblicazioni storiche e divulgative, ci sono stati convegni importanti ed esiste addirittura l’Archivio Storico di Stato nel palazzo omonimo. Perché hai ricorso al Mercante di Prato?

Luciano Paoli: ... sì, il riferimento storico di questo romanzo è il mercante Francesco di Marco Datini, uomo famoso e ricco dell’epoca che però non compare questa volta al centro del racconto, bensì sullo sfondo della vicenda di un altro protagonista. Quindi il Datini mi è servito questa volta come pretesto e perno del racconto, però anche lui concorre nel romanzo in prima persona all’intreccio della storia. Una storia che si muove in scenari tra i più rappresentativi del millletrecento, tra Toscana, Provenza e Palestina, descrivendo varie vicende, alcune felici ed altre tragiche, altre perfino buffe vissute da Andrea di Bandino Gori.

Egli, personaggio emblematico di quel secolo, possedendone cultura e mentalità e abbracciandone sinceramente i valori morali e spirituali, è anche ricercatore inquieto e in questo senso moderno; fa delle domande di senso, le stesse di ogni uomo e di ogni tempo. In questo romanzo, dove intenso è il particolare fascino del secolo quattordicesimo, il lettore troverà molti risvolti appassionanti, a volte “noir”, che lo terranno legato all’intreccio, fino alla fine. Per contrasto troverà storie divertenti, quasi boccaccesche, all’epoca molto popolari.

Intervistatore... hai intenzione di scriverne altri e di che genere?

Sì, ne sto scrivendo un altro proprio in questi mesi, ma non ne voglio anticipare per ora il contenuto. Dirò solo che sarà ancora un romanzo storico, e che anche qui l’incipit narrativo, che ha il delicato compito di trattenere il lettore, sarà ambientato in terra pratese. Aggiungo soltanto che non mancheranno sorprese, proprio di nessun genere....   a presto.

 

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