1937 – AMBA ALAGI

1937 – AMBA ALAGI

AMBA ALAGI 2

     Nel ’30 avevo appena 14 anni, ma con quella peluria scura sul viso e specialmente sotto il naso che mi era spuntata, sembravo più grande dei miei coetanei. Il babbo che mi vedeva ormai cresciuto e robusto avrebbe voluto che lavorassi, perché già da tempo avevo finito la sesta.

Lui aveva perso il suo lavoro in fabbrica e non riusciva a trovarne un altro stabile. Diceva che la colpa fosse stata della Grande Depressione e che a Prato avevano chiuso molte aziende, compreso quella del Targetti dove il babbo faceva i turni alle filandre. Si contentava di essere chiamato saltuariamente a lavorare alle fornaci del Cappelli, una vitaccia; a volte a quella di Albiano e ogni tanto a quella di Javello, e tornava sfinito. Era un buon uomo, povero babbo Agostino e aveva da sfamare altri cinque figlioli: – Qui non ce la facciamo Lucia, se non dà un contributo anche Luigi… perché non vai a sentire all’appalto… magari hanno bisogno di un garzone.

Così ogni tanto glielo rammentava alla mamma, lei che era cugina del Belli. Lei stessa, nonostante quella mezza serqua di figlioli da governare faceva delle ore alla trattoria e fiaschetteria del Colzi, vicino a casa nostra. A quel tempo stavamo ad Amba Alagi, un gruppo di case, a sua volta, poco distante dal ponte di Bagnolo dove c’era il forno di quel parente.

 

     Io invece, durante tutto il giorno sparivo tra i bozzi e i canneti del torrente che scorreva sotto casa, i luoghi delle mie avventure e dei miei primi acerbissimi amori; Loretta aveva la mia età e, al fresco dei lavatoi, nelle ore bruciate quando non c’era nessuna donna a sbattere i panni di casa con la liscivia, mi insegnò lei a baciarsi in bocca. Sapeva sempre di mentine.

Ricordo bene anche quanto mi piacesse, risalendo il torrente, addentrarmi da solo nel verde; qui mi godevo la luce calda del pomeriggio che, sfilando tra i rami degli alberi, chiazzava il bosco di macchie luminose.

Infine il Belli mi prese con sé, ma mi faceva sgobbare non poco. Alla mattina dovevo presentarmi prestissimo; il forno, quando arrivavo ancora in preda al sonno era già ardente da un’ora o due. L’appalto alimentare faceva il pane per tutto Bagnolo ma, poiché quei filoni di pane avevano la nomea di non diventare né menci né duri per alcuni giorni, venivano anche dal Mulino o da Maliseti.

Quella che allora mi sembrava una vita sacrificata, più tardi, quando mi sarei ritrovato in mezzo all’orrore della guerra, me la sarei sognata come il paradiso. Chi se l’aspettava, cinque anni dopo,  uno schifo di quel genere?

 

     Eh già… lavoravo al forno da tre mesi e mi sentivo già grande dovendo consegnare con il triciclo il pane a destra e a manca, quando una sera afosa di fine luglio, eravamo tutti a prendere il fresco sotto gli alberi accanto al torrente, ed io di lì a poco sarei andato a letto dovendomi alzare alle cinque invidiando i fratelli minori che andavano ancora a scuola, già sbadigliando chiesi: – Oh mamma ! perché questo paese si chiama Ambalagi? –

Ricordo che mamma Lucia fece una risata: – Amb Alagi, no Ambalagi ! … gli è un posto dell’Abissinia… un posto dove c’è stata una gran battaglia tanti anni fa. – Ah!... e s’è vinta o persa la battaglia? –  Senti, un lo so Luigino... ho sonno come tu dovresti avere anche te…  e vo a letto. Voi piccini venite via, su… voi due state ancora qui?. – rispose la mamma alzandosi dalla sua seggiolina impagliata che portava sempre con sé e prendendo per la mano l’ultima nata.

Me ne ricordo come fossi ora. Il babbo che sedeva anche lui poco più in là con le gambe in aria appoggiate ad un platano mi guardò; sembrava un po’ divertito per quella mia curiosità, ma poi si fece serio. Disse che l’indomani mi avrebbe dato un vecchio giornale illustrato che parlava di quel fatto lontano: – Era di tuo nonno; lui c’era in Abissinia, lo sai?... per fortuna in quella battaglia non c’era… così potè tornare a casa vivo.

Poi fece silenzio e si accese una sigaretta, di quelle che faceva da sé con il sacchettino di tabacco. Il babbo mi voleva bene; ero il maschio più grande della famiglia, ma non era di molte parole, così mi avviai su per le scale anch’io fantasticando di quella battaglia.

Ecco, sarebbe stato meglio se quella sera non avessi avuto null’altro a cui pensare.

Il giorno seguente, al ritorno dal lavoro, sul letto che dividevo con i miei fratelli, gli altri due maschi,  trovai una vecchia Domenica del Corriere. La sfogliai subito avidamente, guardando quelle le illustrazioni colorate. Poi vi lessi l’articolo che rievocava l’eroica battaglia  del 1895 presso il monte Amba Alagi al confine tra Eritrea, già possesso italiano e l’Etiopia; battaglia epocale che, pur persa, metteva in rilievo il valore dei nostri soldati. Quelle figure eroiche, perfino il disegno raffigurante il temibile Ras Mekkonen sopra il suo cavallo che si impennava, mi esaltarono e rimasero impresse per giorni e poi per tanto tempo ancora.

Da allora, come se l’incontro con quelle illustrazioni avesse dato la stura al bisogno di allargare la mia conoscenza sul mondo e sulle cose, mi prese la voglia di leggere, all’inizio ancora riviste e poi anche qualche libro che don Arturo, il pievano della parrocchia di san Giovanni Decollato su alla Rocca, mi prestava volentieri. E il babbo che era quasi analfabeta annuiva contento quando mi vedeva interessato e intento, sia pur faticosamente, alla lettura.

Così, quando nel maggio del ‘35 venni chiamato in arruolamento per l’Africa orientale, risposi con entusiasmo alla chiamata del duce. Terzo Reggimento Bersaglieri, Battaglione Mitraglieri, Divisione Sabaudia. Della vita di fornaio ero anche un po’ pieno, ma non immaginavo certamente a che cosa sarei andato incontro, a quante sarebbero state le notti di trincea umida o di fortilizi pieni di zanzare che il bersagliere Luigi Calamai avrebbe avuto da trascorrere.

Povera mamma, quanto pianse quella mattina della partenza. Eravamo in sette tra Bagnolo e Montemurlo, tutti fieri e radiosi bersaglieri con le piume al vento. Prima che il legno partisse per la stazione, il ritrovo era davanti al vecchio Mulino, il babbo, senza dir nulla e senza lacrime, ma con gli occhi che gli brillavano, mi accarezzò una guancia con la sua mano callosa. Alla partenza era presente anche Loretta; anche lei era commossa. In occasione degli ultimi umidi baci, ai soliti lavatoi o al fruscio del canneto mosso dalla brezza leggera, ci eravamo detti che al mio ritorno, lei sarebbe stata mia per sempre.

 

     E pensare che all’inizio l’offensiva mi parve quasi una passeggiata. Durante i primi giorni non s’incontrò alcuna resistenza, se non qualche sporadico scontro a fuoco e, in appena tre giorni, giungemmo prima al villaggio di Adigrat e poi in quello più grosso di Adua. Quest’ultimo, come mi spiegarono, era stato teatro di una sanguinosa e importante battaglia alla fine dello scorso secolo.

Ero molto incuriosito da quei villaggi e da quei tucul fatti di paglia e fango; le donne etiopi avevano degli occhi molto belli e sorridenti.

Un artigliere fu sorpreso in un tucul mentre si divertiva con una nera. Il marito gli dette un colpo sulla testa e lo uccise, ma poi il nero, preso e trascinato al comando fu presto fucilato. Tuttavia, giorni dopo, pur ricordando con un po’ d’apprensione quell’evento, non potei fare a meno di notare, in mezzo ad altre donne che si recavano al pozzo, una snella giovanetta nera di circa quindici anni, forse anche meno. I suoi grandi occhi singolarmente azzurri chiari, inusuali per quella popolazione, parevano avere il potere di ipnotizzare chi la guardasse; insieme ai suoi capelli corti e crespi su un viso sottile e dolce ne facevano una vera bellezza. Passando con la pattuglia da lì mi soffermai per qualche istante ad ammirarla, e lei mi sorrise. Il giorno dopo il mio reparto dovette riprendere la marcia per Mahila, ma la visione del suo volto mi accompagnò per lungo tempo.

 

     A metà dicembre l’esercito degli etiopi entrò in contatto con alcuni nostri reparti lungo tutto il fiume, forzando i guadi fino a Macallé.

In quei giorni noi contavamo molto sull'ardimento dei nostri aviatori che, con l’uso del gas, facevano strage degli abissini permettendoci di avanzare, ma alla fine di quel mese, mentre a casa ricorrevano le feste natalizie ed io pensavo con tanta nostalgia ai miei, il mio battaglione ebbe il battesimo del primo scontro diretto con i soldati del ras Immirù.

Una sera loro vennero all’assalto, ed io come altri credetti di esserne presto travolto; venivano a piedi con un coraggio da leoni, incutendo paura. Durante la battaglia ormai corpo a corpo, gli ufficiali sparavano con le pistole e gli abissini contraccambiavano a colpi di scimitarra. Ma infine, per fortuna, loro essendo assai inferiori di numero furono sopraffatti. Quanto sangue!

Tornai anch’io con qualche ferita di poco conto al forte, ma più che altro ero stravolto per tutto quello che era successo e che succedeva intorno a me e dentro di me. Che ingenuità essersi fatto cullare per anni da quelle belle immagini; la realtà era tutt’altra. Le marce sfiancanti in assetto da guerra con zaini, cassette e mitraglie, l’inseguimento spesso subìto delle forze del Negus, la fame acuta e la paura, la guerriglia nelle retrovie che sorprendeva le nostre pattuglie isolate, riducendole a pezzi. Circondato da cadaveri ovunque e facendo finta di non sentire il puzzo orribile della carne in disfacimento mi toccò spesso sotterrare non so quanti corpi mutilati.

Un giorno successe che una banda di abissini prese due soldati del mio battaglione; tremai pensando a che razza di supplizio dovessero subire quei due poveri cristi. Dicevano che prima di ucciderli, gli avessero da tagliare i testicoli. Invece dell’eroica guerra che avevo vagheggiato, era una confusa guerra di spari, fatica e piccone. Quando non combattevamo, si dovevano costruire fortini e strade per consentire ai camion e ai carri armati di avanzare. Quando ripiegammo verso le linee fortificate di Axum, fummo impiegati a migliaia per rinforzarne le linee difensive.

In quei giorni di stallo, tra la popolazione civile dei villaggi serpeggiava un pesante clima di terrore. Il sospetto di presenza di spie o di presunti fiancheggiatori provocava l’arresto e l’uccisione di centinaia di persone. Ed era preso di mira in modo particolare il clero copto, ritenuto colpevole di aizzare la popolazione contro noi italiani. I copti erano cristiani e quel fatto mi addolorava.

Intanto i ripetuti bombardamenti aerei continuavano a contenere l’avanzata dei vari ras etiopici. Anche durante lo scontro decisivo a Mai Ceu, centinaia di quintali di bombe all'iprite, furono sganciate sulle colonne in rotta su cui, dai rilievi attorno, sia truppe regolari che “ascari” eritrei avevano sparato sui feriti e su coloro che rimanevano indietro.

Ebbi l’occasione io stesso di vedere l’effetto tremendo che quei gas avevano prodotto, e non solo sui soldati ma anche sui contadini, su donne e sui bambini; dolorosi effetti di piaghe agli occhi, agli intestini e alla pelle.

In patria, durante il periodo di addestramento, quando ancora fremevo impaziente di partire e seguendo la propaganda, anch’io usavo chiamare gli abissini selvaggi e barbari. Adesso, il dubbio che mi covava dentro era quale fosse dei due popoli quello più barbaro e selvaggio

 

     Intanto le truppe del Negus Hailé Selassié si stavano preparando ad isolare Macallé e a spezzare in due il nostro schieramento, ma il 20 gennaio il generale Badoglio attuò una riuscita manovra a tenaglia contro quelle truppe, fermandole.

Una mattina di febbraio ci dissero che le armate del ras Mulughietà, forti di circa 80 000 uomini, si sarebbero concentrate sull' Amba Alagi e che noi, con mezzi nettamente superiori saremmo andati a contrastarle. Ebbi un tuffo al cuore; mai avrei pensato di dover percorrere in assetto di guerra quella montagna, teatro di battaglia dello scontro perduto più di quaranta anni fa, ma ormai diventato leggenda, e che aveva dato il nome, chissà perché, alla mia sperduta borgata adagiata lungo il torrente Bagnolo.

Durante quella battaglia decisiva questa volta vinta, sparai così tanto che a sera la canna della mitragliatrice era più rovente, come mi venne da pensare con amara ironia, del fiammeggiante forno del Belli. Ma non era stata un’impresa facile; il giorno precedente, percorrendo una piccola pianura, avevamo subìto una fucileria così intensa da impedirci perfino di alzare la testa, tante erano le pallottole che ci fischiavano agli orecchi.

Quel giorno mi trovai a tu per tu con la morte. In quegli istanti tante immagini del mio breve passato mi passarono davanti agli occhi della mente; ricordo di essermi raccomandato con tutto il cuore anche alla Santa Croce, la reliquia tanto venerata da mamma Lucia.

Durante il corso della guerra, spesso mi rincuorava il ricordo di Loretta di cui rivivevo i freschi e prolungati baci; a Dio piacendo l’avrei riabbracciata alla fine del servizio militare. Ma insieme alla sua figura, ogni tanto faceva capolino anche l’immagine di quella faccetta nera vista per pochi istanti, quella dagli occhi chiari e grandi.

 

    L’armata del ras Mulughietà fu infine completamente annientata nel mese di marzo sull’Amba Radam ancora grazie al gas iprite rilasciato a bassa quota dall’aviazione, ed essendo la superiorità delle nostre forze ormai schiacciante. Al contrario tra le file etiopiche sembrava regnasse il caos più completo. 

In Aprile arrivò l'ordine ai primi contingenti di iniziare l'avanzata verso Addis Abeba; una sera attraversammo un boschetto dove l’artiglieria aveva sparato per due giorni di fila. Trovammo pile di morti alte un metro e anche un’infinità di feriti che si lamentavano tutta la notte con grida strazianti.

Il dodici aprile era Pasqua ma anche in quel giorno il rancio non arrivò. Quello era il ringraziamento per le nostre fatiche e privazioni. Alcuni dicevano che se il nostro amato duce avesse saputo come eravamo trattati male noi poveri militari in Africa, mentre gli ufficiali avevano sia il mangiare che il vino, avrebbe preso provvedimenti.

Nel mese di maggio la prima colonna motorizzata entrò trionfante nella capitale. Entrammo anche noi, ed io rimasi affascinato per la bellezza di quella città, una bellezza che non mi aspettavo; palazzi, caffè, trattorie, strade asfaltate quasi come in una delle nostre città.

Sapemmo che il cinque maggio Mussolini si fosse affacciato a Palazzo Venezia per annunciare la conquista di Addis Abeba da parte del generale Graziani e avesse proclamato la “fondazione” dell’Impero. Noi, credendo che fosse tutto finito, fummo contenti e fieri di far parte di un impero.

Invece non era finito niente, ancora violenza e tanta, fucilazioni di massa. I partigiani etiopi, gli Arbegnuocc attaccavano continuamente in qualunque occasione. Alla fine di ottobre i nostri apparecchi gettarono sui villaggi intorno alla capitale bombe che facevano venire la pelle d’oca; l’uso reiterato dei gas devastava foreste e villaggi uccidendo migliaia di persone.

Un giorno catturammo dei prigionieri, fra questi c’era un vescovo copto che fu subito passato per le armi.  Il vescovo era uno dei capi della resistenza ed io ne rimasi sconvolto. Un’altra volta prendemmo quattrocento prigionieri; anche questi furono tutti passati per le armi al campo d’aviazione. Nella capitale Graziani ordinò di reprimere e uccidere con ogni mezzo dissidenti e semplici sospetti, perfino i passanti per la strada che avessero un qualche motivo per sembrare persone ostili.

 

    Qualche settimana dopo, finalmente un po’ di divertimento; al campo sportivo si tennero gare di tiro alla fune, tornei di pallavolo e una partita di calcio tra noi Bersaglieri e la Fanteria. Io entrai nel secondo tempo e vincemmo noi 2 a 1, ma la sera stessa al ritorno dal campo la festa era belle e finita; gli abissini avevano ucciso un carabiniere a colpi di scimitarra. A fine novembre ci dissero che i Granatieri ci avrebbero dato il cambio entro Natale, ma io stentavo a crederci.

Dopo qualche giorno ci fecero fare le prove di ginnastica e di saggio ginnico per la sfilata davanti a Graziani dove io avrei dovuto far parte della piramide umana. Pensai che dopo tanti mesi da militare e di guerra  si dovessero fare ancora quelle bischerate.

Il giorno seguente, alla sfilata il viceré Graziani non ci fece neppure un applauso e tantomeno pronunciò un ringraziamento per tutto quello che s’era fatto; non spiccicò neppure una parola. Questo era il ringraziamento dopo venti mesi d’Africa.

Il nove dicembre del ’36 arrivarono davvero i primi scaglioni dei Granatieri. Era finita. Il ventotto, dopo due settimane di camion, arrivammo al Porto di Massaua, dove la sera stessa ci imbarcarono sul Tuscania destinazione Livorno.

 

    Da poche ore ero arrivato a casa, ma non nella stessa casa. Il legno che dalla stazione di Prato mi portava a Bagnolo pareva non arrivare mai; sapevo dall’ultima cartolina postale, ne avevo ricevute pochissime, di quel cambiamento e friggevo dall’impazienza. I miei durante la mia assenza si erano trasferiti alla Fattoria di Parugiano, poco lontano. Cercavano un uomo di fatica che prendesse il posto del vecchio Bessi, vedovo e, dicevano, morto di crepacuore per la perdita dei suoi due figli, l’uno poco più grande dell’altro. Mi ricordavo bene di loro, erano due ragazzi allegri e robusti e avevano fatto il tragitto insieme a me più di un anno e mezzo prima, dal Mulino fino alla stazione di Prato; entrambi erano deceduti già all’inizio della mia stessa guerra.

Babbo Agostino non ne poteva più delle fornaci e il lavoro nei campi come bracciante sarebbe stato più leggero dell’altro e poi l’uso della casa colonica dove avremmo abitato era inteso senza pigione. Era dispiaciuto a tutti lasciare le fresche d’estate sponde di quel torrente, quella borgata che ci aveva visto crescere noi ragazzi, ma tant’è.

Dopo gli abbracci e i baci e le lacrime di gioia, alla mamma quando mi vide comparire sulla porta le venne quasi un infarto, andai quasi subito ad Amba Alagi. Mi fece uno strano effetto pronunciare quelle parole; mi facevano rivivere sensazioni ancora troppo vive e recenti per essere dimenticate, ma in quel momento passavano in secondo piano. Mi batteva il cuore perché l’avrei finalmente rivista.

Durante la traversata non avevo fatto che pensarci:  – Loretta mi vorrà ancora bene?... come sarà diventata?... sicuro, ancora più bella… icchè la mi dirà vedendomi… –

Da lei nessuna cartolina postale, soltanto mamma Lucia che l’aveva vista andando alla fiaschetteria, mi aveva scritto dandomi sue vaghe notizie e portandomi un suo saluto. Tutto qui e mi pareva troppo poco.

La riconobbi da lontano; nonostante la giornata invernale ma assolata, era seduta sotto quel boschetto di platani dove tante volte con la mia famiglia avevo passato delle ore liete, e mi voltava la schiena. Accanto a lei, seduto anch’egli, un uomo in giacca di tweed inglese e cappello; pensai fosse un amico di famiglia. Mentre mi avvicinavo vidi che l’uomo le prendeva la mano portandosela alla bocca. Sentendo lo scricchiolio dei miei passi si voltarono entrambi; lui si alzò in piedi e si levò il cappello. Aveva dei bei baffi e poteva avere circa trent’anni. Loretta al vedermi sbiancò ma rimase a sedere. Non seppi che dire se non: – Buongiorno Loretta. – Lei, alzatosi, guardandomi fissa come fossi un fantasma esalò come un sussurro: – Luigi… – Capii tutto e fu come se il mondo stesse precipitando.

Lui si presentò; era il figlio del Cappelli, il padrone delle fonderie: – … lei è il suo amico d’infanzia credo, Loretta me ne ha parlato. – e fece un cenno come ad invitarmi benevolmente a sedere; intorno c’erano altre sedie disposte a semicerchio. Trovai la scusa che mi aspettavano presto a casa e che stavo andando alla fiaschetteria per del vino da tavola.

Credo da quel giorno di non averla più cercata. Tornato a casa la mamma comprese quello che era successo: – Te lo volevo dire… ma eri troppo contento e non ho avuto il coraggio. –

 

    Dopo due mesi, pur sapendo il dispiacere che avrei arrecato alla mamma ma anche a tutta la famiglia, firmai per tornare di nuovo in Africa. Cercai di dimenticare, insieme al tradimento di Loretta, tutti i morti, le miserie e le ingiustizie che avevo visto in quell’anno e mezzo di guerra; volevo a tutti i costi scappare da casa.

Un mese dopo ero di nuovo ad Addis Abeba, con il grado di sergente agli ordini del generale Petretti.

Prima del mio arrivo era successa una cosa gravissima; due giovani eritrei, durante una cerimonia, avevano lanciato due bombe a mano contro il viceré Graziani il quale, investito da una pioggia di schegge, era sopravvissuto. Era seguita una rappresaglia violentissima contro la popolazione, mai vista così violenta. La capitale era stata messa a ferro a fuoco anche da squadre di civili italiani armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovassero in strada per dare, come si diceva, una lezione ai negri. Graziani aveva ordinato di sterminare in modo particolare cantastorie, indovini e stregoni, sospettati di predicare contro l’occupazione italiana.

Poi, poiché si dubitava che gli attentatori si fossero nascosti nel monastero copto di Debra Libanos, chiunque fosse stato trovato lì dentro, monaci, pellegrini, e seminaristi, anche ragazzini giovanissimi, fu massacrato a colpi di mitragliatrice. I morti furono duemila. Le vittime, portate a gruppi di venti-trenta sull’orlo di un dirupo, venivano incappucciate e fatte inginocchiare l’una accanto all’altra.

– Bambini terrorizzati, tremanti, che piangevano e gridavano, perdendo il controllo di sfinteri e vescica. I monaci e i diaconi più grandi non potevano nemmeno abbracciarli, perché legati.

Da sotto il cappuccio, mormoravano parole di conforto, invitando i più piccoli a pregare, ma i ragazzini singhiozzavano, non ce la facevano... poi la raffica di piombo rovente bruciava la loro carne spengendo pianto e preghiera... le mitragliatrici spararono per cinque ore, quasi senza sosta. –

Chi mi raccontò tutto ciò fu un mio vecchio commilitone ai tempi della battaglia di Amba Alagi, il caporale Airoldi, ritrovato per caso nel mio stesso reparto. Lui era una persona diversa, con una coscienza e che vedeva le cose per quelle che erano e non attraverso la propaganda. Me lo raccontò piangendo senza farsi vedere da altri. Rimasi addolorato e impressionato. Pensai a che c...o avevo combinato tornando in Africa, ma ormai era fatta.

Dio volle che presto fossi assegnato ad un presidio presso il villaggio di Adua al confine con l’Eritrea, molto lontano dalla capitale. Sarebbe stato un viaggio di novecento chilometri, ma lo considerai come una mano tesa della provvidenza.

Quando arrivammo a destinazione, riconobbi il posto; sul momento non avevo associato quel nome a quel villaggio, ma ora lo riconoscevo. Qui avevo visto la ragazza nera con quegli occhi straordinari. Per molto tempo il suo volto, ogni tanto riapparendomi, mi aveva consolato dalle brutture della guerra ed ogni volta mi ero sentito un po’ in colpa nei confronti di Loretta. Fino a che avevo riposto l’immagine di quegli occhi in qualche recesso del cuore, ma non cancellata.

Pochi giorni dopo la rividi davvero! Era trascorso più di un anno e mezzo ed era cambiata; ora era una donna. La sua snellezza si era arricchita di forme nuove, morbide e sinuose.

Non ne fui proprio sicuro, ma ebbi la sensazione che anch’ella mi avesse riconosciuto; eppure i nostri sguardi si erano incrociati solo per pochi istanti. Mi ricordai che all’epoca il mio graduato, con un complice sorriso avesse dovuto darmi un bello spintone per farmi muovere, essendomi fermato lì come incantato.

 

   Non eravamo tranquilli in quel presidio; in giro circolavano bande di rivoltosi. Il capitano era nervoso e non vedeva di buon occhio che né io, né altri utilizzassimo ogni pretesto per girare intorno al villaggio. C’era una chiesa copta e la domenica andai alla loro Messa che è molto diversa dalla nostra. Le persone, pur molto povere parevano partecipare con dignità e convinzione al rito di cui però, io non capivo neppure una parola. E non mi parevano certo dei selvaggi! Erano piuttosto intimoriti dai soldati italiani la cui presenza avrebbe potuto attirare le scorrerie dei rivoltosi con terribili conseguenze anche per loro stessi.

Continuai per settimane, quando potevo, ad andare alla Messa, subendo le risatine e il sarcasmo dei miei commilitoni che sapevano delle mie palpitazioni amorose. Lei c’era sempre, accompagnata dai genitori e dalle sue sorelle più piccole. Ci parlavamo a sguardi e sorrisi.

Infine suo padre, attraverso il capo villaggio che sapeva un po’ d’italiano disse che avrei dovuto parlare con lui. Fui ospitato nel suo tucul, un’unica stanza con il pavimento in terra battuta coperto da tappeti di canapa. Mi dettero da mangiare e da bere, poi con molta gentilezza ma altrettanta franchezza mi chiese se la mia intenzione fosse quella di sposare Mariyam, questo era il nome della ragazza che io già sapevo, la quale a quelle parole mi guardò in modo strano ma anche con grande tenerezza. Io dissi che sì, che l’avrei voluta sposare.

Il mio capitano, saputolo s’infuriò: – Calamai...  ma come ti viene in mente una cosa simile... ho chiuso un occhio fino ad ora  perché credevo ti interessasse solo di fartela quella negra... ma sposarla? Sei pazzo! –

Mi spiegò che un decreto legge del duce riguardante l’Africa, avesse proibito assolutamente commistioni matrimoniali tra bianchi e abissine. Veniva perfino vietata da allora in poi la canzone “Faccetta Nera” che parlava di bellezze abissine, già da due anni molto popolare in Italia.

Feci spiegare al padre di Mariyam che per ora non fosse possibile quel matrimonio ma che quello fosse mio desiderio per il futuro. Da allora potei andare ogni tanto davanti al tucul per intrecciare faticosamente qualche parola con lei, sebbene i suoi occhi parlassero meglio della sua bella bocca piena e ornata di bianchissimi denti. Un giorno, i suoi erano andati ad un lontano mercato, lei mi prese per mano e mi condusse nel buio di quella sua vasta tenda. Lei fu dolcissima; ed era ancora vergine.

 

    Poi un giorno successe l’inferno. Una numerosa banda di cavalieri abissini, gli arbegnuocc, armati fino ai denti e  guidati da un ras locale, all’improvviso sbucò dal sud del villaggio avventandosi con un urto tremendo contro il nostro presidio che era proprio al margine delle capanne. Entrati con il buio nel fortino sparando all’impazzata, non avevano permesso ai nostri mitraglieri, subito sopraffatti, di reagire. Dettero velocemente il forte alle fiamme e con esso presero fuoco i tucul di paglia e fango del villaggio.

Io, che in quell’ora ero nel turno di riposo, svegliato dagli urli e dagli spari afferrai il fucile, uscii dalla camerata e mi trovai subito ad affrontare un furioso corpo a corpo a cui ne seguirono altri terribili e sanguinosi. Ne uscii illeso, ma con sgomento trovai il capitano riverso al suolo in un lago di sangue, mentre molti altri bersaglieri stavano anch’essi soccombendo. Il presidio era ormai perduto. Sfuggito anche alla scimitarra di un furioso cavaliere che riuscii a disarcionare e poi ad uccidere, presi a correre verso il centro del villaggio dove vidi che anche il tucul di Mariyam era in preda alle fiamme.

Lei ne era fuori ed era disperata e mi fece capire piangendo che i suoi fossero ormai tutti morti. Non solo il fuoco stava divorando furiosamente il villaggio, ma anche la reazione piena di odio dei guerrieri abissini nei confronti di quegli abitanti, sospettati di essere conniventi con gli italiani era passata sopra a quel villaggio come una giustiziera falce della morte.

L’afferrai saldamente per la mano e, con tutto il fiato che avevamo corremmo fuori del villaggio senza più voltarci, fino a un boschetto di banani. Da lì, nel buio più completo, illuminati solo ogni tanto dai riverberi delle fiamme dell’incendio sempre più lontane, arrivammo alle prime propaggini della montagna. Dopo aver camminato quasi tutta la notte, salendo per un sentiero impervio, arrivammo ad un villaggio, di nome Awra Amba dove trovammo ospitalità per la notte e poi anche per i giorni seguenti, fino ad oggi.

Da quel giorno io ho vissuto in questo villaggio sperduto tra le montagne di nord est, con mia moglie  Mariyam. Lei ha affrontato con fatica il dolore per la morte dei suoi familiari e il dispiacere di non aver potuto seppellirli, ma adesso Mariyam sta aspettando un bambino e in questo momento, mentre scrivo, mi sta guardando con una curiosa espressione interrogativa.

Sono praticamente disertore, ma non voglio più essere complice di persone che compiono così tante scelleratezze. Provo nostalgia del mio paese e del mio fresco torrente con i suoi verdi boschi intorno, ma fino a quando nella mia patria non cambierà qualcosa, fino a che gli italiani non potranno dire le cose come stanno con libertà, recuperando la ragione e il timor di Dio, non torno indietro.

Per le stesse ragioni sono preoccupato per i miei cari familiari, so che ora mi crederanno morto e che mi piangeranno; cercherò un modo per far sapere loro che sono vivo e che sono sereno.

Faccio il pastore di capre per conto del capo del villaggio che ci ha preso a benvolere; vivo come loro, sto imparando a pensare come loro, e sto lentamente imparando la loro lingua. Non sono dei selvaggi. Anche qui c’è una chiesa dove con un lunghissimo rito, il prete copto ci ha sposati.

Ho scritto con pazienza non essendo abbastanza istruito queste mie vicende perché rimangano come memoria di chi, un giorno le potrà leggere,

 

Sergente Bersagliere Luigi Calamai

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1946 – GINA E L’AMORE RITROVATO

1946 – GINA E L’AMORE RITROVATO

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 – Giulia, una trentenne dalla bella bocca sorridente e con una cascata di riccioli biondi, non vedeva l’ora di finire quel lavoro; nondimeno era contenta, da tempo desideravano una casa più grande.

Avevano passato tutta la vita stipati in quella casina accanto alla chiesa, della quale il nonno  era stato sacrestano, contadino, e perfino modello pittorico per il fustigatore di Gesù in una stazione della “Via crucis”.

Il babbo di Giulia aveva una storia di bambino, come sembra usasse una volta, mandato dalla famiglia poverissima a lavorare nei campi, senza poterlo vedere per mesi ed anni da lontani mezzadri che, in cambio del suo lavoro, remuneravano la famiglia di origine. Dopo anni quel bambino si era fatto uomo ed era rimasto lì, nella corte degli Alessi quasi come un figliolo. Chiamava Arturo e sua moglie che di figli ne avevano già, babbo e mamma e aveva un cuore d’oro, ma ad un certo punto li aveva un po’ delusi preferendo fare il muratore. L’Alessi quindi, non avendo più la forza di lavorare quasi da solo tutta quella terra, da tempo aveva dato a pigione la sua casa colonica a Sant’Angelo e si era trasferito accanto alla chiesa di Mezzana con tutta la famiglia.

Morto lui più che novantenne da pochi mesi, mamma Gina con i soldi che le erano spettati, non pochi, si era decisa. Gina era vedova ma, sebbene relativamente giovane e ancora piacente, non ci pensava neppure un po’ all’idea di risposarsi; aveva superato con coraggio il periodo molto duro della guerra che avevano trascorso da sfollati a Santa Maria a Colonica.

Adesso, pur non essendoci nulla da scialare, respiravano. – Per lo meno qui ci si ringira… – pensò la ragazza. Si fermò a riposare; era tutta sudata. – … ma chi lo sapeva che il nonno avesse quella proprietà? – le venne in mente salendo per l’ennesima volta le scale di legno; pensò che del nonno Arturo sapeva ben poco. C’era ancora da portare su una cassetta di metallo di tipo militare che prima di quella mattina non aveva mai visto, ma era troppo pesante. – Ehi! Emilio!... dai, vieni, dammi una mano. –

Arrivò un ragazzo alto e magro, con un ciuffo biondo. Suo fratello ormai diciannovenne era nato colpevolmente in ritardo, lo irritava spesso, ma gli voleva bene. Quando nacque, lei che aveva già undici anni ebbe da ridire. Sapeva che presto avrebbe dovuto dividere il letto con lui.

– Vai, tiriamo su questa cassetta… ma che c’è dentro, lo sai? – Boh… che ne so… ma dov’era? –

– Era sotto il letto della mamma, l’ho tirata fuori io… dopo la voglio aprire. –

 

 – Giulia era proprio bella, e amava Alfredo. Dovevano sposarsi presto, anzi, dovevano averlo già fatto da qualche anno, ma allo scoppio della guerra il mondo pareva essere impazzito, senza contare che nel dicembre dello stesso anno il suo babbo Gustavo era rimasto ucciso durante una retata dei tedeschi, meritandosi anche il sospetto di essere stato un sovversivo. Troppo dolore e troppa preoccupazione, così il progetto era rimasto in sospeso.

Mamma Gina lo considerava ormai come figlio suo, il ragazzo pareva perbene con la testa a posto, anche se il suo povero marito aveva avuto qualcosa da ridire su quella famiglia. Erano stati a scuola insieme lui e Fausto il babbo di Alfredo e si erano frequentati fin da bambini, ma poi le loro strade si erano divise; dicevano che Fausto fosse stato simpatizzante dei Fasci italiani di combattimento.

I due giovani avevano litigato più di una volta per questo ed era tuttora una ferita aperta: – … e il tuo allora? Ti sembra una gran cosa essere stato  comunista?...  – … non era comunista, era socialista. –

Ma alla fine si ricomponevano, il loro amore era più forte di quegli screzi. Tra due settimane, all’inizio di giugno, avrebbero votato  entrambi per la repubblica e per la Democrazia Cristiana; per le donne al voto per la prima volta sarebbe stato un giorno memorabile.

 – Quel sabato era una giornata luminosa, fuori la natura era già sfavillante con i suoi bocci, i suoi odori. Per il giorno dopo Alfredo aveva proposto di fare una girata a piedi verso Cantagrilli, loro due con altri amici. La Calvana, in modo particolare quei prati sconfinati che scendevano verso Valibona, di maggio si coprivano di un’estesa fioritura di giunchiglie ed era uno spettacolo percorrerli sotto gli occhi quasi indifferenti dei cavalli allo stato brado. Emilio amava quei posti e diceva che i cavalli liberi al pascolo sbuffano spesso perché sono animali felici e che la libertà non avesse prezzo.

Tuttavia  Giulia alla gita non ci stava ancora pensando; era rimasta con quella curiosità. Nel pomeriggio, finite le faccende salì su in soffitta.

La soffitta era bassa e solo nel centro vi si poteva stare in piedi. Si accucciò e provò subito ad aprire quella strana cassetta di ferro scuro, probabilmente un tempo contenente munizioni, su cui erano stampigliate cifre e lettere. Non si apriva; era chiusa da due maniglie che, dal coperchio si aggrappavano ai lati dentro un’intercapedine. Le sue mani non riuscivano ad alzarle. Scese giù nella stanzina in fondo all’orto, cercò qualcosa di adatto nella cassetta degli arnesi del babbo che era ancora disposta proprio come l’aveva lasciata lui prima di quel giorno disgraziato. Si tolse le scarpe per non farsi sentire dovendo salire di nuovo le scale di legno che rimbombavano.

Non sapeva bene perché, ma fremeva ansiosa. Aprì finalmente la grossa cassetta e rimase di stucco vedendo che, insieme a tante altre piccole cose c’era un’altra scatola di ferro. Era lunga e spessa quasi la metà della cassetta militare e chiusa con un lucchetto. Era davvero interdetta, non sapeva che cosa fare. Era già pomeriggio inoltrato così, con dispiacere, decise di rimandare il problema al lunedì.

Si sentì chiamare dal basso: – Giulia, ma dove sei?… vieni c’è ancora da rimettere a posto, è arrivato il barroccio con le ultime cose… Emilio ti cerca. –

Il fratello stava scaricando e quando la vide glielo chiese: – Hai aperto quella cassetta? –

Lei fece il gesto di abbassare la voce. – Che c’è? Che misteri ci sono? – Te lo spiego dopo. –

Più tardi gli disse di quella scatola e del lucchetto. – Ma perché non lo chiedi alla mamma? – Perché non so se ne abbia piacere… scusa, per quale motivo la cassetta era come nascosta?… lo so, lo so, non lo dovrei fare… –

 

 – Il giorno seguente, una bellissima giornata di sole e di fresca brezza, passò in un baleno. I due fidanzati alla sera tornarono stanchi, carichi di fiori riuniti a mazzi e sazi di baci. Si erano appartati più di una volta sospirando il momento delle nozze, e anticipandone ogni tanto qualche delizia.

Tuttavia Alfredo si era accorto che Giulia fosse un po’ distratta: – Oh! ma a che pensi?... ma pensi al fornaio? eh?... confessa… – … ma come sei grullo… quello lì? se volessi lo troverei meglio. – gli rispondeva con uno sberleffo mentre ridendo cominciava a correre, sapendo che l’avrebbe rincorsa, afferrata e buttata sull’erba dove, mai satolli per quella fame d’amore, avrebbero ricominciato a mangiarsi l’un l’altro.

Giulia lavorava all’appalto alimentare che forniva quella strada di Mezzana e anche quelle limitrofe. Tutte la mattine presto arrivava Guido, il garzone del fornaio con il triciclo pieno di pane appena sfornato e le faceva la corte. Lei ci rideva sopra ma Alfredo lo sapeva ed era geloso.

Quel giorno a Cantagrilli Giulia era stata distratta e non per il fornaio; il suo pensiero ogni tanto volava a quella scatola metallica e a quel lucchetto di rame. Pensava anche, con eccitazione, alla casuale circostanza che il destino le aveva predisposto per favorire quel proposito. La sua mamma, da tempo, aveva promesso di far visita l’indomani ad una vecchia zia materna.

 – Il mattino dopo era un lunedì, e come tutti i lunedì la bottega era poco frequentata, avendo la gente da finire gli avanzi della giornata di festa. Dopo aver ritirato il pane fresco da Guido, a cui quel giorno non avendone la testa adatta, non dette spago, chiese al padrone, con un pretesto, di poter tornare a casa.

Il fratello che le obbediva quasi sempre, per lui era stata come una seconda mamma, come d’accordo la stava aspettando; nondimeno aveva molti dubbi.  – Sei sicura di far bene Giulia… poi la mamma se la prenderà con me, non è mica grulla, lo vede… – esitò Emilio. Lavorava nella vicina officina meccanica e, con una piccola tronchese che si era portato dietro, si decise infine a spezzare quel lucchetto.

Lei non lo ascoltava neppure, aveva gli occhi fissi sulla scatola metallica. Aspettò di rimanere sola; quando sentì sbattere la porta di casa l’aprì.

Come di scatto, venne fuori un fascio di lettere polverose che erano state compresse per chissà quanto tempo. Lettere e cartoline postali, tutte ingiallite dal tempo e suddivise da spaghi sottili in quattro piccoli gruppi. Le tremavano le mani, non sapeva da che parte incominciare. Dette un’occhiata veloce; la calligrafia nella maggioranza delle buste e delle cartoline era del suo babbo, la riconosceva bene. Delle altre solo in alcune, poche, la scrittura più incerta era quella di mamma Gina.

Si strofinò gli occhi, sapeva di avere per le mani qualcosa che non le apparteneva. Si stava pentendo, pensò che Emilio avesse ragione, e che lui fosse più onesto di lei. Si immaginò che la mamma si sarebbe offesa; se quelle lettere erano state chiuse con un lucchetto poteva esserci un perché.

Un turbinìo di pensieri la tennero in sospeso per un po’ e non si decideva, né a richiudere la scatola né ad aprire qualche lettera. Ma la tentazione era troppo forte, e fu più forte dei suoi scrupoli.

 – Guardò prima le date in ogni pacchetto, oscillavano tra l’anno 1915 e il 1919. Constatò che le lettere e le cartoline postali provenissero in gran parte dal fronte italo austriaco, per cui Giulia ne dedusse, tranquillizzandosi, che tutto sommato, non ci potessero essere chissà quali segreti.

Il suo babbo aveva raccontato tante volte i patimenti sofferti nella grande guerra. Diceva sempre, pur non scendendo in tanti particolari, che era rimasto vivo per caso. Di sollevare quei ricordi pareva non averne tanto piacere, anzi dava piuttosto l’impressione che avrebbe desiderato rimuoverli.

Con più leggerezza d’animo sciolse quindi lo spago del primo gruppo di lettere, quello più vecchio, e ne aprì una. La calligrafia era rotondeggiante come usava in quegli anni ed era indubbiamente quella di babbo Gustavo. Con un po’ d’emozione cominciò a leggere:

Col di Lana, 1 settembre 1915

 – Cari babbo e mamma, stanotte è stata la prima notte che ho passato al fronte. Ho dormito bene senza sentire punto freddo eppure siamo oltre i 2000 m. Mi hanno messo nella 7ma compagnia e più precisamente al 4° plotone. Non sento in giro nessuno che parla toscano e tantomeno pratese o carmignanese, che loro lo so li mettono negli alpini. Io vorrei sapere perché uno di Sant’Angelo lo mettono negli alpini.

Ho già ricevuto l’entrata in campagna e quando fra qualche giorno andremo a riposo vi dirò quello che mi servirebbe e che voi mi dovresti mandare, per piacere... saluta tutti compreso Adele ma anche la Gina.

 

 – Dal tono non pareva fosse la prima lettera che Gustavo avesse scritto. Ne seguivano altre due similari. Quelle ancora successive invece erano molto diverse:

Col di lana, 17 ottobre 1915

 – Cari mamma e babbo, come state? Mi avete dato davvero una bella notizia che non mi aspettavo così presto e sono contento. Nelle altre lettere vi avevo detto che stavo bene anche se la guerra era brutta e, per dire la verità, di salute sto bene ancora. Però la situazione è dimolto cambiata, questa notte sono stato per la prima volta in trincea, dove vivere è complicato e dove le bombe sembrano terremoti continui.

Non vi voglio preoccupare ma vi devo dire la verità; molti miei compagni rimpiangono le proprie famiglie, i propri poderi  e pensano alla morte. Si deve morire tutti, io però non mi arrendo, spero di farcela e di uscire vivo da questo inferno.

Ho trovato solo mezzo foglio con la busta e poi ora sta piovendo e devo chiudere qui.

Saluta tanto Adele, come sta di salute? Saluta anche Gina. L’avete seminate le lattughe i fagioli e i fagiolini? Che tempo fa costà?...  Il vostro Gustavo

 

Col di lana, 21 novembre 1915

 – Caro babbo, la situazione è peggiorata, ogni mattina mi sveglio presto al rumore delle fucilate tra i defunti della trincea e le persone morenti che tirano gli ultimi respiri pregando il padreterno nell’attesa della pace.

Quando tocca a me ad andare all’assalto provo dolore e una gran tristezza. Quasi per miracolo per ora son sempre tornato alla postazione. Devo sparare senza guardare in faccia nessuno, senza pensare a chi si trova davanti, e continuare e  farlo quasi con passione per la patria; in quei momenti so che sto facendo del male a qualcuno, ma non mi posso fermare, anche se quello che c’è al di là del confine è giovane come me e non è colpa sua se ha un’altra divisa e una bandiera diversa dalla mia.

Caro babbo c’è chi muore di fame e di stenti, anche perché il cibo è scarso e quel poco che si può mettere sotto i denti è rancido. Una cosa mai vista, assaltiamo anche uscendo dai cunicoli scavati sotto la neve; ma abbiamo conquistato solo pochi metri. Morti a destra, morti a sinistra, morti dietro a me. Ognuno di noi sa che non può tornare indietro, o morti loro o morti noi.

Dai un bacio alla mamma. L’Adele sta bene? Un abbraccio anche alla Gina e agli zii e ai cugini. In codesta corte in confronto a qua c’è il paradiso… vostro Gustavo

 

 – Giulia non si aspettava quella violenza verbale, quelle cruente descrizioni di morte; ne fu turbata. Andando in ordine di data Giulia lesse altre due lettere di quel tenore, poi si fermò a riflettere.

Pensò che non si fosse mai rivolto direttamente alla moglie Gina della quale, come pareva, aveva saputo della sua gravidanza. Ed era colpita dal fatto che non mancasse mai di inviare i saluti ad Adele. Ricordava vagamente di una zia morta ancora giovane, ma poco o punto ricordata in famiglia.

Le lettere successive che, come data, facevano un salto temporale di qualche mese, portarono Giulia a conoscenza di una realtà che le parve inverosimile e che l’avrebbe stravolta.

 

Col di lana, 3 marzo 1916

 – Caro babbo, mentre scrivo è notte e sono davanti alle feritoie mentre infuria la tormenta. Qui marzo è tutto differente dal marzo di costì, siamo ancora circondati da neve e gelo, non si vede altro che bianco dappertutto, salvo i corpi dei morti che non si possono andare a recuperare e che puzzano anche a distanza.

Ma questo mi pare meno importante a confronto di quello che mi scrivi; ma non avevi sempre detto che la gravidanza stava andando bene? Ci siamo sposati a fine giugno e ora lei dovrebbe essere di otto mesi. Non capisco bene, ma di che malattia si tratta? cosa dice il dottore? fate in modo che guarisca; ci mancherebbe anche questa.

Comunque non ne posso più, ho ammazzato qualcuno anche ieri. Basta, basta, basta! Non credevo che sarei stato in grado di farlo eppure mi capita tutti i giorni… Gustavo.

 

Col di lana, 15 aprile 1916

 – Cari babbo e mamma, anche se vedo la morte tutti i giorni, la morte di Adele è un’altra cosa. Non riuscivo a crederci e ora, con i continui boati nelle orecchie, il freddo sulle gambe e il peso di vite umane che porto nel cuore, non riesco neppure a piangerla. Guardo il mondo intorno, e per la prima volta nella mia vita, ho paura. Ma tengo duro e lotto perché voglio almeno vedere la nostra creatura. Dite che è una bella bambina ed è una consolazione e vorrei che fosse battezzata con il nome Giulia.

Qui non è rimasto più niente, speriamo che alla fine Trento e Trieste saranno italiane, sennò qualcuno un giorno avrà da pagare… vostro Gustavo

 

Col di lana, 3 maggio 1916

 – Babbo, qua è il finimondo, abbiamo fatto scoppiare una mina di cinquemila chili e gli austriaci sono quasi tutti morti; il nemico si è ritirato dalla vetta del colle, ma non riusciamo ad andare oltre.

Ho ancora il cuore piccino per la morte di Adele e penso alla bambina; come sta crescendo? Dite a Gina che se ne prenda cura lei che è la zia. Le sarò riconoscente, sempre che io riesca a campare. Potete dirle che mi scriva?

Qui comunque i più deboli muoiono per colpa del freddo che ci tormenta dalla sera alla mattina. Le coperte sono poche e chi riesce a procurarsele è così avido da non volerle condividere con nessuno. Ce la fate a mandarmi due coperte?...

 

Col di lana, 21 giugno 1916

 – Caro babbo, le trincee sono molto strette e dobbiamo accontentarci dello spazio che abbiamo, la terra è ormai piena di cadaveri e topi e qui ce una puzza insopportabile. Oggi è il primo giorno d’estate, ma noi siamo sempre vestiti con vestiti grossi, io sudo dal caldo e non riusciamo ad avanzare più di tanto, quando piove le trincee si allagano completamente e l’umidità della terra inizia a farmi male alle ossa. La bambina come sta? Non ho ancora ricevuto la lettera da Gina, ditele che mi scriva.

 

 – Il pacchettino con le date più vecchie e scritto dal suo babbo era finito. Giulia, mentre finiva di leggere le ultime tremava ed aveva gli occhi pieni di pianto; ne aveva afferrato il senso ma rimaneva incredula: – Ma che vuol dire?... perché me lo hanno nascosto?... ma perché?… –

Stette così per alcuni minuti, accosciata sul pavimento con lo sguardo febbrile perso nel vuoto. Erano le dieci e Gina sarebbe tornata in tempo per il desinare. Voleva sapere ancora, si scosse e prese un altro pacchetto; erano cinque lettere ed erano proprio le sue, quelle della sua mamma.

Sant’Angelo a Lecore, 18 luglio 1916

  – Caro Gustavo, ti scrivo con la morte nel cuore per la disgrazia di Adele ma anche a nome della famiglia per rivelarti una cosa che non dovrai dire a nessuno, a nessuno giuralo, finché vivrai. Iddio un giorno giudicherà se abbiamo fatto bene o male; se abbiamo fatto male tu ne sei responsabile soltanto in parte. Quel peccato che abbiamo commesso una notte prima del vostro matrimonio non è rimasto senza conseguenze.

Dopo un mese, tu eri partito da poco, mi sono accorta di aspettare una creatura, la tua creatura Gustavo!

Ti hanno fatto sposare Adele quasi contro il tuo desiderio, questo lo so; lei sovrastava la volontà di tutti, anche la tua. Eravamo sorelle gemelle ma tu amavi me, dicevi che la mia voce fosse dolce e che i miei occhi fossero occhi buoni e sinceri, mentre quelli di Adele ti parevano occhi diversi. Dicevi anche che io avessi un cuore più grande. Eppure per tutti eravamo identiche e ci scambiavano!

Ma non dovevamo cadere nell’abisso del peccato. Piansi per settimane intere e tutti si chiedevano il perché. Alla fine, quando le mie forme cominciarono ad arrotondarsi lo intuirono. Per prima lo capì Adele che possedeva l’arte di leggermi dentro; l’ha sempre avuta fin da piccola e con quella mi ha dominato.

Confessai disperata, ma urlando che mai e poi mai avrei voluto abortire. Dopo notti insonni e sguardi feroci decisero che mi avrebbero fatto portare avanti il bambino, ma ad un patto; fino alla nascita io e Adele avremmo scambiato i nomi e i ruoli. Poi avrei dovuto trovare un marito ed andarmene.

Si vede però che una giustizia esiste anche a questo mondo. Adele, qualche mese dopo, d’un tratto ebbe un’angina pectoris, pare sia una predisposizione di famiglia, chissà che un giorno anch’io… Morì, per un riacutizzarsi di quel male, proprio nei giorni in cui io partorivo.

Babbo e mamma, con la connivenza della levatrice, una cugina alla lontana, hanno preferito dire a tutti che sia morta per le complicanze del parto. Così io sono rimasta in casa con Giulia che per tutti è la figlia di Adele. Lei ha già quattro mesi ed è una meraviglia… Gina

 

 – Giulia alla lettura di quella vicenda incredibile si sentì mancare; dovette affacciarsi all’abbaino per respirare tanto soffocava: – Ma allora?… mamma mia… non ce la fo più… –

C’erano ancora tre lettere in quel pacco.

Sant’Angelo a Lecore, 21 agosto 1916

 – Caro Gustavo, non ho ancora ricevuto una tua risposta e non so che cosa pensare. Forse sei rimasto sconvolto, non solo per la morte di Adele ma anche per l’accaduto che non volevi che accadesse. Mi viene in mente che allora non fosse proprio vero quello che mi dicevi, cioè che mi amavi. Mi illudevi con parole di miele solo per cogliere il frutto della carne da tutte e due le sorelle, forse per sentirne meglio la differenza come si fa con i cachi maturi di due diversi alberi di pomo, ma non mi volevi bene come pensavo.

Io invece non ho rimpianti, ti ho sempre amato fin da quando eravamo ragazzi e giocavamo insieme felici nell’aja…

Quella notte ho ceduto, sbagliando, convincendo me stessa che sarebbe stata l’unica e irripetibile volta.

La bambina per tutto il mondo sarà solo tua anche se nelle sue vene scorre il mio sangue.

Spero comunque che tu stia bene e che tu possa tornare presto, Gina.

 

Sant’Angelo a Lecore, 11 settembre 1916

 – Caro Gustavo, ti scrivo solo per dirti che babbo e mamma sono in pensiero. Non scrivi da tre mesi, pensano al peggio. Sul giornale le notizie sulla guerra non sono buone. La bambina sta benissimo.

Se sei vivo, per piacere invia almeno una cartolina postale…  Gina

 

 – Giulia prese poi la quarta lettera. Sul retro della busta era segnato come mittente, Caporal Maggiore Gustavo Pecchioli, ma la provenienza precisa era stata cancellata.

Cara Gina,

 – Sono internato nel campo di prigionia di … in Austria. Avevo ricevuta la tua seconda lettera appena da un giorno quando ci hanno presi prigionieri. L’ho con me in tasca insieme all’altra e le tengo come una reliquia. Ma ho conservato anche le quattro cartoline postali precedenti.

Non potei rispondere neppure alla prima perché per molti giorni lì era un inferno, e anche perché non esisteva in trincea neppure un piccolo foglio; sapessi che valore ha in quei posti un foglio e una busta per poter scrivere a casa! Nessuno se lo immagina.

Sapessi anche quanti sentimenti contrastanti ho provato nel leggere la tua; non riuscivo a crederci. Non mi pensare come uno senza cuore, ma il dispiacere per la morte di Adele è stato poco a confronto con le tue parole che mi ripagano anche di queste umiliazioni. Ci sono da più di due mesi e ora mi hanno permesso di scrivere.

Qui facciamo la fame più che in trincea, quasi tutti si ammalano e parecchi muoiono. Si muore anche di nostalgia per le nostre famiglie, per i figli, anche io ora ne ho uno e per le mogli per chi ancora ce l’ha. Io l’ho persa di mal di cuore, ma confido, se Iddio mi farà tornare a casa, di acquistarne un’altra. Non ti eri sbagliata, e non è stata una semplice passione; io ti voglio bene davvero Gina.

Rassicura babbo e mamma; non li giudico, né per il matrimonio, né per quella finzione così umiliante per te. Ricominceremo da capo… tuo Gustavo.

 

 – Giulia piangeva come una fontana e non riusciva a fermarsi.

Erano già le undici e mezzo e doveva affrettarsi. Si soffiò il naso, si asciugò le lacrime e infine sciolse il terzo gruppettino di lettere. Erano quattro cartoline postali di cui l’ultima in ordine di tempo scritta da Adele, mentre le altre dal nonno essendo la nonna, a quanto pareva, quasi analfabeta. Queste erano molto semplici e di poche parole. Gli dicevano sempre di stare attento e lo tenevano a corrente dell’andamento dei campi e delle stalle. Si capiva bene che nella cartolina di inizio ottobre il vecchio gli avesse comunicato, mentendo, che Adele stesse aspettando un bambino.

– Dio mio… – pensò rabbrividendo Giulia. – Ma davvero avrebbero sostenuto per sempre quella orrenda bugia? L’ultima cartolina postale e la sola ed unica di Adele era stata scritta in caratteri piccoli e fitti ed aveva il timbro postale in data 8 marzo, quindi circa un mese prima della sua morte e della nascita di Giulia.

Caro Gustavo,

 – Mi dispiace tanto che tu sia in trincea a patire, ma credi anche qui noi abbiamo i nostri pensieri. La gravidanza va bene anche se io non godo il massimo della salute per qualche mancamento, ma spero di migliorare presto. Non ti avevo ancora scritto perché ci ha sempre pensato il babbo, però mi manchi e ho tanta voglia di abbracciarti.

Non ne abbiamo avuto molto di tempo per l’amore, ma ci rifaremo. Non manca molto al parto e quando tornerai potrai vedere il tuo bambino, ancora non so se maschio o femmina.

P. S. Lo dico per scherzo, ho sempre voglia di scherzare lo sai, ma se mi capitasse qualche cosa, penserà mia sorella al bambino… tua Adele

 – Poi in piccolo, quasi pudicamente e in modo un po’ sghembo, sotto alle ultime parole aveva aggiunto: – e a te. –

Giulia che aveva cominciato ad odiare quella zia mai conosciuta e di cui ne aveva ignorato quasi l’esistenza, salvo vaghi e frettolosi accenni, ebbe per lei un moto di tenerezza. Capì che Adele in quei giorni sentiva che non ce l’avrebbe fatta. Quelle parole, in un impeto di umiltà e insieme di realismo, erano un affidamento sicuro per gli esseri a cui teneva, e come una sorta di riscatto del suo egoismo che aveva fieramente coltivato e di cui era consapevole.

Giulia non potè aprire il quarto gruppetto di lettere perché in quel momento sentì il rumore del portone di casa che si apriva. Fu presa allora dal terrore per la propria colpa, ma poi, scendendo le rumorose scale di legno si riscosse: – Perché dovrei aver paura della mamma? –

La incrociò sulle scale mentre lei saliva per andare in camera e non potè nasconderle il viso arrossato e ancora rigato di lacrime. Gina non capiva ma l’abbracciò forte: – Giulia!..  che ti è successo? – Mamma, mamma… mi perdoni?

Si sedettero sul letto e Giulia, singhiozzando le disse tutto; la cassetta, le lettere, quella storia finora taciuta. – Bambina mia, non c’è niente da perdonare, ti voglio tanto bene. –

Era già l’una ma nessuna delle due aveva fame; entrate dentro al letto, era un maggio ancora freddino, Gina prese a raccontare: Gustavo, tornato nel ’19 dalla prigionia e vivo per miracolo, pareva uno scheletro, trovò la bambina già di quasi tre anni. – Eri una bambola e lui non riusciva staccare gli occhi dai tuoi riccioli biondi e dal tuo visino.–

Si sposarono e, per rispetto alla volontà di Adele, sebbene ne riconoscessero le distorsioni dettate dal suo orgoglio ferito, non fecero nulla per smentire la sua maternità presso l’anagrafe. Dopo otto anni era nato Emilio.

– Era un discorso un po’ troppo complicato da spiegare e soprattutto umiliante per tuo nonno che aveva appoggiato quella strana cattiveria – Lui era sempre stato lucido fino all’ultimo e sapeva, disse Gina, di aver fatto una cosa sbagliata. Poi c’era stata la guerra, la drammatica fine di Gustavo; infine il nonno era morto lasciando quel lascito, la casa colonica di Sant’Angelo.

 – Oh dormiglione! guardale tutte e due!… – Le due donne si erano addormentate quasi abbracciate l’una all’altra in quel reciproco teporino; furono svegliate da Emilio che, al ritorno dal lavoro pensava di trovare qualcosa di pronto da mettere sotto i denti; erano già le cinque e mezzo.

A cena, tra lo stupore dei due ragazzi, era presente anche Alfredo che non era proprio un ragazzo, ne riparlarono. Giulia disse allora che in quella scatola c’era un altro pacchettino di lettere che non aveva ancora aperto.

– Mi dispiace Giulia, l’ho già messo via. – disse la donna alzandosi. – Sono cose intime… – aggiunse arrossendo. Quel rossore l’accese di una luce diversa che Alfredo non aveva ancora visto; Gina era ancora molto bella e somigliava tanto alla figlia.  

Era in piedi e, dalla veste che le copriva il voluminoso seno, estrasse d’un tratto due fogli ingialliti.

– Per questa che Gustavo ha scritto pochi mesi prima di tornare a casa, però voglio fare un’eccezione e ve la leggo. –

 

Campo di prigionia … Austria, 6 giugno 1919

 – Cara Gina, mentre scrivo queste parole il sole sta sorgendo. Penso che stia sorgendo anche da voi come sulle rovine dei paesi, sulle case sventrate, sul dolore di chi è rimasto solo.

Sono passati tre anni e mezzo da quando ho lasciato il nostro podere, anni di sangue e di sofferenza. Ho visto la morte in faccia, ho visto la gente compiere ogni genere di brutture in nome della patria e tra questi mi ci metto anch’io e mi chiedo se ne sia valso la pena.

Che senso ha avuto tutto questo per guadagnare quel pezzo d’Italia che, come mi ha spiegato un professore di scuola che è prigioniero qui con me, forse ce lo davano lo stesso con le trattative? Lui è uno che ha studiato e dice che ora in Italia ci vorrà il socialismo perché c’è troppa ingiustizia.

Io credo di comprendere quello che dice anche se non sono una persona istruita, ho appena fatto la quarta.

Tu lo sai, il mio vero babbo che era rimasto solo e che era così povero da non aver nemmeno occhi per piangere, mi mandò da voi a lavorare e non l’ho più rivisto perché morì presto. Mi ricordo solo che mi mandò a scuola perché, diceva, un contadino che sapesse leggere e scrivere era meglio di un contadino ignorante.

Però ignorante sono rimasto lo stesso come lo devono essere i contadini, buoni solo come carne da macello quando a chi comanda serviamo in quel modo. L'Italia ha sbagliato ad intervenire in questa guerra. No, Gina, questa guerra non ha avuto vincitori, solo vinti.

Ora, se sopravvivo, ho solo voglia di tornare a casa, voglio dimenticare questa prigionia che non finisce mai, voglio ricostruire la mia vita; e ai nostri figli, perché ne avremo degli altri Gina, a loro insegnerò il rispetto e la giustizia ma anche il timor di Dio.

Non sono bravo a dire queste cose, ma anche in questo orribile posto riesco ancora a ringraziare il Padreterno. Io l’ho sentito vicino spesso e penso, ma non so se dico una bestemmia, che anche lui abbia sofferto con noi.

Ma il grano come è venuto quest’anno? e l’orzo è bastante? Ora ti lascio e ti abbraccio con il pensiero. Saluta da parte mia i vecchi… Gustavo.

 

 – Quand’ebbe finito di leggere gli astanti erano commossi e anche Gina lo era. Poi la donna prese il romaiolo e si mise a versare nelle scodelle la fumante e odorosa minestra. Alfredo, che le era di fronte, incrociò i suoi occhi in quelli scintillanti di lei e pensò che fosse una gran donna.

 

– fine –

 

 

L'AURA DI STELLA

L’AURA DI STELLA

O

 – All’inizio degli anni novanta esercitava a Pistoia un avvocato quarantenne di nome Antonio Mastopasqua. Il giurista, un moretto dall’aria di ragazzo per bene e sorridente, era noto per la disinvoltura nell’escogitare insolite vie legali per la risoluzione dei casi più ostici. Qualcuno diceva che quell’ostentato sorrisetto gli facesse molto gioco nell’imbrogliare le carte; nondimeno, con soddisfazione sua e dei propri clienti, spesso riusciva a sciogliere i tanti nodi  che gli venivano presentati.

 – Un giorno Antonio fu incaricato da un cliente di difenderlo da un’accusa che, all’avvocato, parve quasi ridicola, un furto di penne stilografiche. L’uomo era un solitario cinquantenne che viveva in una modesta casa del centro storico e che non si era mai sposato. Come proprietario di molti ettari di bosco, tra cui alcuni vasti castagneti tra le montagne intorno all’Orsigna, viveva di rendita senza strafare. Ricavava qualcosa dalla raccolta delle castagne; i suoi “marroni” erano tra i più belli della zona.

Lo vedevano allontanarsi con la sua dimessa wolkswagen soltanto per andare in quei posti, dove ancora possedeva l’antica casa colonica dei nonni. Frequentava poco anche il paese di Orsigna, peraltro composto di poche case raggruppate intorno alla chiesa e di tre piccole borgate di poco discoste.

Attrezzato con il suo fucile da caccia e in compagnia del cane, si inoltrava subito in scoscesi boschi di faggi e querce. Tra i tanti boschi preferiva quelli non tanto in alto, querceti misti a faggi dove l’intricato sottobosco di noccioli, biancospini e cornioli interrotto da macchie di felci, avrebbe reso impervio il cammino di chiunque. Come un lupo solitario vi vagava per giorni interi, conoscendone tutti i sentieri, anche quelli tracciati dagli animali. In quei posti il modesto possidente si sentiva a suo agio.

In città faceva una capatina nel vicino negozio di alimentari e, raramente, in cartoleria dove chiedeva busta e carta da lettere. Aveva l’unica sorella a Bologna a cui scriveva una volta al mese, non avendo ancora, tra pochissimi, il telefono in casa. La cabina telefonica era in fondo alla strada, ma non amava farne uso.

Quindi, poiché tutti lo conoscevano per cacciatore accanito e non certo per scrivano, quella faccenda sembrò davvero assurda. – … oh che cosa ne dovrebbe fare delle penne il “nebbia” ? – si chiesero perplessi al bar Bocchio i due o tre pensionati che lo conoscevano e che, ciondolando tutto il giorno in quei pressi, vi passavano la giornata. Lui ci passava solo ogni tanto, ma un tempo anche il “nebbia” cioè Vasco Tontoli, non potendosi allontanare facilmente da casa, lo aveva frequentato. Adesso, da quando era morto il suo vecchio babbo, pareva aver perso interesse a fare spesso una sosta per il caffè o per chiacchierare un po’.

 – Eppure un testimone lo aveva visto, prima armeggiare in modo sospetto, e poi infilarsi qualcosa nelle tasche. Nella versione del Tontoli invece, come lui stesso aveva raccontato all’avvocato, era successo che un pomeriggio sul tardi, entrando in cartoleria sopra pensiero fosse scivolato sul pavimento umido di moccio, sbattendo come un sacco di patate contro la vetrina del bancone. Immediatamente dopo era entrato quel testimone.

Al mattino seguente il padrone del negozio che era accorso all’udire di quel frastuono, ma che sul momento era occupato nel retrobottega, si era accorto che da quella vetrina posta sopra al bancone erano scomparse quattro, cinque penne a sfera e penne stilografiche le più belle e costose, con il fusto in madreperla. Una di quelle stilografiche pare avesse un grande valore; in resina azzurro madreperla con finiture rutenio era fatta a mano, un oggetto unico e bellissimo con il pennino in oro, realizzata da un abile artigiano con tecniche tradizionali.

– Avvocato, non ho preso niente… quel tizio, quel carabiniere che è entrato subito dopo  mi ha visto con le mani sopra al vetro… mi stavo solo appoggiando, non stavo in piedi ed ero confuso. – giurava il Tontoli. Il gestore della cartoleria, nonostante il costo che il procedimento penale avrebbe comportato, lo aveva denunciato.

Durante l’iter d’inizio del procedimento penale la testimonianza di quella persona, un maresciallo dei carabinieri, appariva determinante, così l’avvocato, trovandosi di fronte a una sfida quasi persa, dopo aver riflettuto  decise di adottare un insolito approccio al problema.

Nel corso dell’udienza Mastropasqua fece  una lunga e brillante dissertazione sulle differenze tra le varie penne a sfera e tra le varie penne stilografiche, cercando di dimostrare che il reato fosse troppo indefinito e quindi non imputabile.

Sulla cronaca di Pistoia, dove l’insolito caso aveva attirato la curiosità di molti, si leggeva: – … la sua decisione di trasformare il dibattimento in una ilare disquisizione sulle penne, ha rivelato il lato audace e provocatorio della sua personalità. Ha parlato infatti di "penne indifese"  mettendo in ridicolo l'accusa e il sistema giudiziario,  imputandogli di trascurare i diritti delle penne nella società moderna. –

Il giudice a quanto pare, anche lui un po’ confuso e perdipiù a fine carriera, non potendo assolverlo finì tuttavia per comminare una pena pecuniaria così lieve che la gente di Pistoia sorrise divertita.

Il maresciallo non obiettò e Antonio Mastopasqua, nonostante la sconfitta acquistò ancora maggiore notorietà. Si parlò ancora del suo uso intelligente della fantasia ma al limite dell’ortodossia, del suo personale fascino e di quel sorriso, e del fatto che fosse capace di vedere spiragli dove gli altri avrebbero visto solo del buio.

Il Tontoli pur rimanendo poco convinto, forse per noia o forse per sfiducia nell’umana giustizia, d’accordo con l’avvocato non si sognò neppure di richiedere l’Appello. Pagò la parcella senza farla tanto lunga e parve scomparire dalla vista e dalla vita del Mastropasqua.

 – Tuttavia il destino riservava ad Antonio un epilogo inaspettato, un'inattesa svolta. Una sera di inizio ottobre, assorto e appesantito dall’abbondante cena consumata in un vicino ristorante in compagnia di alcuni colleghi, si era appena fermato al “Pozzo del Leoncino” per fumare al centro della Piazza della Sala. Appoggiato al pozzo, mentre contemplava le volute di fumo della sua sigaretta, stava proprio pensando che, tutto sommato, si trovava abbastanza bene a Pistoia, città ordinata  e certamente meno nevrotica di Prato dove ogni tanto tornava a far visita ai suoi vecchi.

Il rimpianto piuttosto era per Stella; non si capacitava. Un giorno lei gli aveva detto di non essere molto contenta di lui e di volere un periodo di separazione, una specie di tempo sabbatico per riflettere: – Pensi solo al lavoro e alla tua arida carriera… tu non hai sposato me, hai sposato i tuoi processi. –

Gli imputava di non avere altri interessi che quello. Lei viveva in un mondo di valori diversi; era insegnante di italiano, amava l’arte e la natura, era attratta dalle filosofie orientali. Erano giusto passati sei mesi da quel giorno.

Preso da quei pensieri non si era accorto che un uomo gli si era affiancato. L’uomo, soprabito nero e sguardo serio quasi nascosto dal bavero alzato, senza neppure aprir bocca gli consegnò una lettera sigillata, dopo di ché affrettando il passo, sparì dietro l’angolo in direzione del Duomo.

Antonio rimase lì impalato con la lettera in mano per qualche istante; poi con un brivido d’ansia fece ritorno a casa dove l’aprì. Era una minaccia anonima, scritta con lettere ritagliate da giornali che gli intimava di non rivolgersi alla polizia se non voleva subire qualcosa di molto serio,  e poi di smettere di "giocare con la legge."

Intuiva che la sua brillante e stravagante prestazione aveva dato fastidio e attirato l'attenzione di qualcuno poco incline agli scherzi; eppure c’era qualcosa che non gli tornava. L’uso delle lettere ritagliate pareva un ingenuo stereotipo da film poliziesco. Sinceramente, non capiva come quella sua virtuale vittoria riguardante un caso veramente di scarsa importanza, potesse dar noia a qualcuno. Nei giorni successivi tentò con mezzi propri di scoprire chi potesse essere l'autore della lettera, ma ogni ricerca si rivelò infruttuosa.

La minaccia anonima che era stato tentato di considerare non troppo sul serio cominciò, con il passare dei giorni, a provocargli qualche sonno agitato. Un mese dopo nella cassetta della posta trovò un’altra busta, uguale in ogni dettaglio a quella consegnata dall’uomo nero, ma senza che dentro ci fosse nulla. Era chiaramente un richiamo alla precedente minaccia. Nonostante le iniziali e razionali perplessità sentiva salirgli una forte preoccupazione.

La sua vita di avvocato astuto e sicuro di sé si stava un po’ annodando. Quella presenza oscura che lo aveva preso di mira, combinata all’infelicità per i suoi rimpianti familiari, aveva messo in moto, in lui, un confuso lavorìo interiore rivelando, prima di tutto a se stesso, una profonda complessità psicologica.

Nato a Prato e laureatosi all’ateneo fiorentino si era sposato con Stella, la colta e bella ragazza pistoiese. La coppia, di comune accordo, si era stabilita a Pistoia dove, in pochi anni l’avvocato si era fatto strada come penalista.

I suoi genitori originari del Salento, arrivati nella città laniera alla fine degli anni cinquanta avevano fatto di tutto per farlo studiare. Il giorno della sua laurea era stato il più bello della loro vita, seguito ma solo in seconda posizione dal giorno del matrimonio tra Antonio e Stella. Non glielo dissero mai ma i due vecchi erano un po’ perplessi riguardo alla sposa; la vedevano troppo “moderna”.

Dopo dodici anni dunque la coppia rischiava di dissolversi. Non avendo figli Antonio era in procinto di rimanere solo, brillante avvocato, ma solo. In quei mesi due, tre volte si erano incontrati, ma la donna, tristemente, non aveva intravisto in lui nessun segnale di cambiamento. Vedeva ancora il solito narcisista che non riusciva a mettersi in discussione.

Eppure in lei la brace dell’affetto covava tuttora sotto la cenere della delusione. Eppure lui era stato felice con Stella. Gli avevano detto che alla base delle rotture di una coppia ognuno dei due dovesse cercare in se stesso il proprio concorso di colpa, ma Antonio non riusciva a trovarne.

Adesso, insieme alla vivacità delle sue arringhe sentiva di star perdendo il consueto smalto, e temeva di perdere presto anche le cause. Diventò nervoso e scostante e i suoi colleghi non lo riconoscevano.

 – Erano già passati due mesi e mezzo dalla brillante causa delle “penne di madreperla” quando una sera, era già in ciabatte e davanti alla televisione, squillò il campanello di casa. Non aspettava nessuno. Gli pareva di star bene da solo e la sua vita sociale si era rarefatta.

Prima di premere il pulsante di aperura del portone si affacciò alla finestra, da un po’ di tempo aveva preso quell’abitudine. Non si vedeva bene, la luce del lampione era fioca e la persona aveva un cappello, così domandò chi fosse.

– Signor Mastropasqua sono io… sono il Tontoli. – disse l’uomo alla porta levando il viso all’insù.

Antonio era meravigliato, si sarebbe aspettato chiunque, magari il misterioso uomo nero, ma non il “nebbia”. Lo fece “accomodare” e gli versò, in un bicchierino di vetro dipinto e smaltato, l’amaro Averna.

– Come va signor Vasco? – gli chiese con evidente aria interrogativa che non derivava certo dalla curiosità sul suo stato di salute. Aveva pensato, come motivo dell’imprevista visita, a qualche pendenza, a qualche strascico derivante dal pagamento del veloce procedimento penale che, come parte perdente, avrebbe dovuto aver già pagato. 

Il Tontoli al momento della sentenza che l’aveva considerato colpevole di una pur lieve colpa, pareva non aver battuto ciglio. Nei giorni successivi il Mastropasqua ci aveva un po’ pensato e gli era rimasto il vago dubbio di aver difeso un ladro, ma poi si era completamente dimenticato di lui.

– Avvocato… – prese a dire il possidente di boschi. –  … io sono una persona che fa i fatti suoi e non vedo l’ora di scappare in montagna … ma, non so a lei, ma a me, e gli assicuro che prima di venire qui stasera a rompere le scatole ci ho pensato bene…  quel processo non mi quadra. – Mastropasqua che, rilassato aveva intanto allungato le gambe, lo ascoltava attento.

Vasco Tontoli continuò dicendogli che un giorno, mentre imbracciava la sua doppietta per mirare a una lepre, gli era venuta come un’illuminazione: – La penna stilografica l’ha presa il maresciallo, avvocato. – Che cosa dice Tontoli… come fa a dirlo? – rispose l’altro che, inarcando le sopracciglia, si era tirato su a sedere.

Il cacciatore raccontò che, mentre si accingeva a sparare a quella lepre che poi gli era scappata, come aggiunse rammaricandosi sottovoce, si era ricordato: – Quella sera urtai la testa sul bancone e rimasi tramortito per qualche istante, ma ricadendo sul pavimento. Non me n’ero ancora reso conto ma ora lo so, avvocato. Prima di rialzarmi aggrappandomi alla vetrina quel grasso marpione ha avuto tutto  il tempo di abbrancare quelle quattro o cinque penne di valore … sono quasi sicuro. –

Mastropasqua rimase in silenzio. Poi sussurrò, mentre guardava fuori dalla finestra verso il lampione fioco: – Mi era anche passata per la testa questa strada… – Poi si rivolse al Tontoli: – Non penso sia comprovabile… non so… adesso sarebbe complicato… e forse inutile. Ci devo pensare qualche giorno. – La capisco avvocato… la capisco, me lo immaginavo. Comunque glielo volevo dire. –

Rivolti verso la televisione che, accesa a basso volume era sintonizzata su un film anni ’40 con Clara Calamai, stettero entrambi seduti ancora per un po’; poi il possidente disse qualcosa riguardo alla bellezza di quella donna e infine  si alzò: – Devo andare avvocato, domattina mi alzo presto.

L’altro esitò ad alzarsi per accompagnarlo alla porta; gli pareva di avvertirne l’educata delusione. L’acuto avvocato si sentì ancor di più un fallito.

Il Tontoli stava già scendendo le scale del vecchio condominio, quando il Mastropasqua che si era fermato sul ballatoio gli chiese: – Domattina va a caccia? – Sì… perché?... vuol venire? –

 

 – Alle sei e mezzo del mattino seguente percorrevano già la stradina in salita, tortuosa e stretta che si dipartiva da Pracchia, circondata da rigogliose faggete e da solenni castagneti tenuti puliti come salotti.

– Guardi avvocato, quelli da questa parte, da qui in su, sono tutti miei. – Accidenti… che bellezza… ma li governi da te?... scusa, perché non ci diamo del tu?, si fa prima. – Il Tontoli sorrise; ne ebbe piacere.

Il Mastropasqua si guardava attorno e osservava in su i boschi, sembrandogli di essere in mezzo ad un mare di verde; la vegetazione era talmente fitta e i colori così intensi. Via via che la macchina ansimante come uno stanco viandante saliva verso il paese, lo sguardo si perdeva in quelle distese di castagni, faggi e poi ciliegi ed olmi, e poi più in alto le grandi macchie scure di abeti.

La sua casa colonica, un po’ isolata e non lontano dal molino del Giamba, delle cui macine si sentiva appena  il rumore sordo, era una modesta casa in pietra a due bassi piani, come tutte le abitazioni di quel paese; casa di carbonai e boscaioli, come spiegò il Tontoli. Da lì, preceduti da Argo il suo compagno fedele, l’impaziente ma già un po’ anziano setter inglese, dopo avere attraversato un secolare ponte in legno presero per il sentiero che, risalendo quei maestosi castagneti conduceva nella sua zona consueta di caccia.

– Lo sai avvocato che da questi un tempo si ricavava il pan di legno?… ha sfamato generazioni intere. – disse Vasco Tontoli, interrompendo il silenzio dei primi minuti di marcia. – Già…. l’ho sentito dire… non c’era un gran ché da mangiare eh? – Eh sì, oggi in proporzione sarei ricco… ora con le castagne ci fanno un po’ di farina dolce per i necci, un po’ di ballotti e qualche involto di frugiate da vendere  alle cantonate delle strade…. ma io mi contenterei di poco avvocato… son’io e la giubba… – … già, già…  anch’io per quello sarei solo, a parte i miei genitori che stanno a Prato… –  concluse il Mastropasqua a voce bassa. Pareva voler aggiungere qualcosa ma non lo fece.

 

 – Stavano percorrendo di buon passo quella che una volta era l’antica via di collegamento tra Pistoia e Bologna. All’inizio di gennaio il bosco misto di faggi e querce, che intanto aveva preso il posto dei castagneti era come in letargo. I toni grigi invernali della spoglia vegetazione contrastavano con la lucentezza di quella giornata di sole invernale, mentre in lontananza si intravedeva il fulgore di alcune montagne innevate. Entrarono in una boscaglia più fitta e più intricata di sottobosco.

– Stai attento avvocato… questo è posto da cesene e tordi, di beccacce da qualche inverno se ne vedono meno. – Stai tranquillo, io sparo poco, vengo a caccia ogni morte di papa… ti lascio tutto a te… – rispose sorridendo  il pratese. Vasco Tontoli rise forte: – Figurati… io ci vengo spesso, perché sto bene solo da queste parti, però… –

Si interruppe, poi stette ad ascoltare e prese la mira, ma non sparò: – Mi dispiaceva, erano due femmine… io ce l’ho con quelli che criticano la caccia, perché non la capiscono, però se penso a qualcuno che conosco che porta la doppietta solo per sparacchiare ai fringuelli...–

Dopo una pausa riprese: – Sparerei più volentieri a quel maresciallo. – aggiunse questa volta con un riso amaro che gli si spense in bocca mentre si girava per vedere la faccia il Mastropasqua.

L’avvocato pratese avrebbe fatto a meno di entrare in quell’argomento; ci aveva pensato anche quella notte ed era stato per decidere di mancare all’appuntamento. Non l’aveva fatto soltanto perché l’altro, incredibilmente, non aveva ancora il telefono.

– Senti, ci studierò sopra… tu vorresti fare qualcosa ma la vedo molto dura; abbiamo poco o niente in mano, solo una sentenza già emessa e un ricordo riaffiorato dopo molto tempo. Senza contare che io ci farei una figura di … capisci quello che voglio dire, no?... ma guarda quello che ti dico, se ci fosse un modo concreto non me ne importerebbe nulla… dopotutto ci ha presi in giro tutti e due. –

Dopo quel breve monologo che il cacciatore intuiva essere stato spiacevole per il compagno di caccia, fecero silenzio per un po’. Poi Vasco disse che quello fosse il posto giusto e presero a muoversi con circospezione. Infatti, via via trovarono da sparare e con una certa soddisfazione di entrambi, anche per le prestazioni spettacolari di Argo quando si fermava nella punta o per la bravura nel recupero. Dopo qualche ora i carnieri erano abbastanza pieni così presero la via del ritorno.

Prima che finisse la stagione della caccia tornarono all’Orsigna altre due volte ma quel fatto non fu più ripreso, né quella sera né dopo, e per molto tempo.

Al Mastropasqua quei posti piacquero e molto. Non c’era mai stato ma se ne innamorò anche lui.

Trovava che la compagnia di Vasco, contrariamente al pregiudizio che si era formato ai tempi del dibattimento fosse piacevole e riposante; a parte l’argomento sensibile che entrambi avevano ormai cura di evitare, con lui, che aveva fatto solo la terza media, l’avvocato poteva parlare nel merito di tutto un po’. Così vi tornò insieme anche dopo il 31 gennaio, anche soltanto per camminare.

 – Un giorno di sole coperto a tratti da certe nuvole bianche che si rincorrevano, si era a fine febbraio e l’inverno mordeva ancora, oltrepassata Casa Cucciani, si inoltrarono in un fitto bosco di alberi dalle enormi radici che fuoriuscivano dal terreno come tentacoli. Alcune di forma rigonfia altre allungate e attorcigliate come  grossi nodi parevano voler abbracciare chi volesse passare di lì.

Il cacciatore stette parecchio in silenzio. Non aveva la solita faccia distesa; guardava in terra quelle radici come se avesse l’accurato compito di scansarle; pareva rimuginare qualcosa. Più di una volta, ma senza farsene avvedere, stette per aprir bocca; ma poi ingollava le parole.

Appena prima di arrivare in una radura pianeggiante si voltò indietro:– Ti porto a vedere una cosa strana Antonio… – In mezzo a quello spiazzo vi troneggiava un grosso olmo tutto piegato in avanti a cui, sul tronco qualcuno vi aveva apposto due occhi. Antonio, sorridendo, si volse all’amico con aria interrogativa.

– Ce li ha messi un giornalista, sai uno di quelli che girano il mondo… gli occhi li ha portati dall’India. – E quindi? … icchè vorrebbero significare? – Si chiama Terzani… lui dice che le piante hanno un’anima e che vanno rispettate… così appare davvero come una cosa viva. – Però!… – mormorò l’avvocato incuriosito fermandosi a contemplare quell’albero singolare per alcuni istanti.

 – Nel primo pomeriggio attraversarono delle radure di erba e felci dove il sole quel giorno non era ancora riuscito a togliere il ghiaccio leggero; intorno, a parte lo scricchiolio allegro che il ghiaccio faceva sotto ai loro piedi, c’era un’atmosfera di misterioso silenzio.

Quel silenzio che a un certo punto  fu interrotto dal Mastropasqua: – Lo sai, avevo proprio  bisogno di passare giornate come questa… mi rimettono al mondo… negli ultimi tempi mi sento, come dire?... un po’ scoglionato. Qui mi riconcilio con me stesso, almeno un po’. –

Il Tontoli capì; e lui aveva quella cosa da dire che gli sembrava importante senza esserne sicuro, ma la prese alla larga. – Mi fa piacere che ti piaccia la montagna… io a volte ho la tentazione di non tornarci più in città, ma te hai un bel mestiere, e ci sai fare… no? –

Tacquero ancora per un po’ poi Vasco, esitando, aggiunse con un filo di voce che non pareva la sua: – Sai quel maresciallo? – Chi? quello?…– … sì quello. – L’avvocato rallentò il passo: – Che è successo? –

Il cacciatore allora si fermò; già pentito prima di aprir bocca ma ormai aveva da completare il discorso: – Non lo so se ha fatto qualcosa, sono solo voci, ne parlavano al bar Bocchio…… cioè? che voci? – Pareva che lo Scozzafava, tale era il nome del maresciallo, fosse stato interrogato in questura per certi affari poco chiari, insieme ad altre due figure residenti a Lucca.

– Parlano di peculato e concussione… ma sono ancora notizie vaghe… io poi un so neanche icchè vuol dire. –

– Ah !... – fu l’unico commento dell’avvocato che a quelle parole aveva sgranato gli occhi.

Ormai a Vasco, nonostante avesse avvertito lui stesso della vaghezza dell’informazione, la cosa gli ribolliva. Poco dopo non potè fare a meno di ritornarci sopra, anche se evitò di chiedergli come mai lui, che era del mestiere, non ne sapesse ancora proprio nulla: – Quello lì… io me lo sentivo, me lo sentivo... – con quelle parole volendo dire più di quello che dicevano.

L’avvocato non chiese altro fino a sera, ma si capiva che la faccenda lo avesse colpito.

Mentre facevano la strada di ritorno, ormai era buio e si trovavano all’altezza di Cireglio, d’un tratto il Mastropasqua sbottò: Lo sai icché ti dico? –  proferì tutto ad un tratto, animandosi, mentre i suoi occhi scintillavano. – Domani voglio andare in questura e capirci qualcosa… –

E il viso gli si torse in un sogghigno. Vasco non potè vedere né quegli occhi scintillare né il sogghigno, ma si avvertì nell’abitacolo come un alito di eccitate vibrazioni, e fu come li avesse visti.

 – Il processo era stato riaperto piuttosto celermente, tenendo conto dei nuovi fatti accertati.

Il maresciallo Scozzafava, in realtà era da tempo sotto controllo, fortemente sospettato di illegalità varie. Più di un’intercettazione avevano rivelato finalmente quanto egli stesse disonorando il decoro dell’arma, “nei secoli fedele”. Il carabiniere era a capo di un’organizzazione di estorsioni e corrutele e, l’uomo nero misterioso che si era accostato quella sera ad Antonio era un suo sodale.

Probabilmente lo volevano impaurire, e ci erano riusciti. Temevano, vista la sua fama di avvocato, che prima o poi, partendo dalla verità di quel furto estemporaneo e improvvisato, potesse risalire alla loro attività illecita.

Il maresciallo, dall’apparenza insospettabile, quella sera era entrato in quell’esercizio commerciale con il proposito di verificare se valesse la pena di pianificare un tentativo di ricatto e concussione, ma poi, ingolosito da quelle penne gioiello e  dalla circostanza, inopinatamente aveva colto l’attimo. 

– Stella, che ne dici di questi posti? – Sono bellissimi Antonio. –

Avevano già passato Casa Cucciani da un po’ e Stella propose, deviando dal sentiero delle radici simili a tentacoli, di inoltrarsi dentro al bosco fitto. Si fermarono proprio sotto un’enorme quercia.

– Gli antichi adoravano gli alberi forti, dall’ampia chioma come questo, Antonio, lo sapevi?, alberi dal tronco possente che assorbono gli umori della terra, che filtrano e accumulano l’energia del sole… lo sapevi Antonio?

L’avvocato rise. – Perché ridi, non ci credi? – Ci credo, ci credo. – le rispose con gli occhi socchiusi.

Con un braccio la strinse forte, mentre con l’altra mano cercava di insinuarsi dentro alla camicetta. Appoggiatala al tronco possente, cercò poi di slacciarle i jeans.

– Antonio… ma che fai? sei grullo?, ma ti sembra il caso?... smettila. – Stella, divincolatasi da quella stretta, rise anche lei. Era felice.

Si erano incontrati sia prima che dopo la revisione del processo e lo aveva visto subito molto cambiato. Lui le aveva raccontato tutta la storia delle penne stilografiche e della crisi che ne era seguita, aprendo il suo animo come non aveva mai fatto con lei. Ad un certo punto le aveva detto: – Lo sai? mi sono innamorato… – Lei era sbiancata e lo aveva guardato con occhi interrogativi.

– Mi sono innamorato della natura, dei boschi e delle montagne, Stella. – Le aveva spiegato, mentre lei lo ascoltava a bocca aperta, come aveva fatto, per merito del “nebbia”, il suo singolare cliente e adesso amico, a conoscere la zona dell’Orsigna e quanto si sentisse rigenerato respirando e camminando in quei posti. Le pareva un altro.

Tornarono presto insieme. Quel sabato di Aprile era già la seconda volta che avevano ripercorso la stretta strada da Pracchia.

Stettero a lungo abbracciati sotto a quella grande quercia. – Antonio, la percepisci l’aura del bosco? … – …l’aura, che aura? – Ma come? te l’ho spiegato prima. Gli alberi hanno una vita, respirano e sentono la presenza amica. – Ah, già… è vero, mi pare di sentirla. – sorrise l’avvocato.

Più tardi arrivarono alla radura dell’albero con gli occhi, ma Stella non aveva bisogno dell’artificio degli occhi indiani sul tronco dell’olmo, per sentire quella vita: – Antonio… ma la senti ora? –  

 

– fine –

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