GABRIOLA – 1428 –

GABRIOLA – 1428 – Martuccio, Giovanni, Maso, Bernabò, Gabriola

MASACCIO 2

Addì, 15 di febbraio A.D. 1427

Qualcuno, un tempo, deve avermi detto dove sono nato ma purtroppo non me ne ricordo, certamente in un borgo della valle dell’Arno; se più a monte o più a valle non saprei. Ricordo invece quando sono nato, nell’Anno Domini 1400, una cifra bella tonda. Quando fui abbastanza grande da chiedermi dove fossi, vivevo a San Giovanni in Altura, (*1) da uno zio paterno di nome Bernabò, essendo rimasto orfano quando avevo dieci mesi. Lo zio, da tempo immemorabile lavorava come salariato da messer Simone Cassai, il nonno paterno di Scheggia, un conosciuto fabbricante di casse; casse di tutti i tipi, da quelle decorate artisticamente a quelle semplici per i meno benestanti.

Non avendo quella gran memoria – a quanto pare somiglio al babbo il quale, come mi raccontano, ogni tanto dimenticava d’avermi posato sotto il fico per rincorrere qualche vacca che si era allontanata – dicevo dunque, che avendo poca memoria farò fatica a mettere insieme questa narrazione. Tuttavia, mi sono deciso a cominciare perché lo Scheggia mi preme a farlo, senza sapere bene perché lui ci tenga tanto.

Chi era e chi è Scheggia? Giovanni era ed è il mio miglior amico. Aveva solo un anno più di me ma, all’epoca aveva il diavolo in corpo. Non stava mai fermo ed era magrissimo; per quello lo chiamavano lo Scheggia. Siamo cresciuti insieme fin da piccoli giocando in mezzo alle pozzanghere della strada e tra i fossi dei campi. Lui aveva un fratello più giovane di due anni, Tommaso, o meglio Maso come preferiva essere chiamato. Anche Maso era un ragazzo estroso ma in modo diverso. A volte pareva assentarsi a contemplare non si sa che cosa, oppure cominciava a fare schizzi bellissimi su una pietra, o su quello che trovava, con un carboncino.

All’età intorno agli undici anni lavoravamo tutti tre nel laboratorio di messer Simone. Il patrigno dei due fratelli, tal Tedesco di Mastro Feo, era un vedovo benestante molto più anziano della moglie, monna Jacopa di Martinozzo. Egli che faceva il mercante e che poteva permettere a tutta la famiglia una vita agiata, voleva che anch’essi, come già facevo io dando una mano allo zio, non stessero con le mani in mano. Non era quello il motivo ma i miei amici non riuscirono mai a volergli davvero bene; il loro vero babbo, Giovanni di Mone Cassai Guidi, notaio, era morto molto giovane da ben sei anni, lasciando un gran vuoto.

Giovanni detto lo Scheggia e Maso abitarono a San Giovanni in Altura fino al maggio del 1418 quando, con la madre rimasta nuovamente vedova si accinsero a trasferirsi a Firenze.

Io fui molto preso dal dubbio; avrei voluto seguirli nella città gigliata. Sentivo che a San Giovanni, borgo modesto abitato in gran parte da villani, fabbri, porcai e lavandaie non avrei trovato la strada a cui sentivo di aspirare. Anch’io avevo appreso a decorare le casse ed ogni genere di mobilia e a quanto pare con una certa abilità, tuttavia, ero assai attaccato a quello zio che mi aveva raccolto orfano molto piccolo e allevato. Lui, ormai vecchio, rimasto solo e senza figli, mi voleva davvero bene, più che a un vero figliolo e proprio per questo capì. Esitai a lungo e alla fine, non solo zio Bernabò volle in tutti i modi che partissi, ma che lo facessi con il conforto di quasi tutti suoi risparmi: – ... tanto a me, Martuccio, a icché mi servono... te invece tu sei giovane... –

 

Quando raggiunsi Firenze a piedi, non avendo con me che una scarsella ben assicurata alla robusta cintura di cuoio e una bisaccia, i due fratelli erano arrivati in città già da un mese e avevo qualche dubbio su come avrei fatto a ritrovarli. Mi pareva di ricordare che, grazie a un loro parente, avessero preso un alloggio a pigione nei pressi della chiesa di Santa Maria del Carmine, ma non ne ero proprio sicuro avendo quella memoria un po’ barlaccia.

Era un bel giorno di fine giugno e lungo la strada che costeggiava l’Arno, la natura già rigogliosa perfino sui cigli e sui fossi attenuava la mia malinconia. Mi affacciai sull’argine per vedere il fiume tranquillo; la morbida luce gialla sembrava scorrere insieme alle acque, marezzata di fiamme nelle increspature della corrente. C’erano anche stormi di uccelli, forse merli o storni che volavano come mossi da un’energia comune; tutto ciò mi dava una gran sensazione di libertà. Eppure, lasciavo una persona cara e il borgo che mi aveva visto crescere per un futuro forse fortunato, forse incerto.

Poi, a mano a mano che mi avvicinavo alla città, arrivato in prossimità delle imponenti mura che lasciavano scorgere torri svettanti e le punte acute di alcuni campanili, sentivo salire l’eccitazione, immaginandomi le cose nuove e le bellezze di cui avevo sentito parlare. Costeggiando la sponda sinistra dell’Arno mi trovai a Porta San Niccolò e, non avendo niente con me salvo le mie poche vesti, la oltrepassai senza difficoltà.

Le strade piene di botteghe, la gente che si aggirava indaffarata per ogni strada, i bei palazzi, tutto era nuovo per me, ogni cosa induceva il mio ancora giovane cuore all’ottimismo. Vinto dalla curiosità, quasi senza accorgermene, mi diressi verso il centro della città. Di fronte all’antico Battistero, la nuova cattedrale intitolata a Santa Maria del Fiore, pur a facciata incompleta, insieme a quel campanile così armonico, mi fecero un effetto straordinario di bellezza, da starsene a capo all’insù come in contemplazione. Nelle strade intorno vidi esposte, all’esterno delle botteghe, stoffe di seta e d’oro, gioielli, dipinti, armi cesellate e ricchissime.

Con stupore vidi arrivare un maestoso corteo con alla testa chierici e preti, monaci e frati, con ricchissimi paramenti di vesti d’oro e di seta e di figure ricamate. Subito dietro seguivano compagnie d’uomini secolari, anch’essi con ricchi abiti e raggruppati a seconda delle varie regole. Camminavano a coppie di due, cantando devotamente salmi e laudi, e accompagnati da strumenti musicali.

Finalmente realizzai che quel giorno fosse la vigilia della grande festa di San Giovanni Battista, il Precursore di Gesù Cristo e patrono della città. Anche se già sapevo qualcosa seppi in seguito che tale festa, in Fiorenza, fosse straordinariamente sentita, molto più che a San Giovanni in Altura e che si svolgesse nell’arco di tre giorni ricchi di eventi. Il giorno seguente sarebbe stato il 24 giugno, la vera e propria ricorrenza del patrono.

Ero affascinato da tutta quell’eccitazione, tuttavia mi riscossi; dovevo affrettarmi a tornare verso l’Arno per cercare Maso e lo Scheggia. Grazie ad un’indicazione, attraversato il ponte, arrivai presto in piazza del Carmine dove presi a chiedere, se qualcuno l’avesse saputo dove abitavano, arrivati da non molto da San Giovanni, due giovani con la loro madre.

Chiesi e cercai per ore ma nessuno sapeva nulla. Ero stanco ed entrai in quella chiesa grande dalla facciata ancora grezza. Era singolarmente spoglia e, sebbene quella nudità non m’inducesse affatto a rivolgermi a Domine Iddio, poter sedere su una delle vecchie panche mi fu di gran conforto, avendo piedi e schiena doloranti. Stava arrivando il buio e con il buio quelle strade diventavano deserte; pensai fosse meglio tornarmene verso il Duomo.

Arrivato presto nella zona del mercato vecchio, da cui si dipartiva un dedalo di stradine fitte di botteghe di ogni genere e ancora animate di gente notai, vicino ad un’alta colonna che seppi poi chiamarsi Colonna dell’Abbondanza, un’invitante locanda la cui insegna in ferro dipinto e illuminata da una debole torcia ad olio ne indicava il nome di “Locanda dell’Oca”.

Avevo un buon gruzzolo nella scarsella ma esitavo a intaccarlo; era frutto di tanta fatica, mia e del povero zio che avevo lasciato in quella casuccia e che mi immaginavo in quel momento davanti al fuoco a scaldarsi la zuppa. Lì fermo in piedi, indugiai a lungo rimirando come un allocco quell’insegna e, chissà perché, pensai ancora allo zio Bernabò; forse a causa della schiena che mi faceva confondere avendo camminato troppo. Il povero vecchio diceva più volte che il mio disturbo fosse il secondo lascito, dopo quello della scarsa memoria, ricevuto da suo fratello, persona gracile e scomparso molto giovane. Non ricordavo nulla né di lui né della mamma morta nel partorirmi e neppure della zia, anch’essa venuta a mancare da molto tempo. Zio Bernabò era la figura che rappresentava tutto il mio passato e nella quale era condensato ogni mio affetto. Mi stavo pentendo di averlo lasciato solo.

Tuttavia, la fame – il pane e la crosta di formaggio che mi ero portato dietro li avevo divorati per strada – e il freschino della sera, mi indussero ad avvicinarmi alla porta della locanda. Mentre stavo per entrare vidi con la coda dell’occhio che, non lontano, due uomini alti e grossi mi stavano guardando, ma non detti alla cosa eccessiva importanza pensando d’avere attirato la loro attenzione forse, per la mia goffa aria di campagnolo.

La stanza buia e fumosa era grande e conteneva parecchi tavoli e panche. Appena entrato fui investito da un piacevole calore e da un odore di buon cibo. Il padrone, un magro omino dalla faccia grinzosa, al vedermi entrare si dilungò in ripetuti inchini mentre si fregava le mani l’una con l’altra. Sorrideva con ostentazione, mostrando i due canini gialli che spiccavano ai lati della bocca.

Chiesi che cosa avessero di pronto e dopo pochi minuti quell’uomo, facendosi perdonare della sgradevole impressione che mi aveva suscitato, portò una zuppa di ceci – almeno all’odore – così buona da far rivivere i morti, pane di segale e formaggio pecorino. In quella stanza illuminata da qualche candela, preso dall’appetito e distratto dalla buona zuppa non mi ero ancora guardato attorno. Non appena il ventre cominciò a sentir meno il pungolo della fame e gli occhi presero ad abituarsi all’oscurità, ciò che vidi poco lontano attirò la mia attenzione.

Insieme a pochi avventori c’era, in piedi, una giovane donna che stava servendo ad un tavolo. Non potei fare a meno di osservarla; era una fanciulla sottile ma ben fatta e vestita di velluto di seta ricamato sotto al quale si intuivano armoniche curve, mentre una ghirlanda di fiori di campo adornava i suoi capelli sciolti e lucenti. Era molto graziosa, una presenza inaspettata in un posto come quello.

Seppi in seguito che Gabriola, questo il suo nome, fosse giovanissima ma sembrando molto più matura della sua età, e che fosse figliastra di secondo letto dell’oste due volte vedovo. Il quale – e la cosa il giorno che lo seppi mi avrebbe procurato grande disgusto – non disdegnava affatto che ella si concedesse ogni tanto a qualche visitatore, purché fosse benestante e prodigo di ricompensa o, meglio ancora, un pollo facile da spennare.

Quella sera di tutto ciò non ne sapevo ancora nulla e ancor meno l’avrei immaginato. Lei si avvicinò e mi rivolse la parola: – Avete ancora desiderio di qualcosa, forestiero? – Non so perché ma mi sentii imbarazzato e, lì per lì non seppi rispondere. La ragazza, mentre si aggiustava una piccola ciocca di capelli su di un lato non smetteva di guardarmi pur senza sorridere; una strana e sfrontata grazia le illuminava il viso. Io non sono e non sono mai stato un granché, né apparivo troppo virile o particolarmente interessante nonostante la dimensione del mio naso più generosa del solito. Non vestivo vesti sontuose come usavano fare le persone importanti di Firenze ma, ingenuamente non mi chiesi il perché di quell’inaspettato interesse. Ne ero semplicemente affascinato.

Nondimeno, così mi pareva, a lei dovetti fare una certa tenerezza oppure, cosa ancor più probabile, le apparvi molto buffo e impacciato perché scoppiò in una improvvisa risata rivelando i suoi bellissimi denti bianchi. Alcuni avventori che sedevano in fondo al mio stesso tavolo risero del suo riso e di sicuro risero anche di me. In quel mentre, senza volere, le sfiorai la mano che aveva appoggiato sul tavolo. Quel leggero tocco innescò in me un imprevisto turbamento, come un giramento di testa per aver bevuto del vino che ancora non avevo. Avendole poi richiesto appunto del vino, ritornò con una larga tazza di quel nettare rosso. Abbassandosi per versarne nel bicchiere mi si avvicinò quel tanto da poterne aspirare l’odore, non tanto del vino quanto della sua pelle, un buon odore di lavanda. La guardai allontanarsi mentre ondeggiava leggera e non potei fare a meno di immaginare la forma del suo corpo nascosto dalla bella veste.

A diciassette anni ero ancora praticamente vergine; ricordai di quando, qualche mese prima lo Scheggia, più anziano di me solo di un anno ma più esperto e più sveglio, mi aveva condotto, tremante per l’emozione, da una donna di malaffare in un borgo vicino. Tornai deluso; lei era sdentata, cosa che mi sdegnò ed era vecchia, così mi parve. Non mi rimase niente di buono a cui ripensare nei giorni seguenti lasciandomi, come sgradevole strascico, in un prolungato stato di apatia.  Quando ebbi finito il pane e il pecorino lei, guardandosi prima intorno fece scivolare davanti a me un piccolo involto di carta e si allontanò. Lo aprii; in quel minuscolo fagottino c’era semplicemente una piccola ciocca di neri e lunghi capelli. Mi fece capire d’avermi scelto.

Chiesi all’oste, che con aria compiaciuta mi accontentò subito, una stanza al piano di sopra. Gabriola, che aspettai più del previsto con tremante impazienza, più tardi bussò alla porta. Recava con sé una tazza di stagno colma di vino aromatico che, con sguardo d’intesa, appoggiò sul tavolo. Ne bevvi una bella sorsata mentre lei disse di non averne ancora voglia. Gabriola sembrava esperta e sapeva quali corde dell’animo e del corpo avrebbe dovuto toccare.

Restammo in silenzio uno di fronte all’altra, rivolgendoci sorridenti occhiate. Non osavo carezzarla; rimasi a guardarla lasciandomi lentamente sopraffare da un contatto immateriale e dolcissimo che pareva essersi stabilito fra noi. Infine, ci abbracciammo; io tremavo.

Lei dovette sentire il battito del mio cuore mentre mi stringeva, mentre io sentivo il suo. Il profumo di Gabriola e il calore delle sue labbra mi scuotevano procurandomi un forte tremolio, ma quel tremito non mi impedì di salire da sotto alla sua veste leggera verso l’alto, carezzandole i fianchi sodi e i duri seni. Trepidando, scoprivo i punti del mio corpo dove si concentravano sensazioni mai provate. Con gli occhi chiusi, misi definitivamente tacere i residui scrupoli che mi avevano assalito poco prima pensando ai denari dello zio che stavo spendendo. Desiderai piuttosto che quei momenti di intensa voluttà, non finissero mai.

Quando all’alba mi risvegliai ero piuttosto intontito e la bocca era amara come il veleno. Pensai che Gabriola, raccolti i suoi vestiti, fosse uscita senza far rumore. Poi, a mano a mano che i fumi del vino facevano posto alla mia debole coscienza, mi assalirono inquietanti pensieri; mi chiesi finalmente come mai, dopo quell’amplesso, non mi ricordassi nient’altro che d’aver fatto un sonno profondo. Mi girai allora di scatto: – La scarsella! la scarsella dov’è? – Era lì in terra, lasciata in un angolo. Corsi ad aprirla; era floscia e vuota. Scesi allora da basso prima chiamando e poi urlando; era presto e non c’era nessuno.

– Che succede?... perché tanto chiasso? – disse sbucando da una porta e sbadigliando il magro omino dalla faccia grinzosa e dai canini gialli, ancora in camice da notte. – Ladri! siete tutti dei ladri, dov’è Gabriola?... dov’è? – gli gridai andandogli minacciosamente davanti al viso. Da un’altra porta sbucarono due grossi individui già vestiti in “lucco” nero e dal piglio deciso che si interposero tra me e l’oste, ciascuno sfoderando da sotto la veste un coltellaccio. Intuii fossero i due loschi figuri intravisti la sera prima sulla strada. – Di che cosa cianci? Una parola di troppo e sei morto! – mi intimarono.

Era tutto chiaro. Bisognerebbe rinascere daccapo, lo diceva sempre anche lo zio Bernabò; confuso da quell’aria di festa ero andato in giro bellamente con la scarsella quasi in vista, confidando nella robustezza della cintura di cuoio.

Qualcuno dall’alto mi gettò addosso la veste essendo ancora quasi nudo, la bisaccia e la scarsella, ahimè leggera e vuota. Mentre raccattavo la mia roba ebbi un sussulto nel vedere Gabriola, in piedi presso la porta delle cucine. In seguito ho avuto modo di rifletterci e, a tutt’oggi, mi sembra di poter dire avesse gli occhi lucidi. Tuttavia, non ebbi neppure il tempo di ripensare a nulla o di aggiungere alcunché; infatti, i due figuri mi spinsero subito fuori della porta; dopodiché, sbattendomi sul selciato, mi pestarono a forza di calci e pugni.

Ero dolorante e umiliato e la schiena, tra tutte le parti corpo era quella più disastrata. Era ancora mattina presto e realizzai di non poter far altro che vestirmi sotto gli occhi perplessi di un passante ebreo che, avendo assistito a tutto, premurandosi di fermare con la mano la sua chippà, corse via da quel posto. Afferrai la mia povera bisaccia e me ne andai via zoppicando; verso dove ancora non lo sapevo. Avevo voglia di piangere e di gridare. E non solo per le botte e per i fiorini defraudati, cosa che da sola mi pareva già una gran tragedia.

Addì, 18 di dicembre A.D. 1427

Riprendo ora questa mia narrazione, avendo avuto in questi ultimi tempi parecchio da fare.

A coloro che un giorno, trovando questi appunti vorranno perdere del proprio tempo per leggere di tali modeste vicende, parrà forse difficile capirci qualcosa. Nonostante l’evidenza di come si era svolto il fattaccio, in quella burrascosa mattina non fui soltanto deluso; ancor di più ero incredulo riguardo a Gabriola. Mi pareva impossibile e cosa crudele che mi avesse ingannato in quel modo e il fatto mi bruciava.

Camminai per un’ora o due per le strade di Firenze alla cieca, parlando tra me e me come un matto. Eppure, mi dicevo, insieme al mio mi era parso palpitasse anche il suo cuore; eppure, mi ricordavo che i suoi baci avessero come un fremito, proprio come i miei: – Eppure... come puote aver fatto credere... come puotesi fingere in cotal maniera?... quel fremito... quei palpiti...  – sussurravo e gesticolavo, non riuscendo a capacitarmi che il cuore di una donna potesse arrivare a tanto inganno.

Poi mi calmai parendomi finalmente tutto più chiaro. Realizzavo quanto facilmente, a una donna di malaffare, bastasse un cenno, un battito di ciglia per ingannare un uomo giovane. Sicuramente, e ciò confliggeva con il suo aspetto gentile, lei era in combutta con quei due loschi figuri che, all’ingresso della locanda, avevano già come pesato la consistenza della mia scarsella.

Tuttavia, rimanevo irrequieto e continuavo a parlare all’aria, avendo ancora una volta cambiato idea circa l’onestà della fanciulla, e parendo io certamente un mentecatto a chi avessi incontrato per la strada. Quando sentii fare il mio nome: – Martuccio!... Martuccio! – Era lo Scheggia. Mi guardò come si guarda una visione dell’aldilà; non credeva ai suoi occhi vedendomi così stravolto e con il viso gonfio di botte. Mi prese per un braccio e mi condusse a casa, la casa che avevano preso a pigione. Maso non c’era ma monna Jacopa, prima impaurita di vedermi in quello stato, mi calmò, mi curò le ferite e mi fece rifocillare.

Non mi ero sbagliato, anche loro appena arrivati si erano recati in piazza del Carmine ma avevano dovuto cercare un’altra casa, essendo quella fissata da tempo non più libera. Lo Scheggia si era arrabbiato arrivando quasi alle mani ma era stato Maso a calmarlo, avendo sentito di un’altra casa disponibile nel quartiere San Niccolò in Oltrarno, vicino proprio a Porta San Niccolò, quella attraverso cui ero arrivato a Fiorenza il giorno avanti.

Sono stato con loro alcuni anni come se quella fosse diventata la mia famiglia. Monna Jacopa fu per me come una madre, la mamma che non avevo mai avuto. Comunque, fin dal giorno seguente al mio arrivo in quella casa, nonostante fossi un po’ scosso e sbertucciato, mi misi a cercare un’occupazione.

Lavorai da un “beccaio” per un anno intero ma il lavoro non mi piaceva e mi dava noia alla schiena, dovendo dalla mattina alla sera squartare pezzi di manzo e di maiale, tirare il collo alle galline e così via. L’unica consolazione era che, tra un colpo di mannaia e l’altro sfogavo la mia rabbia, immaginando di aver davanti quell’oste magro e grinzoso e ancor più quei due figuri grossi come maiali, simili a quelli che dovevo sgozzare. Ancora non mi era passato lo sdegno e ogni tanto pensavo a come avrei potuto, non solo vendicarmi, ma anche riavere indietro i miei preziosi fiorini.

In mezzo a quei pensieri di cruenta rivalsa che vivevo nell’immaginazione, nonostante che in me fosse ormai tutto chiarito riguardo alle sue sicure colpe, non compariva mai Gabriola che continuava ad apparirmi invece nei sogni notturni.

Lo Scheggia, che era molto “fumino” e che andava a nozze nell’usare le mani, mi aveva proposto di entrare di soppiatto e di notte nella “Locanda dell’Oca” e farsi giustizia, dal momento che sugli sgherri di Cosimo di Giovanni de’ Medici non ci si potesse contare riguardo alla giustizia verso il popolo. – Quelli badano solo ai bordelli del padrone... e se l’oste gli dà di balzelli quanto dovuto... è in una botte di ferro. – Sapevo a mie spese quanto sarebbe stato pericoloso affrontare quella gente senza scrupoli e scoraggiai in lui quei propositi.

Intanto Maso si stava facendo strada. Entrato nella bottega di messer Tommaso Cristoforo da Panicale, detto Masolino per la sua bassa statura, si era subito fatto notare per la sua abilità e la sua leggerezza nel disegnare gli schizzi preparatori. Convinse quasi subito il suo maestro a prendere a bottega anche lo Scheggia e dopo un anno fece assumere anche me tirandomi fuori dai miasmi della macellazione. Io ero al settimo cielo; collaboravo con entusiasmo facendomi apprezzare anche da messer Tommaso Cristoforo.

L’altro Tommaso, cioè Maso da San Giovanni, il mio amico fraterno, nel giro di due anni divenne così bravo da oscurare la fama del maestro Masolino. La gente prese presto a chiamarlo Masaccio per la sua trasandatezza non volendo pensare ad altro che al suo lavoro. E lui amava quel nome. Gli sembrava che gli si addicesse e a tutti pareva che se ne facesse vanto. – ... è vero, paio persona astratta e indosso la prima veste che truovo... e non bado alle cure o alle ciance del mondo. E chi se ne importa delle vesti? – diceva a quelli che lo prendevano in giro.

Un giorno di festa, mi sembra fosse il Martedì Grasso del 1420, ma non ne sono sicuro avendo purtroppo questa vuotezza di testa, io e lo Scheggia ci trovavamo nei pressi del ponte Santa Trinita. Su quel ponte si svolgevano, come tutti gli anni, battaglie fatta di pugni e “sassaiole” e altri giochi guerreschi tra i giovani dei vari quartieri di Firenze. Le guardie e gli armati comunali cercavano di arginare gli eccessi ma al popolo, stipato lungo le vie adiacenti a vedere quello spettacolo, i “giochi” piacevano, pur costando ogni anno qualche ferito grave o addirittura qualche morto. Lo Scheggia fremeva, avrebbe voluto partecipare ed io lo trattenevo.

D’un tratto, volgendo lo sguardo tra la folla, per caso incrociai due occhi che conoscevo, occhi che tante volte mi erano apparsi nei sogni; era lo sguardo di Gabriola. Mi vide anche lei; si girò e prese a camminare svelta nella direzione opposta all’Arno. Facendomi posto a fatica tra la folla le andai dietro; lei prese a correre ed io feci lo stesso. Infine, la raggiunsi e l’afferrai per un braccio. Raggelai vedendola in quello stato.

Che vuoi?... lasciami andare... non ho nulla a che fare con te, non ti conosco. – Si vedeva che, avesse potuto, si sarebbe trasformata in una mosca pur di non mostrarsi in quel modo. Non era più la bella fanciulla che mi aveva tanto colpito e da cui mi ero fatto adescare con trasporto. Era smunta e smagrita e la sua veste era dozzinale come le sue basse scarpe, ma soprattutto recava sul suo cappello un nastro giallo, il segno dell’essere donna di meretricio. Come tale, mi venne da pensare in un attimo, stava rischiando la fustigazione o peggio, non avendo, appeso allo stesso cappello il sonaglio tintinnante dei lebbrosi, obbligatorio perché tutti la riconoscessero da lontano.

Lo Scheggia che mi aveva visto allontanarmi arrivò anche lui quasi subito e, vedendola capì chi fosse, rimanendo a bocca aperta. Lei si divincolava ma non la lasciai andare. Poi si calmò; prima guardandomi con ostilità e poi volgendo lo sguardo in terra. Sentendo che non si divincolava più le presi il viso tra le mani e la costrinsi a guardarmi. – Gabriola... – le dissi soltanto.

Al sentire il suo nome scoppiò in un pianto dirotto accucciandosi in ginocchio sul selciato e coprendosi il viso con le mani. Voleva dir qualcosa ma, scossa dai singhiozzi, non riusciva a spiccicare una parola.

Io e lo Scheggia ci guardammo negli occhi, ma non sapevo bene come il mio amico la pensasse in quel momento; fu lui invece, con un cenno, a suggerirmi quale fosse la cosa da fare.

Non dimenticherò mai quel suo gesto che decise poi, in qualche modo, della mia vita. Prendemmo Gabriola quasi di peso, tanto lei era affranta e leggera, io da una parte e lui dall’altra e, pian piano, la portammo da monna Jacopa. Quella donna era un angelo; dico era perché, come tutte le persone più buone, è venuta presto a mancare, e precisamente un anno fa a causa di un mal sottile che si portava dietro da tempo.

Vista in quel modo, con il viso ancora lavato di pianto, mortificata e adesso ignuda del precoce ruolo di donna di malaffare che ostentava per sopravvivere, Gabriola si rivelò fanciulla fragile e giovanissima quale ancora era. Jacopa notò il cappello con il nastro giallo ma non fece domande; la lavò, la pettinò, le dette una veste decente e poi la mise a dormire. Dormì un giorno e una notte.

Ripresasi e meravigliata di essere in mezzo a persone che non le volevano male, come da tempo non era abituata a sentirsi, pian piano si aprì. Prima facendo con pudore solo qualche accenno alla sua vicenda, e poi aprendosi sempre più; alternando pianto ad espressioni più serene e riconoscenti. Ogni tanto i nostri occhi si incrociavano quasi stupiti di potersi riconoscere dopo due anni, dopo quella notte.

Un giorno raccontò che, proprio da quella notte lei non aveva avuto più pace. Il suo patrigno, un uomo insensibile e avido, avendola vista quella mattina commossa per l’accaduto e avendo capito che lei non avrebbe più voluto fare quelle ignobili ruberie a nessuno, la fece oggetto di continui sgarbi fino a farla quasi morire di fame. D’altra parte, non voleva che se ne andasse nella speranza di farla rinsavire, perfino chiudendola in camera. Dopo qualche mese di quella vita insopportabile una notte, rintuzzando a fatica le lacrime, riuscì a scappare.

– In quella locanda che era stata di proprietà del mio vero babbo io v’ero nata. Mia madre, rimasta vedova, si risposò, ahimé, con quell’individuo spregevole che un giorno gliela carpì con l’inganno. –  Gabriola, davanti a monna Jacopa si vergognò di aggiungere che ogni tanto il patrigno la faceva prostituire con gli avventori più facoltosi, ma la buona donna capì benissimo da sola, sapendo che l’avevamo raccolta per strada mentre faceva l’unico mestiere che aveva imparato a fare e che le permetteva di non morire davvero di fame.

Una volta, rimasta sola con me, arrossendo, mi rivelò che quella notte, dopo quell’amplesso dolcissimo che, come disse in un sussurro, non dimenticherà mai, e dopo che il vino drogato aveva fatto il suo effetto, avendo ancora in mano i fiorini prelevati dalla scarsella, aveva indugiato nel guardarmi mentre dormivo. Quel che era rimasto della candela faceva ancora un po’ di luce, illuminando i miei capelli ricci. Mentre le batteva ancora il cuore, pensò fossi diverso dagli altri uomini con cui era giaciuta.

Ripensandoci a distanza di tempo, ritengo evidente che ciò possa essere successo soltanto per qualche misteriosa e inspiegabile alchimia d’amore e non tanto per la mia avvenenza, come era evidente ed è tuttora il mio grosso naso.

In tutti i casi, come disse, da me non si era sentita trattata come al solito: – Ti eri rivolto a me con rispetto e gentilezza come avresti fatto con la tua vera donna o comunque con una donna onorata... senza dare per scontato che t’avrei accontentato... e non come a una fanciulla di facili costumi che avesse un suo prezzo. – concluse tutto d’un fiato quel giorno, con il nodo alla gola e con gli occhi lucidi.

Aggiunse che lei, ad un certo punto, dopo quell’appassionato amplesso che non era stato simulato da parte sua come lo erano stati i suoi abbracci nel passato, prima che scivolassi completamente nel forzato torpore, mi aveva sussurrato: – Davvero tutto è un sogno... a questo mondo nulla è essenziale... l’unica realtà è quella dell’altra vita... –  

Io ero ormai quasi nel mondo dei sogni e non sentii nulla di quelle parole se non una vaga risonanza, insieme – ora estraendo qualcosa dai recessi profondi della mia già scarsa memoria – alla sensazione tattile di un soffice bacio sulla guancia. Quando ebbe finito, mi si accostò. Da quando era in quella casa non c’era stato alcun minimo contatto tra noi, e mi baciò ancora una volta sulla stessa guancia.

Tre anni dopo ancora, la bottega d’arte di Masaccio e Masolino – in quest’ordine veniva ormai rammentata, essendo ormai il primo diventato più bravo e molto più sicuro di sé dell’altro – dopo aver già consegnato superbe opere che facevano discutere tutta Firenze per la forza innovativa, fu incaricata da messer Filippo Brancacci, banchiere, di decorare la cappella della chiesa del Carmine.

Ci sono voluti alcuni anni prima che fosse terminata, essendo stati entrambi gli artisti contemporaneamente ingaggiati per altri lavori, sia a Pisa che a Roma, sia insieme che ognuno per conto proprio. Mancano soltanto le ultime rifiniture, ma si sta presentando agli occhi di quei pochi privilegiati che possono già accedere all’opera, un lavoro di bellezza e d’innovazione, soprattutto nella parte dipinta da Masaccio, mai visto.

Da solo o insieme con lo Scheggia, ho assistito varie volte il maestro Maso – io ho sempre esitato a chiamarlo Masaccio – in quella chiesa del Carmine. Non mi ero mai più riaffacciato in quella chiesa, e la prima di quelle volte rivissi con commozione la sera del mio arrivo a Fiorenza. Sentendomi riavere su una di quelle vecchie panche, avendo piedi e schiena doloranti, non potevo certo immaginare che, in quella stessa e ormai lontana sera, avrei vissuto la vicenda della locanda, così drammatica e insieme così importante per me.

Addì 27 di marzo A.D. 1428

 

Riprendo la narrazione di cui sono al termine con la morte nel cuore anche se il motivo di tale pena risale a tre mesi fa. Pochi giorni dopo l’interruzione di questi appunti dovuta a certi affari di lavoro – la ricorrenza della nascita di Nostro Signore Gesù Cristo era già trascorsa da poco – Maso, il mio grande amico e maestro, a solo ventisette anni è deceduto per motivi che sono ancora poco chiari. Sembra si sia trattato di un colpo apoplettico. Per lo Scheggia, (*2) adesso considerato anch’egli valente pittore, è stato un dolore così grande che le mie parole non sono sufficienti per descriverne il peso. E anche per me e Gabriola è stato lo stesso gran dispiacere.

Un’ultima cosa devo dire prima di riporre queste note che forse nessuno leggerà mai, nella cassa, una bella cassa che io personalmente ho decorato di fiori in colori pastellati ad olio.

Attualmente la violenza e gli inganni stanno dilagando a Firenze. Gelosie, stratagemmi e tradimenti stanno regnando su una città dove Guelfi e Ghibellini non smettono di cospirare in continuazione. Eppure, su una cosa tutti la pensano nello stesso modo; la grande opera di pittura “a fresco” ultimata nella cappella del Brancacci sembra, in particolare nelle parti operate dal maestro Masaccio di San Giovanni, fatta di cose e persone che paiano vere, quasi in movimento.

La chiesa di Santa Maria del Carmine, quella chiesa che una volta, molti anni fa mi parve spoglia, anzi ignuda, adesso è meta di gente che viene quasi in processione ad ammirare i capolavori della “nuova arte” come qualcuno sta chiamando lo stile pittorico del maestro.

Masaccio... come se Giotto fusse rinato... – sentii mormorare un giorno da un attento frate domenicano mentre, a capo all’insù, davanti alla “Cacciata di Adamo ed Eva” cercava di farne veloci schizzi. Lo riconobbi, non era l’ultimo venuto; fra Giovanni di Pietro (*3) pittore di talento ben conosciuto a Firenze stette lì molto tempo, quasi in contemplazione.

Sto scrivendo queste ultime parole mentre qui, a mio fianco, Gabriola sta allattando il suo e nostro secondo bambino, nato appena una settimana fa. Lo chiameremo Tommaso per affetto verso il maestro; come la prima nata, per lo stesso motivo di affezione e a suo tempo, chiamammo Jacopa. Persone care che non ci sono più, come lo zio Bernabò che non ho dimenticato. Un anno dopo la mia partenza fu trovato spento di vita, accasciato sulla sua panca vicino al fuoco, anch’esso spento. Se fosse ancora vivo sono sicuro che sarebbe contento per il verso di come mi sono andate tutte le cose.

 

– fine –

 

P.S. In questa finzione narrativa la vicenda di Masaccio, l’antesignano della pittura rinascimentale,

inserita in forma romanzata, è comunque e in gran parte fatto storico.

(*1) San Giovanni in Altura, oggi San Giovanni Valdarno

(*2) Lo Scheggia o Giovanni di Guidi, fratello di Masaccio, fu realmente un valente pittore

(*3) Fra Giovanni di Pietro, chiamato successivamente “il Beato Angelico”

L'ISOLA DI BURU – 1571

L'ISOLA DI BURU – 1571 

GALEONE

Per la bellezza del territorio, delle spiagge e delle foreste, quanti avevano descritto Goa come un vero paradiso terrestre non erano andati molto lontano dal vero. L’istmo e la costa intorno a quel grosso villaggio erano interrotti da numerosi estuari di fiumi ricchi di abbondante pesce e, all’interno dei più grandi tra quegli estuari si trovavano tantissime isole di varia grandezza e natura. Una terra ricca e bella che aveva fatto gola ai nuovi e aggressivi dominatori portoghesi. L’imposizione del nuovo credo cristiano al posto della religione degli infedeli maomettani o ancor più di quella dei pagani induisti, era uno degli scopi delle conquiste del re del Portogallo; un re fieramente cristiano che si ergeva a difensore e portatore della vera fede.

Un modo totalmente diverso di diffondere la fede rispetto allo spendere la propria vita di alcuni ardenti missionari anch’essi portoghesi come il gesuita padre Francisco Xavier, di cui Alberto aveva tanto sentito parlare dal suo giovane insegnante di greco, durante gli studi.

Tant’è, adesso la mente e i sensi dei due fratelli, Alberto e Rinuccio Alberichi, arrivati da appena un mese con l’Armada da India”, erano interamente occupati nel considerare gli splendori e le singolarità di quelle terre.

Tuttavia, non ebbero molto tempo né per visitare quei luoghi e neppure per distrarsi con le bellezze locali dagli occhi profondi e misteriosi. La loro caravella, insieme ad altre due, avrebbe avuto da svolgere presto un’importante missione.

Al cantiere navale occorreva una nuova spedizione di legname da costruzione. Il capocantiere, un talentuoso genovese che aveva come aiutante un certo Rashad Denha – ambiguo malabarita un po’ musulmano, un po’ cristiano – non era contento del legno che l’entroterra di Goa poteva offrire. L’albero che i nativi chiamavano teak dava un legno rossiccio di buona stabilità resistente alla salsedine, all’umidità e ai funghi, ma la variante esistente nelle vicinanze era una di quelle meno apprezzate. Più a sud, a 500 miglia di distanza nell’entroterra di Cochin, la qualità era migliore ed era là che si sarebbero dirette le caravelle.

Le tre navi compresa quella di Corrado, l’esperto capitano originario della Val d’Arno terra di fiume e di monti, fatto singolare per un marinaio, partirono una mattina di aprile del 1572 con l’intenzione di essere di ritorno in quattro settimane.

Ma dopo due giorni di navigazione successe l’imprevedibile. Il cielo era terso e il mare luccicava di riflessi dorati; parecchi marinai erano sulla tolda occupati a pulire e a mettere in ordine le gomene e i vari attrezzi, quando: – … dois navios… due navi a babordo! –  gridò all’improvviso il marinaio di vedetta. – …per tutti i diavoli… – imprecò Corrado. – Sono pirati malesi! – Il capitano di Terranuova Bracciolini fece stringere il vento per aumentare la velocità, ma le tre giunche di fattura cinese, più leggere e a vele quadrate, guadagnavano sempre più contatto. Corrado allora ordinò affannosamente di mettere i cannoni di babordo in condizione di sparare, ma l’equipaggio era ancora impreparato.

Una scarica di colpi d’archibugio si abbatté sui pirati che, assetati di sangue e di bottino, con feroci facce e armati di rozze sciabole, dalla loro giunca abbordarono il vascello. Molti di loro si accasciarono e caddero subito in mare, ma gli altri che erano ancora numerosi saltarono sulla tolda della caracca scagliandosi contro i marinai.

L’esito fu fulmineo. Almeno quindici tra timonieri, mozzo e maestranze che si erano armati con quello che c’era, furono massacrati. Anche sugli altri due vascelli era successo lo stesso disastro; i pirati, completato con successo il violento abbordaggio e dopo aver disarmato i superstiti avevano passato tutti a fil di spada. Uno dei due velieri fu incendiato mentre sull’altro fu innalzato il loro vessillo piratesco. Poco dopo, e senza nessuna pietà, quasi tutto l’equipaggio della Sacra Famiglia fu gettato in mare. Corrado e gli altri sette si ritrovarono sdraiati bocconi sul ponte e con le mani legate dietro la schiena.

Navigarono per molti giorni, senza che nessuno dicesse loro qualche cosa. Quei malesi si affacciavano ogni tanto nella stiva dove i prigionieri erano stati incatenati l’uno all’altro e, ridendo, urlavano frasi incomprensibili per poi lasciare dei luridi recipienti con acqua e focacce secche.

Nella stiva, in un caldo infernale, i prigionieri temevano di non riuscire a sopravvivere. Tre o quattro ebbero gravi crisi di diarrea, si defecavano addosso e vomitavano dappertutto; qualche altro, a cominciare da Rinuccio, ebbero crisi di panico e di pianto. Alberto e Corrado, pur provando un senso indefinibile di ribrezzo e soffrendo come gli altri riuscirono a mantenere una parvenza di calma. E Alberto ogni tanto pregava, anche con certe fanciullesche preghiere imparate da bambino.

Le due imbarcazioni approdarono finalmente in una baia, dove tutti i prigionieri meno i tre che nel frattempo erano morti tra atroci sofferenze furono presi e fatti salire, percuotendoli, su due lance. Arrivati alla spiaggia, legati tra loro e marciando per più di un’ora, furono condotti in un villaggio di indigeni dalla pelle scura. I pirati malesi parlottarono a lungo con tre di quei selvaggi di cui uno sembrava essere il capo, poi, dopo aver dato ai prigionieri bianchi ancora una rapida occhiata, se ne andarono.

Isola di Buru, 13 maggio 1572

Erano sopravvissuti in otto tra portoghesi e fiorentini; erano sfiniti e affamati, ma almeno adesso riposavano e respiravano aria meno fetida dentro ad un robusto capanno di tronchi d’albero quasi completamente chiuso alla sommità. Nel capanno, non troppo grande e ben coperto di larghe foglie di palma e sterco di vacca, non vi era un caldo impossibile, e poi – cosa che nessuno di loro avrebbe dato per scontato fino a qualche ora prima – erano ancora vivi.

Portarono loro qualcosa da mangiare; era da tre settimane che mangiavano soltanto poche gallette secche e ammuffite, e quelle piccole banane, quei frutti freschi in parte sconosciuti, e quel riso cotto con delle strane spezie sembrò loro la manna scesa dal cielo.

Dopo essersi un po’ rinfrancati e sfamati sopravvenne in tutti loro lo sconcerto. I due fratelli si guardarono negli occhi, ancora increduli per quello che stava loro succedendo. Rinuccio decise allora di tenerli chiusi per ore, come se gli bastasse tenere gli occhi chiusi per non pensare più a quella situazione. Invece Alberto, per carattere, tendeva a serbare in sé un briciolo di speranza, un istinto che solo la ragionante mente umana, di fronte all’evidenza, sarebbe stata in grado di uccidere.

Il giorno dopo li fecero uscire dal capanno mettendoli seduti per terra ancora legati tra loro. Erano sorvegliati a vista da alcuni indigeni armati di lance con le punte di pietra, di archi con la corda fatta di nervi di animale e di frecce fatte di canna.

Gli abitanti del villaggio si avvicinavano per osservarli incuriositi; erano mori ed erano tutti nudi, salvo una scorza d’albero battuta fino a renderla fine come la carta, che copriva il loro sesso. I bambini e le ragazze erano adornati di collane fatte di denti di animali, forse di porco; ed alcuni, anche adulti, avevano code di capre attaccate dietro a modo di ornamento. Portavano i capelli crespi e lunghi attraversati da una parte all’altra da alcune canne e gli uomini avevano la barba, anch’essa crespa e nera intrecciata con foglie lunghe e fini.

Alcuni di essi, sorridendo, additavano l’uno all’altro gli strani prigionieri scoppiando in improvvise e brevi risate e dicendo qualcosa in una lingua diversa da tutte quelle che avevano sentito, compreso quella dei pirati. Si avvicinò colui che, all’aspetto e per i modi, pareva essere il loro capo e re. Era scalzo come tutti ma aveva dei monili d’oro, e dalla cintura fino a terra era coperto di un drappo bianco. Anche lui li guardò a lungo, poi chiamò a sé un altro indigeno, un moro alto e grosso con l’espressione intelligente. Scoprirono con qualche sollievo che egli parlava qualche parola di spagnolo, lingua che Corrado conosceva. L’uomo grosso tradusse quanto il re andava dicendo: – ... nuestro Rey… il nostro re, che è saggio, vi terrà con le mani libere, ma non dovrete per nessuna ragione allontanarvi dal villaggio. Se lo farete, sarete uccisi… questo è quanto ha detto – A quel punto, entrambi si allontanarono e i guardiani li slegarono.

I giorni seguenti trascorsero senza che nessuno rivolgesse loro la parola. Dormivano, mangiavano e, pur tranquillizzati dal fatto che nessuno torcesse loro un capello, si chiedevano spesso del perché di tutto questo. I pirati avevano risparmiato soltanto i portoghesi e i tre toscani e poi li avevano condotti in quell’isola sconosciuta.

Pur sorvegliati attentamente, potevano assistere ai canti e ai balli ai quali, in certe occasioni, gli indigeni di quel villaggio si davano con grande energia. Le femmine non erano proprio belle ma ballavano senza sosta scotendo senza pudore le loro nude mammelle, ancora sode quelle delle giovani, lunghe e avvizzite quelle delle donne mature. Alcuni maschi adornati di piume colorate di pappagallo sembravano in preda ad una innaturale frenesia, andando a tempo sempre più convulso dei grossi cembali.

Finalmente un giorno si avvicinò di nuovo quel moro che parlava il castigliano. Disse di chiamarsi Yahya e spiegò senza che gli venisse chiesto che l’isola dove si erano ritrovati dopo il viaggio infernale in quella stiva, mezzi morti ma ancora in vita, si chiamava Buru. Poi, con fare diffidente, si mise a sedere non lontano ad osservare i prigionieri.

Poco dopo, parendo gli si fosse sciolta la lingua aggiunse che essi osservavano la legge di Maometto, che non mangiavano carne di porco e che quando volevano nettarsi le parti di dietro, usavano la mano sinistra, con la quale però non si dovevano toccare la bocca. Orinavano mettendosi a sedere come le donne, si circoncidevano il prepulzio quando erano ancora molto piccoli e non ammazzavano né galline né capre se prima non si rivolgevano al sole. Spiegò ancora anche che lui parlava un po’ il castigliano perché aveva vissuto a Tidore per qualche tempo, un’isola grande e molto lontana.

Passarono i giorni e le settimane. Durante le ore notturne, legati per un piede al palo centrale, venivano chiusi nel capanno mentre all’esterno vegliavano i guardiani. All’interno era come ci fosse un muro di aria ferma e a volte il fetore del secchio delle orine diventava molto forte. Le notti da trascorrere erano dure; non tutti riuscivano a dormire e qualcuno parlava sottovoce. Altri stavano in silenzio con gli occhi sbarrati, forse pensando, chissà, alle loro case sul mare in Algarve o altrove. Un portoghese di nome Duarte canticchiava, si sentiva appena una nenia triste; era una vecchia filastrocca che, al suo paese cantavano ai bambini quando avevano paura o non dormivano. Disse di sentire tanta saudade, tanta nostalgia.

Corrado, l’esperto capitano che aveva ingaggiato i due fratelli fiorentini assetati di mondo occupava la mente facendo le sue ipotesi: – Quelli non erano dei pirati qualsiasi… altrimenti a quest’ora saremmo già morti.  – … lo penso anch’io… – Ci tengono qui prigionieri per chiedere un riscatto al vicerè di Goa… a chi sennò? –  

Alberto ne era convinto; non potevano sperare di ottenere un riscatto da famiglie che erano lontane quanto mezzo mondo. – E poi il babbo non darebbe fondo a tutte le sue sostanze per noi... – aggiunse in tono amaro. Rinuccio fece una risata nervosa. – Stai tranquillo, non c’è questo rischio. – Voleva aggiungere qualcos’altro ma si fermò perché temeva di tradire troppo la sua irritazione e forse la sua debolezza.

Il capitano, che ne aveva visti di imbrogli più di loro asserì che non ci fossero dubbi; qualcuno a Goa li aveva venduti a quei pirati: – Sono andati a colpo sicuro; degli altri vascelli non hanno risparmiato nessuno... hanno fatto un macello... – I pirati malesi e con loro il mandante che aveva architettato il sanguinoso piano non avevano avuto davvero nessuno scrupolo. – ... mmmh… quel malabarico convertito, quel Rashad Denha… ci scommetterei… – mormorò Rinuccio.

Alberto Alberichi cominciava ad avere dei dubbi anche su certe sue scelte di vita; non ne aveva per il fatto di aver rifiutato di fare il notaio come il babbo avrebbe desiderato; di ciò non aveva rimpianti. Non si pentiva neppure troppo di aver desiderato di avventurarsi nelle Indie; era sempre stato il suo sogno. Rimpiangeva piuttosto di avervi trascinato suo fratello minore, il quale però, a quei discorsi sussurrati nella notte si arrabbiava.

Chetati un po’ Alberto con cotesti discorsi… nessuno ne ha colpa... pensiamo invece a come uscire da questo posto. – Alberto si zittiva ma il suo animo restava in subbuglio. In quelle ore notturne passate legato intorno a un palo ripensava spesso alla sua ancora giovane vita trascorsa.

I padri gesuiti, presso cui Alberto e Rinuccio Alberichi avevano fatto gli studi classici, erano aperti alle novità di quegli anni e, insieme alla Bibbia e ai poeti facevano leggere e studiare i prosatori come Cicerone e Sallustio o Tucidide. Uno di loro, un padre giovane, fresco di studi ma appassionato nella fede diceva loro di non limitarsi a leggere le saggezze antiche: – Essere veri, servire la verità in dialogo con tutti quelli che la cercano, anche i lontani... questo è importante... –

Alberto, giovane di forte personalità e carattere era colpito da quelle parole ma non da tutte alla stessa maniera; era il riferimento ai “lontani” che immaginava di lingua sconosciuta e dall’aspetto orientale che lo faceva sobbalzare. Volava con la fantasia e, durante le lezioni, pareva aprire occhi e orecchi soltanto per certi argomenti; bastava attenessero a quei mondi diversi.

Si era infatti nell’epoca delle grandi scoperte geografiche, e i viaggi verso paesi sconosciuti attiravano giovani, persone mature, uomini d’arme, mercanti e chierici. Il fratello Rinuccio, pur essendo di carattere più superficiale, lo seguiva in tutto e si affidava a lui.

Come se tutto ciò non bastasse ad accendere l’immaginazione dei due giovani, già forti e formati, l’uno di diciannove anni l’altro di diciassette, contava la presenza di uno zio molto vecchio di nome Teodoro che era stato marinaio per tutta la vita. Diceva di aver solcato tutti i mari e di aver vissuto mille avventure e che fosse tornato in tempo soltanto per morire sulla terraferma.

Alberto e Rinuccio ci parlavano e lo interrogavano; dava una straordinaria impressione di vita vissuta, con il suo viso mangiato dalla salsedine, i suoi radi e bianchissimi capelli, la barba lunga e stopposa e le mani brune e fragili come foglie disseccate. Come sul margine dell’esistenza nulla poteva più scuoterlo; già vecchio da anni, raccontava volentieri. I suoi occhi pur spenti, che rivolgeva verso un punto lontano durante quei ricordi, ogni tanto si accendevano di lampi e forse di rimpianti, raccontando di cose e di posti fantastici. Di quanto le Indie orientali come le isole Molucche e la Cina, posti popolati da gente pagana, apparissero misteriose e affascinanti.

Per giornate intere Alberto e Rinuccio passavano ore a studiare le carte geografiche e il libro di navigazione che quel vecchio marinaio aveva loro prestato con l’obbligo di restituirlo: –... questo è il mio guanciale... – diceva – ... vi appoggerò la mia stanca testa quando sarà l’ora di salpare... e approderò sicuro all’altra riva dove mare e vento ubbidiscono... –

Volavano con l’immaginazione e progettavano grandi spedizioni per mare di cui il maggiore sarebbe stato senza dubbio il capo. Il loro padre, Ugo Alberichi, un influente notaio a servizio della famiglia de’ Medici, possedeva alcuni preziosi libri in pergamena, tra cui il “Milione”, il resoconto delle avventure e dei viaggi terrestri di Marco Polo, vissuti alla fine del Trecento. Insieme ne avevano letto, nella versione tradotta in latino, alcune parti. Anche quei racconti non fecero che alimentare in entrambi curiosità e sogni ad occhi aperti.

Un giorno arrivò uno strano personaggio a casa del vecchio marinaio; era un uomo sulla cinquantina, ancora vigoroso con i capelli lunghi e incolti raccolti da una striscia di seta blu sbiadita. Quando Teodoro lo vide ebbe un moto di viva sorpresa e gli occhi spenti gli si illuminarono di gioia in maniera inconsueta. – Tu qui... non credevo che ti avrei mai rivisto... – 

Si chiamava Corrado ed era originario di un borgo della valle dell’Arno. Disse che la sua nave si trovava alla fonda davanti a Porto Pisano in attesa per certe riparazioni. Aveva approfittato, come disse sospirando, per rivedere la vecchia madre forse per l’ultima volta, ma adesso era venuto proprio per lui: – Non ti ho scordato... ti porto una cosa, un regalo, guarda...

Tirò fuori dal suo sacco logoro una sciabola mezza arrugginita ma di foggia orientale e con intarsi molto belli incisi sull’elsa. – La riconosci? l’ho ritrovata in un angolo, in fondo alla stiva... ti rammenti?... con questa mi togliesti da un bell’impiccio...

Il vecchio si alzò con difficoltà e gli si avvicinò. I due marinai si strinsero l’uno all’altro in un gesto fatto di pacche sulle spalle che voleva essere un goffo abbraccio

– Già... era di quel saraceno, di quel pirata. – sospirò Teodoro. Per qualche istante i suoi occhi guardarono nel vuoto per ricordare; un giorno lontano aveva salvato l’altro da morte certa.

In quel momento arrivarono Alberto e Rinuccio; avevano con sé il prezioso libro di navigazione e restarono sorpresi. – Questi sono due giovani uomini che sognano di diventare marinai, Corrado... che ne dici? – disse il vecchio sogghignando. Voleva essere una battuta ma subito si pentì di aver detto in quel modo.

Perché no? – rispose il marinaio guardandoli con interesse; erano alti, robusti, uno biondo, l’altro castano. Pensò potessero diventare due buoni marinai.

Ma loro non lo sanno che vita è questa... – ribatté il vecchio, cercando di mettere una pezza al danno che ritenne, tra sé, di aver fatto. Sapeva che il facoltoso notaio loro padre nonché figlio suo con cui non andava troppo d’accordo, fosse contrariato per quel loro crescente interesse. Si misero a sedere tutti e quattro mentre i due fratelli, incuriositi, osservavano quell’uomo dai lunghi capelli legati alla buona, senza alcun riguardo per la decenza di quella casa di benestanti.

Dopo un po’ di silenzio il vecchio marinaio, dimenticando gli scrupoli ed eccitato dai ricordi, dalle espressioni dei giovani credette di interpretare il desiderio di saperne qualcosa in più: – Corrado, racconta di quando stavamo per morire di fame e di sete... per tutto quel tempo interminabile.  Fu colpa mia, vero Teodoro?... ero molto superbo in quegli anni... – esordì quasi sussurrando. – Quella volta feci un grosso errore nella lettura della rotta... –

Raccontò di essere rimasti senza cibo fresco per ben tre mesi e venti giorni. Toccò loro mangiare qualche manciata di biscotti ridotti in polvere, putridi di urina di topi e pullulanti di vermi. Bevvero acqua gialla altrettanto putrida e mangiavano le pelli di bue vicine alle sartie e che sole, pioggia e vento avevano reso dure come un sasso. – I topi si vendevano a mezzo ducato l’uno ed erano una merce rarissima e desiderata... non so come abbiamo fatto a sopravvivere. – Poi aggiunse con voce tremolante: – Pensammo più volte di mangiare la carne di marinai morti da poco... ma grazie a Domine Iddio, finalmente avvistammo terra...

I ragazzi tacevano e sgranavano gli occhi. Il vecchio Teodoro aggiunse: – Per non dire della furia degli elementi durante le tempeste, i turni che non finivano mai, gli scontri con i selvaggi... vero Corrado? – Sì... lo sapete?... – fece il marinaio rivolgendosi ai due ragazzi: – tra quelli che partono... molti non ritornano...

Poi li guardò entrambi negli occhi. – Ecco... non è cosa per voi... – terminò, credendo con quel discorso di aver chiuso l’argomento.

I due giovani avevano ascoltato a bocca aperta senza dire una parola. Alberto, dopo una lunga pausa, durante la quale aveva posato alternativamente occhiate indecifrabili sia sull’uno che sull’altro, disse: – Queste cose... si sentono dire... si sa, succedono. – Piantò allora lo sguardo sul capitano: – Dove è diretta la tua nave, messer Corrado? – Rinuccio annuì; anche lui voleva sapere la stessa cosa.

Per la loro famiglia fu come se una tempesta si fosse abbattuta sul loro domestico quieto vivere. Il babbo notaio cercò di opporsi in tutti i modi, fino alla minaccia di destinare tutti suoi beni alla sorella più piccola, Caterina. La madre Agnese pianse per giorni, ma non ci fu nulla da fare. Alla partenza da Firenze il notaio non volle neppure essere presente.

Partirono da Porto Pisano alla volta di Genova dove la nave avrebbe caricato sia merci che alcuni altri marinai. Dopo una sosta di molti giorni, dalla città della lanterna salparono per Lisbona. Una volta arrivati nella città lusitana il veliero di Corrado si sarebbe aggregato all’ “Armada da India” posta sotto il comando del viceré Antonio de Catarraz, con il cui reggente Corrado aveva stabilito una sorta di contratto, una specie di appalto marinaro.

Il veliero di Corrado aveva un nome che rimandava alla devozione cristiana: “Sacra Famiglia”. Mostrava come polena, sotto l’albero di bompresso, una vistosa raffigurazione in legno di una creatura femminile dai grossi seni sporgenti e i lunghi capelli al vento, ma con la coda di pesce. – ... Alberto... guarda che roba... – esultò Rinuccio a quella vista. Alberto sorrise divertito; pochi mesi prima, quando i due sognavano ancora vascelli, caracche e caravelle, una polena come quella non l’avrebbero mai immaginata.

Mentre il veliero ondeggiava leggero, il maggiore dei fratelli guardava l’orizzonte verso il mare aperto. Dietro, le colline dell’entroterra genovese si facevano sempre più piccole e con loro si facevano piccoli anche i residui dubbi. I due fratelli, assunti da Corrado come mozzi con la prospettiva di farne dei veri marinai erano eccitati e convinti della loro scelta di vita. – È a Goa che andiamo Alberto … mi han narrato i marinai ch’esso sia il vero paradiso terrestre...  –  A Rinuccio, in quel momento, la vita gli apparve radiosa e l’avvenire colmo di felicità.

Goa, al confine settentrionale della costa del Malabar, nel sud dell’India, già sede di numerosi cantieri navali musulmani, era stata strappata dopo un cruento e inutile bagno di sangue, al prezzo di seimila morti e molte moschee incendiate.

Arrivati a Lisbona, ancora più eccitati, non ebbero abbastanza occhi per ammirare quella, per loro nuova e affascinante, città di mare. I riflessi del fiume Tago, le brezze marine dell’oceano e i cieli splendenti, conferivano a quella città una gran luce, mentre il Castello di São Jorge si stagliava enorme, possente, nel cielo. Il giorno dopo Alberto entrò nella cattedrale, la Igreja de Santa Maria Maior. Alla pila dell’acqua benedetta v’intinse le dita e si inoltrò fino alla profonda abside, cercando un luogo appartato. Sentiva il bisogno di raccogliersi.

Da tempo aveva trascurato le pratiche religiose, ma adesso, in procinto di fare un lungo viaggio che avrebbe cambiato il suo modo di vivere e che lo avrebbe allontanato dalla sua vita precedente per chissà quanto tempo, sentiva di dover riannodare certi legami mai sciolti ma piuttosto allentati.

E poi era dispiaciuto di come si erano messe le cose con il padre. Avevano scritto a quattro mani ai genitori appena arrivati a Genova; nella missiva di risposta la madre Agnese non aveva nascosto la sua angoscia, ma confidava nel loro buon senso e intelligenza, affinché potesse, un giorno che sperava non lontano, riabbracciarli entrambi. Il notaio non aveva aggiunto alla lettera neppure una postilla. I due ma in particolare il figlio maggiore, al di là dell’apparente freddezza e determinazione, erano rimasti molto addolorati non solo per la reazione del babbo ma anche per come avevano lasciato, così affranta, la propria madre.

A tutte queste cose pensava Alberto in quelle notti afose e interminabili, mentre era legato al palo della capanna. Gli affioravano ondate di intensa memoria, ripescava dettagli che gli erano sfuggiti e che non cessavano di farlo trasalire.

Ricordava con un fremito anche il giorno della partenza da Lisbona. Erano trascorse già quattro settimane da quando erano vi erano giunti, e finalmente era venuto il gran giorno. La flotta di undici vascelli, una delle tre flotte della possente “Armada da India” era salpata al mattino del ventinove febbraio 1571.

La flotta si era diretta verso libeccio e, dopo una sosta a Tenerife per rifornirsi di acqua fresca, legna e frutta e carne, dopo una tranquilla navigazione di parecchie miglia, era arrivata in vista di Capo Bojador. Rinuccio e Alberto che si trovavano sul cassero di prua della caravella Sacra Famiglia avevano notato che un vecchio marinaio portoghese si stava facendo il segno della croce; anzi, se lo era fatto per tre volte: – Che ti succede, Agostinho … sei sempre così devoto? –  gli chiese quella mattina Rinuccio in tono ironico. Il vecchio sputò per terra, ma non rispose subito. Poi si avvicinò: – Mãe de Deus, voi giovani non sapete nulla di questo posto. –  sospirò, raccomandandosi anche alla Vergine. Allora, guardando fisso lontano, prese a raccontare; sembrava avesse davanti a sé qualcosa di sgradevole: – ... vedi straniero... davanti a quegli scogli, un tempo, orribili mostri marini non facevano passare nessuno... proprio nessuno... a chiunque voleva proseguire verso sud...  distruggevano le navi... – Poi fece una pausa e sputò di nuovo ma questa volta nell’oceano – … non si mai… potrebbero svegliarsi – aggiunse serio. Il terrore di certe leggende, dopo tanto tempo viveva ancora nell’immaginazione della gente di mare. Quel racconto li ammutolì entrambi, ma dopo un po’ non ci pensarono più.

Alla fine di luglio, dopo lunga navigazione fatta costantemente al largo, la flotta fu finalmente in vista del Capo di Buona Speranza che, cinquant’anni prima e non per caso, Bartolomeo Diaz aveva battezzato come Capo delle Tempeste; tempeste che anche questa volta non mancarono di scatenarsi furiose per giorni e giorni. Nonostante i terrificanti fortunali che si alternavano al sole cocente, nonostante le sentine fetide, nonostante che il cibo fosse spesso disgustoso e che l’acqua da bere puzzasse, Alberto apprezzava la vita di mare; il vento che gonfiava le vele, la sensazione di volare sulle onde, erano emozioni senza uguali.  

– A che cosa stai pensando? –  gli aveva chiesto un giorno Rinuccio che, sulla tolda della nave scossa dal mare lo stava osservando. Anche lui forse stava subendo il fascino dell’oceano, tuttavia ne subiva maggiormente i disagi e le costrizioni. E poi gli pesava l’assoluta mancanza di presenza femminile.

– Ti sei pentito fratello di essere qui?... dì la verità...– gli aveva ribattuto Alberto. Rinuccio si era girato dall’altra parte volgendo in alto lo sguardo, verso il pennone, e non aveva risposto.

Ricordandosi di quel momento, nel buio della capanna gli venne di voltarsi dalla sua parte; al debole chiarore di qualche raggio di luna insinuatosi attraverso la stretta apertura della capanna, lo scorse. Ne sentiva la responsabilità ma in quel momento Rinuccio dormiva tranquillo. Vinto finalmente dalla stanchezza anche il maggiore dei fratelli si acquetò in un cupo sonno.

Erano intanto passati tre mesi durante i quali, quando era loro permesso di stare all’aperto, la vigilanza si attenuava; potevano camminare, muoversi, fare qualche lavoro di fatica. Ma gli indigeni non si fidavano troppo di loro.

Rinuccio, che per natura cercava di cogliere l’aspetto meno spiacevole delle situazioni – d’altra parte non soffrivano né la fame né altri disagi impossibili da sopportare – cominciò a notare che, durante certi lavori a cui erano saltuariamente destinati, una moretta molto giovane forse di quindici anni, lo guardava e sorrideva. Aveva una bocca rossa e carnosa che spiccava al centro di un bel viso nero come la pece e gli occhi grandi e guizzanti, mentre i suoi seni piccoli e sodi si scotevano appena durante la sua fanciullesca camminata. Lui ricambiava volentieri, cercandola con lo sguardo e sorridendole.

Dopo qualche giorno, venne però Yahya, il moro che parlava castigliano. Le donne del villaggio si erano accorte di quegli sguardi ed avevano avvertito il re, il quale si era infuriato. La ragazza era destinata a sposarsi presto con l’anziano re di un altro villaggio, con cui si era stipulato un patto di amicizia. Aspettavano per celebrare quelle nozze solo il plenilunio che sarebbe avvenuto, di lì a pochi giorni. Il re, attraverso l’interprete, gli intimò di non guardarla più, pena il suo accecamento tramite un infuso di una pianta velenosa; ma poi per non correre alcun rischio lo fece legare stretto al palo della capanna. Legato in quel modo per tutto il tempo Rinuccio si mise a strepitare e a lamentarsi fino a che, dopo un giorno o due lo slegarono proibendogli tuttavia di mettere il capo fuori della capanna.

Intanto però il tempo scorreva; la notte di plenilunio stabilita per le nozze regali era ormai già trascorsa da mesi e con essa era tornata la relativa libertà di Rinuccio. Ma in tutti quei mesi, di quei pirati non c’era stato alcun segno di vita; il re temeva di veder sfumare il compenso stabilito, mentre i prigionieri temevano il peggio; molto peggio.

 

Un mattino molto presto, ancor prima dell’alba, gli otto compagni di sventura capirono che, fuori della loro capanna stesse succedendo il finimondo. Si sentivano, insieme alle alte grida degli indigeni del villaggio, rumori di lotta e rochi e fortissimi urli provenienti da varie parti. I mori, sorpresi nel sonno, erano stati impreparati a fronteggiare quell’assalto improvviso. Numerosi estranei avevano sopraffatto le sentinelle e si erano scagliati all’interno del grande villaggio, bruciando con torce accese e con lance infuocate i tetti fatti di paglia e di foglie di palma. Erano come giganti e molto diversi dai loro guardiani.

 – “Amigos, aqui nos assar” … sfondiamo questa porta… – urlò Corrado in lingua lusitana. Quella porta non era poi un granché e cedé presto sotto l’urto degli increduli prigionieri. Usciti, raccattarono per terra alcune lance perdute negli scontri e corsero via in direzione della foresta.

L’azione di quei grossi abitanti della montagna era stata fulminea e feroce; una vera carneficina. Avevano già sgozzato molti uomini, ma sembrava che risparmiassero le donne e i bambini. Durante quella furiosa corsa verso la foresta Alberto si scontrò violentemente con uno di quei guerrieri in piena foga di colpire e uccidere. Questi, dalla pelle quasi chiara e di capelli lisci e lunghi legati a treccia in quattro bande come tutti gli altri giganti, rimase sorpreso nel trovarsi di fronte lo strano uomo biondo di capelli, e vestito di brache e camicia; quell’incertezza gli costò la vita. Alberto invece non ebbe esitazioni; d’istinto, con rapidità e determinazione lo colpì a morte al petto con la lancia e proseguì la corsa verso la foresta.

Mentre il villaggio bruciava mandando crepitanti e alte fiamme verso il cielo che – ancora baluginante delle prime luci dell’alba – si stava scurendo di fumo, il gruppetto dei prigionieri, dopo una sfiancante corsa, si ritrovò in una radura solitaria. Ripresero fiato, si contarono.

Quattro marinai purtroppo mancavano all’appello; erano rimasti uccisi nella fuga. C’era Rinuccio e c’era Corrado; anche loro avevano avuto un corpo a corpo con quei guerrieri, e Rinuccio, pur uscendone vivo, era rimasto ferito ad un braccio. Il quarto marinaio sopravvissuto era Duarte, quello che canticchiava la nenia malinconica, ed aveva in mano una scure. Nella fuga l’aveva vista per terra, perduta da qualcuno di quei giganti e l’aveva raccolta in fretta. La scure aveva una buona lama di ferro e il manico di legno duro era lungo almeno un braccio: – Potrebbe essere molto utile – disse subito Alberto quando la vide. Ripresero a correre senza sosta, poi presero a camminare svelti. Rinuccio, pur essendosi ben stretta la ferita con un brandello di camicia, stava perdendo molto sangue.

 

Dopo molte ore di cammino nella foresta che, a mano a mano che si avvicinavano alla montagna, saliva degradante con altri tipi di vegetazione, sentirono dei rumori che, con l’andare dei minuti si facevano sempre più forti. Appostati dietro una roccia sporgente ebbero modo di osservare il triste spettacolo con calma apprensione. Scortata da quegli uomini alti di pelle chiara e armati di tutto punto con archi e lance, scorreva lenta la dolente colonna dei mori del villaggio assalito e dato alle fiamme. Di essi, la maggior parte, alcune centinaia, erano donne giovani e bambini. Molti mugolavano all’unisono con versi lamentosi qualche loro canto di dolore, altri piangevano, altri cercavano forse di sopravvivere guardavano semplicemente dove mettere i piedi. Alto in cielo, dove la foresta aprendosi offriva squarci luminosi, un rapace volteggiava intorno.

I quattro compagni, ancora attenti ai rumori e timorosi di incontrare di nuovo quei grossi selvaggi proseguirono il cammino per ore e ore e infine si fermarono per la notte. Rinuccio quella notte delirò e Alberto, pur stanchissimo, lo vegliò sempre.

Il giorno dopo salirono su un’altura e, affacciandosi dall’altra parte dell’isola capirono come si sarebbero mossi l’indomani; in lontananza videro un’ampia insenatura di spiagge sabbiose. Su quell’altura si fermarono per tutto il giorno a riposare.

Quell’assalto poderoso, a cui ripensarono più volte, era stato senza ombra di dubbio una razzia fatta su commissione. Dedussero che le donne sarebbero state acquistate da principi musulmani per farne delle concubine, gli uomini come uomini di fatica o come schiavi vogatori sulle galee e i bambini sarebbero stati allevati come futuri contadini, oppure, i più promettenti, fatti oggetto delle voglie carnali di qualche sultano depravato.

In quelle ore di riposo ad Alberto venne in mente la sua famiglia: – Non hanno notizie da mesi, penseranno che siamo morti... non abbiamo dato loro che dispiaceri...  – Invece Rinuccio cullava la sua ferita; non si sentiva in colpa; pensando ai suoi non gli venivano né dolcezze né repulsioni, bensì un’attonita indifferenza.

Al mattino seguente Rinuccio stava molto meglio e partirono in direzione dell’insenatura. Non soffrivano troppo la calura del sole ma l’umidità era asfissiante. Gli animali, numerosi, facevano un inquietante concerto di rumori che cambiava di tonalità e di intensità al loro passaggio. Ad un certo punto la foresta salì ancora presentando zone di vegetazione più bassa e più intricata, fatta di liane e di enormi rampicanti.

La costa, a cui finalmente arrivarono, non era degradante e sabbiosa come sembrava vista da lontano. Era delimitata da mangrovie, come Corrado chiamava quel tipo di sponde marine, fangose e fitte di radici e di rami sommersi nell’acqua salmastra. Alle mangrovie, fitte di numerosi insetti, granchi e serpenti si accedeva da una fascia paludosa. La scure raccolta da Duarte fu provvidenziale; con i tronchi degli alberi più adatti legati da robuste liane costruirono una zattera, alle cui robuste sponde aggiunte sul fondo piatto avevano ancorato due lunghi remi da manovrare stando in piedi.

La governava abilmente Corrado aiutato da Duarte, mentre Alberto e Rinuccio stavano attenti alle secche. Il mare era calmo, c’era completa bonaccia sotto il sole cocente e l’isola di Buru, con la sua sfolgorante e verde foresta, lentamente si allontanava alla vista.

Dopo molte ore, all’imbrunire, approdarono stanchissimi su una lunga spiaggia. Vi tirarono su la zattera e, approfittando dell’alta marea la portarono all’interno della foresta. Dopo il caldo crepuscolo scese svelta l’oscurità.

All’alba, come avevano già fatto a Buru, salendo su un’alta collina rocciosa videro una lunghissima e stretta insenatura che, a partire dalla costa orientale della nuova isola, si insinuava verso nord. La cosa che più li eccitò fu la vista, in fondo a quella lingua marina, lunga forse più di dieci miglia, di un lontano galeone. Non era una giunca di pirati; poteva essere un vascello portoghese o spagnolo. Tornarono subito alla zattera che, dopo aver fatto rifornimento di frutta e di uova, fu rimessa presto in mare. Eccitati e pieni di speranza solcarono in alcune ore quella lunga insenatura, al cui termine ritrovarono esultanti il galeone già avvistato.

Ambon, fine settembre 1572

In realtà il vascello era una caravella e non un galeone ma, cosa più importante, sul pennone più alto sventolava l’insegna del re del Portogallo. Il veliero era alla fonda davanti alla banchina di un villaggio di nome Ambon che, come poi seppero, dava il nome all’isola. Ambon, posto sulla riva dello stretto istmo, era abitato da coloni lusitani e da servitori indigeni di pelle scura, ed era stato fondato per farne un mercato per il commercio delle spezie. Adesso quel villaggio era in decadenza, essendosi la coltivazione e la raccolta della noce moscata spostata nelle isole dell’arcipelago delle Molucche più a nord. Tuttavia, c’erano ancora delle piantagioni che meritavano, ogni sei mesi, il passaggio di un vascello, e quel vascello era proprio lì, all’ancora.

Stentavano a crederci, sembrava aspettasse proprio loro. – Questa volta... là “boa sorte” non ci ha voltato le spalle urlò Corrado in portoghese.     

La caravella San Bartolomeo era arrivata da poco e sarebbe ripartita dopo almeno due settimane, proprio alla volta di Goa. Il comandante e proprietario era Fernão Mendes Pinto il quale, come subito ebbe cura di avvertire, prima di arrivare a Goa avrebbe dovuto fare però una breve sosta a Cochin.

La San Bartolomeo era una bella nave di trentotto uomini, un buon equipaggio, una parte del quale costituito da marinai cinesi. Il proprietario e comandante, un uomo dai multiformi interessi, aveva allestito quell’ottimo vascello per poter commerciare spezie, malvasia e noce moscata, le ricche merci di cui si favoleggiava tanto in quegli anni in tutto il mondo cristiano e di cui c’era così tanta richiesta. Egli, come affermava francamente, faceva tutto questo non solo per il desiderio di acquisire ricchezze, ma anche per l’ambizione di onori e prestigio. I quattro viaggiatori, che Fernão Mendes Pinto non poteva certo lasciare lì, avrebbero pagato il viaggio quando avessero potuto farlo.

Il vascello finalmente salpò, ma dopo due giorni un inaspettato e fortissimo vento contrario lo allontanò dalla costa. Nonostante ripetute ed esperte manovre non ci fu nulla da fare. Il vascello invece di procedere verso nord est come previsto, si dirigeva inesorabilmente dalla parte opposta. Il vento soffiò in quella direzione per ben trentasette giorni.

Calavano le scorte di vino, di cibo e di acqua, mentre cresceva la preoccupazione finché, con sorpresa, si ritrovarono in prossimità di certe piccole isole sconosciute. Il ventotto dicembre riuscirono ad approdare sull’isola chiamata Jolo che era comandata da un sultano e abitata dalla strana popolazione dei Tausüg, dove fecero abbondanti rifornimenti di riso e altri generi di conforto.

Ripartirono dopo più di un mese, il due di febbraio, festa della Candelora e finalmente il comandante portoghese poté riprendere il controllo della nave. Dopo un altro mese di navigazione raggiunsero finalmente Cochin dove, quella che doveva essere una breve sosta, per Alberto diventò una sosta di ben nove anni.

Mar della Cina, agosto 1581

Il galeone portoghese veleggiava ormai al largo e distava già qualche lega dalla costa, portando Alberto via per sempre dal luogo dove aveva vissuto per tutto quel tempo e dove lasciava una parte di sé. Non l’avrebbe mai dimenticato.

Capelli al vento era sulla tolda del galeone aggrappato ad una gomena mentre la terraferma, lentamente, si stava perdendo alla vista. Ugo era con Kinari nella loro cabina e stava già dormendo. Aveva già cinque anni ma era ancora molto piccolo per un viaggio così lungo e faticoso. Per quel motivo aveva convinto quella donna a partire con loro.  Lei, la buona vedova, lo aveva visto nascere e poi, specialmente dopo la morte di Shaila, lo aveva cresciuto con tutto l’amore possibile. D’altra parte, Kinari non aveva nessuno al mondo, soltanto qualche lontano cugino e la sua famiglia era quella ormai. E Alberto si fidava di lei più di qualsiasi altra persona che avesse mai conosciuto. Avrebbe visto un mondo a lei estraneo ma non completamente, perché anch’essa aveva ricevuto il dono del battesimo e in quel mondo, come gli avevano spiegato, tutti, come lei, adoravano Gesù Cristo, anzi, Yeshukristhu.

Alberto, Ugo e Kinari erano dunque partiti per Goa dove sarebbero stati ospiti del fratello almeno per due mesi, in attesa della partenza della flotta de la Carreira da India, la rotta delle Indie orientali.

Arrivarono a Goa dove viveva Rinuccio con la sua famiglia, nel mese di maggio. L’oceano era stato benevolo e non c’erano stati problemi di sorta. Il loro incontro fu commovente, non si vedevano da nove anni, ma attraverso le lettere che si erano inviati, sapevano tutto l’uno dell’altro. 

Tra le altre cose che Alberto aveva appreso dal fratello c’era stata la misteriosa scomparsa di quel Rashad Denha, sicuramente la mente e il mandante della tragica avventura nell’isola di Buru. Si vociferava fossero stati gli stessi pirati malesi ad ucciderlo. E anche del comandante Corrado e del nostalgico portoghese Duarte, i compagni di prigionia sopravvissuti, il fratello non ne sapeva più niente.

Conobbe la sposa di Rinuccio, una bella e sinuosa malabarica e i loro tre bambini, due maschietti e la più piccola di un anno. Ugo rimase curiosissimo di Rinuccio che non smetteva di farlo divertire con i suoi versi e le sue matte risate.

A Goa Rinuccio, al quale era stato affidata la direzione del cantiere navale, si trovava bene; lì si parlava comunemente il portoghese e lui non sentiva nessuna mancanza della sua città d’origine. E poi, nonostante che la sua sposa fosse bella e fertile – in poco tempo aveva messo al mondo quelle tre creature – il fratello minore non era cambiato riguardo al suo assiduo interesse per le bellezze femminili. Gli andavano tutte bene; arabe, portoghesi o indiane.  – Sei sempre il solito Rinuccio... – lo punzecchiò il fratello con un sorriso. Il figlio minore del notaio fece di nuovo la sua risata, la stessa che Alberto aveva sentito tante volte.

Invece la vita di Alberto, in quei nove anni era trascorsa interamente a Cochin. Durante la lunga sosta dovuta a riparazioni della stiva, molto più lunga di quanto avesse previsto lo stesso comandante Fernão Mendes Pinto, aveva conosciuto anche lui una ragazza malabarica, Shaila, una donna dolcissima che, non fossero state sufficienti le disavventure vissute nell’isola di Buru, gli aveva fatto definitivamente dimenticare il richiamo di nuovi e fatali viaggi. Da subito, in società con lo stesso Fernão Mendes Pinto aveva intrapreso il commercio di spezie con successo, diventando ricco.

Tuttavia, da due anni, numerosi induisti di una setta dura e pura che vedeva nei cristiani e nei portoghesi i nemici del loro popolo, avevano cominciato a perseguitare la missione dei gesuiti e insieme tutti coloro che aderivano al credo cristiano. Il padre gesuita che aveva fondato la missione sapeva di correre dei pericoli mortali, ma aveva continuato le sue prediche benché l'uditorio si assottigliasse sempre di più a causa delle violenze. Quel padre che si era formato da giovane stando alla scuola di Francesco Saverio sulle isole del Giappone, e della cui fede era rimasto profondamente affascinato e formato, non temeva la violenza e la morte; desiderava solo annunciare Gesù Cristo.

Un giorno molti di quei fanatici induisti erano entrati nella missione come un fiume in piena. Armati di archi e spade non dettero alcuna possibilità al prete di aprir bocca. Spinsero fuori, picchiandoli selvaggiamente tutti i componenti della comunità, ma non li decapitarono subito. All’alba il pietoso e secco colpo di spada procurò la morte ai bambini e a qualche vecchio; gli altri, una decina di persone, dovevano servire come ammonimento per tutti gli abitanti di Cochin. Strettamente legati, mani, corpo e piedi su di una croce rovesciata e a testa in giù, furono esposti alla vista di tutti fino al tramonto, mentre alcuni soldati di guardia si divertivano a sbeffeggiarli.

Alberto, come altri stranieri, risiedeva in una specie di cittadella fortificata con il suo bambino e con la nutrice Kinari, l’antica balia anche di Shaila. In quell’occasione si erano salvati dal furioso fanatismo che non aveva però risparmiato l’attività di Alberto e il suo magazzino. Frustrato da quell’avvenimento, e addolorato per aver saputo di quelle orribili torture, visse per giorni come in un brutto sogno, non riuscendo neppure a piangere.

Da tempo si era molto riaccostato alla fede e fu come se una parte della sua vita fosse stata spregiata e cancellata. Ricordava ancora con commozione il giorno in cui aveva sentito il suo animo aprirsi a Dio, come non mai. Alcuni anni prima, durante una celebrazione particolarmente intensa, alla consacrazione percepì quasi fisicamente che Dio si era incarnato ancora una volta in mezzo a loro. Egli, quella volta, poté sentire il sollievo di aver respirato con il respiro di Dio, con il cuore di Cristo. Da allora per Alberto il suo sentire non era stato più lo stesso.

Temeva per il figlio e alla fine, si decise; era l'ora di tornare in patria. Prima di partire i fratelli cristiani di Cochin, i pochi sopravvissuti, gli affidarono un quaderno fittamente scritto per il quale, una volta tornato in patria, avrebbe avuto da compiere un'importante missione.

Alla fine di gennaio del 1582, quando i monsoni invernali diventarono finalmente favorevoli, la flotta di ritorno dell’Armada da India salpò da Goa. Rinuccio e la sua famiglia erano sulla banchina per salutarli; entrambi i fratelli si immaginavano che quello fosse il loro saluto definitivo. Il fratello minore, pur senza convinzione, consegnò ad Alberto una lettera destinata al babbo e una lettera a parte per la madre. Si abbracciarono a lungo, ma senza patetici tentennamenti. Ognuno dei due aveva fatto la propria scelta di vita.

In vista del Capo di Buona Speranza i velieri della flotta furono costretti per ben dodici settimane a sostare di fronte a quel promontorio, volteggiando sempre con le vele ammainate, poiché i venti da ponente e da maestro di prua, non li lasciavano passare.

Il problema maggiore veniva dall’acqua che diventava sempre più fetida, mentre la verdura era diventata quasi inesistente. Per un bambino come Ugo sarebbe bastato poco per sfiorire fino alla morte, senza che il suo babbo, impotente, potesse fare qualcosa di concreto per salvarlo. Sulla nave erano tutti allo stremo e, ogni giorno che passava, qualcuno dei marinai ammainava la propria vita, consumandosi il triste rito dei cadaveri buttati in mare.

Uno di quei vecchi marinai raccontò che, al tempo del primo viaggio di Magellano anni prima, successe per tutto il tempo una cosa misteriosa e nessuno ne sapeva spiegare il perché: – ... quando li buttavano in mare, i cristiani andavano nel fondo con il viso in su e gli indiani sempre con il volto in giù... –

Alberto, pur nell’angoscia di quei giorni non dimenticò mai che, nella bisaccia che teneva sempre con sé per paura dei ladri, oltre al consistente gruzzolo di monete d’oro frutto del lavoro di molti anni – una parte di esse le aveva nascoste anche sul petto di Kinari, dove si confondevano con le sue grosse e cadenti mammelle – aveva una reliquia preziosissima. I fratelli cristiani di Cochin gli avevano affidato quel consistente quaderno dove, a suo tempo, alcuni padri gesuiti avevano riportato con religiosa cura gli insegnamenti, le testimonianze di vita e i fatti reali vissuti a fianco di padre Francisco Xavier, l’autentico campione della fede che gli italiani avevano ribattezzato Francesco Saverio. Un confratello era riuscito a ritrovarlo quando ormai sembrava disperso, dopo la sua morte quasi solitaria avvenuta sull’isola cinese di Sanchian. L’avevano affidato a lui con una missione da compiere. Avrebbe dovuto, una volta arrivato in patria, consegnare il quaderno personalmente al “generale” dei gesuiti, il successore di Íñigo de Loyola, ovunque egli si fosse trovato: – ... egli saprà lui che cosa fare... farà luce sui nostri santi e martiri... – gli avevano detto.

Infine, arrivarono a Lisbona. L’interminabile viaggio da Goa era stato molto più lungo e rischioso del previsto, ma Alberto, Ugo e Kinari, tutti e tre stremati ma salvi, poterono davvero mettere piede sulla banchina della capitale lusitana. Da lì i due fratelli erano partiti nel febbraio del 1571. Erano trascorsi ben undici anni che il figlio del notaio non rinnegava, né rimpiangeva; aveva sofferto ma era stato anche molto felice e poi, aveva conosciuto profondamente un mondo completamente nuovo. Certo, Shaila non c’era più, ma amava pensare di averla ugualmente accanto, in una dimensione diversa, invisibile ma non meno reale.

Un veliero per Livorno, la Santa Maria Aiuda, sarebbe partito fortunatamente tra due soli giorni.

Mar ligure, agosto 1582

Salparono alla fine di agosto. Il tempo era buono e Alberto e i suoi cari erano sul ponte. Rispetto a quella più aspra dell’oceano, l’aria salmastra del Mediterraneo era più temperata e più dolce. Nonostante tutte le difficoltà subite nei suoi viaggi a volte anche drammatiche, lui adorava il mare. Il vento che spingeva gonfiando le vele, l’impressione di volare sulle onde; erano belle sensazioni. Sensazioni già provate. Al sole di agosto il volto di Alberto pareva a poco a poco distendersi in un impenetrabile benessere.

Ma all’altezza delle coste della Corsica la vedetta avvistò una flotta in assetto di guerra dalla quale, incredibilmente, uno di quei galeoni cominciò a cannoneggiare verso di loro.

Anche la Santa Maria Aiuda, come tutti i mercantili, aveva bocche da fuoco, dieci cannoni di bronzo di piccolo calibro che sparavano palle da quattro libbre, cinque su ogni fiancata; quindi il comandante ordinò all’equipaggio di porsi in assetto difensivo e di tenersi pronti. Era preoccupato e sorpreso; non sapeva che al largo della Corsica ci fossero movimenti di guerra. In realtà, da un anno la Corsica era stata sottratta al controllo della Repubblica di Genova per opera della Francia sostenuta dalla flotta ottomana e ciò stava provocando continue tensioni.

Ad un certo punto, uno sbuffo di fumo si levò da uno dei due galeoni e un attimo dopo risuonò il colpo di cannone. Quella palla finì in acqua senza fare nessun danno; il cannoniere stava valutando la distanza; ma anche la seconda mancò il bersaglio.

Mãe de Deus... são loucos!.. – esclamò il comandante che in quel momento era vicino a Alberto. Il terzo colpo invece colpì di striscio la prua della nave portoghese, scuotendola. Fu il panico. Alberto, atterrito, corse immediatamente nella stiva urlando: – ... Ugo... Kinari... dove siete?... – ma, mentre scendeva attraverso il boccaporto, un altro boato scosse la nave. Il cannoniere del galeone genovese aveva messo a segno il colpo successivo, centrando in pieno la nave mercantile.

Stordito e sanguinante – era stato colpito di striscio da una trave staccatasi nell’impatto dell’enorme palla di cannone – Alberto trovò Ugo che, impaurito e tremante si era accoccolato tra le braccia della vecchia indiana. Soprattutto era vivo; lo prese in spalla e cominciò a scuotere la vecchia Kinari, la quale però non dava segni di vita. Era stata colpita in pieno sulla testa da un grosso legno mentre faceva scudo con il proprio corpo al suo bambino.

Alberto, in quel buio, doveva decidere. La nave poteva affondare mettendoci del tempo, oppure molto rapidamente. Fece una carezza alla cara Kinari e cominciò a salire le scale verso il ponte, quando vide, poco discosto e accanto a una donna giovane priva di vita, il corpo raggomitolato di un altro bambino che, stordito, emetteva flebili gemiti. Si chinò e, capendo fosse ancora vivo, sollevò in fretta anche lui, lo pose sull’altra spalla e risalì faticosamente all’aperto. Le scialuppe erano piene all’inverosimile.

La nave non affondò subito, rimanendo a mezza altezza al pelo del mare che, ironia della sorte, quel giorno era splendido, trasparente ed ancora caldo dei solleoni agostani. Uno di quei due galeoni genovesi le avvicinò facendo salire tutti i naufraghi. Erano fogge e facce di mercanti, chierici, persone comuni; in genere adulti, qualche bambino e pochi vecchi. Al porto della Lanterna furono tutti liberati, meno i marinai e il capitano del vascello, considerati nemici di Genova.

Il fiorentino trovò al porto una nave di piccola stazza che partiva presto per Pisa, una di quelle che facevano servizio fluviale nell’Arno e non ebbe esitazioni.

João José forse aveva un anno meno di Ugo, o forse era soltanto denutrito; Alberto non seppe mai il suo nome completo. Sul ponte del galeone nessuno si era fatto avanti per reclamarlo e Alberto non ebbe esitazioni: – I bambini sono tutti e due con me – esclamò. Il piccolo era probabilmente brasiliano e non era proprio nero. La donna che era con lui in quel viaggio intrapreso chissà per quale ragione – sicuramente la sua mamma che lui invocando ogni tanto chiamava mãe – era rimasta intrappolata come tanti nella stiva della Santa Maria Aiuda.

Ed ora João era lì con lui, con gli occhi grandi e tristi. Gli venne da pensare che in quei due bambini si riunissero le tracce somatiche dei popoli di tutto il mondo, molti dei quali lui stesso insieme a Rinuccio aveva incrociato in quegli anni. – ... già... Rinuccio... lo rivedrò mai? – sospirò.

Non badò a spese prendendo una diligenza a due cavalli con il suo conduttore. Aveva perso le due scarselle che aveva affidato alla buona Kinari affinché le tenesse nascoste sul petto sotto la veste, ma di denaro ne aveva ancora tanto. Quando, frenetico e angosciato aveva cercato di scuoterla non si ricordò neppure per un momento delle scarselle; dopo la carezza di addio alla cara donna pensò solo a portare in salvo Ugo e subito dopo João. Adesso ogni tanto gli tornavano alla mente ma in compenso gli sorrideva il cuore all’idea di aver salvato quel bambino da morte certa.

Settembre 1582

Il faticoso viaggio per Firenze durò alcuni giorni, non volendo stancare troppo i due figliolini. Una radiosa mattina di fine settembre vide passare quella carrozza attraverso la duecentesca Porta al Prato. Prima di arrivare in prossimità delle alte mura Alberto aveva attraversato boschi e i campi e rasentato gli orti; tutti posti che riconosceva e che ancora amava. Si rammentava che, quelle settimane, nonostante segnassero la fine dell’estate e il non lontano arrivo dell’inverno, ad Alberto erano sempre sembrate una specie di primavera, quasi una festa. Settembre preparava la strada ai colori dell’autunno, agli arancioni e ai gialli intensi, ai rossi e ai cupi marroni.

Durante quel viaggio poi si era messo ad immaginare come gli sarebbero apparsi i volti della mamma e della sorella, e in che modo avrebbe incrociato gli occhi severi del suo babbo con cui non aveva intrecciato alcun rapporto epistolare. Adesso doveva avere sessantadue anni. – .. chissà in che modo mi accoglierà... sarà vecchio? – Attraversò la grande porta pensando che presto la realtà avrebbe preso il posto di quelle immagini sbiadite e il cuore gli prese a battere forte.

 

Passando per le strette strade del Mercato Vecchio, gremite come al solito di gente indaffarata, ritrovò le solite botteghe artigiane che si aprivano sulla strada attraverso bassi e larghi archi attraverso i quali vi entrava la luce. In queste stradicciole non era cambiato nulla; barbieri, ciabattini, sellai, sarti e orafi svolgevano le loro arti davanti agli occhi di tutti. Il tessitore, davanti all’uscio sedeva al telaio, il beccaio sgozzava la pecora per metterla in vendita, i pescivendoli vendevano anguille, lasche e tinche arrivate dall'Arno.

Alcuni passanti, mentre la carrozza si avvicinava alla sua antica abitazione lo salutarono sbalorditi, qualcun altro invece, destando in lui un qualche stupore, fece il viso triste. Quando, superata ormai la colonna dell’Abbondanza e sbucati in via dell’Arcivescovado vide la gente silenziosa davanti alla sua porta, ne intuì il motivo; qualcuno in quella casa era in fin di vita. Una donna lo riconobbe e se ne uscì con un’esclamazione di sorpresa: – Alberto... è Alberto!... –

Salì svelto, portandosi per mano i due bambini, al piano superiore. C’era la madre e la sorella insieme ad altre persone che non conosceva, assorti al capezzale di colui che per anni aveva provato per lui quel sordo risentimento.

Avevano sentito dei passi che salivano le scale, insieme ad uno scalpiccio di passi più leggeri e quando Alberto si presentò alla soglia della camera, tutti, meno Agnese che era assorta su di un libro di preghiere, si girarono per vedere chi fosse. Si udirono gridi soffocati che, partiti sommessi per rispetto del malato, ne uscivano via via più forti.

Allora anche Agnese si girò e lo vide, quasi svenendo. Le gambe le fecero il verso di piegarsi, molli, ma fu sostenuta da qualcuno che le era accanto. Poi Caterina si slanciò ad abbracciarlo e lo tenne prigioniero in quella stretta per molti istanti. Alberto abbracciò tutti a cominciare dalla madre, a lungo. La donna piangeva muta bagnandolo con copiose e calde lacrime.

In quel momento il notaio aprì gli occhi. Non vedeva bene ma capì subito, con quel rimasuglio di lucidità che a volte i morenti tirano fuori dall’abisso, chi fosse. Fece uno sforzo grandissimo; volle che lo tirassero un po’ su. Gli altri si allontanarono o scesero le scale. Rimase solo Agnese, Caterina e i due bambini. Per loro non era un bello spettacolo, avevano la faccia spaurita, ma si erano attaccati alle gambe di Alberto, il quale si stese sull’estremità del letto appoggiato di fianco, accanto al padre.

I due non si dissero quasi nulla: – ... babbo... babbo... – ... Alberto... il mio figliolo... – Soltanto sguardi umidi e sofferti sospiri. Alberto voleva vivere in pieno quei momenti; potevano essere gli ultimi e potevano e parevano essere di riconciliazione. Lo accarezzò, ricambiato da carezze fatte con gli occhi, del morente. Poi chiamò il figlioletto, lo sollevò e glielo fece vedere: – questo, babbo, si chiama Ugo come te ed è tuo nipote... e buono più di me... ti farà onore. –

Il vecchio morente e tremolante, tirò fuori la mano da sotto le coperte, lo carezzò e poi lo benedisse, benché nella propria vita il notaio non avesse avuto tanta dimestichezza con i gesti sacri.

– Se almeno fossi arrivato qualche giorno prima... volevo chiedergli tante cose e chiedergli perdono... – pensò in quegli istanti Alberto. Si limitò a tenergli per qualche minuto quella mano trasparente con cui aveva benedetto. Gli sembrò di sentire una debole stretta, ma forse era solo un’impressione suscitata dal desiderio di avvertirne ancora la vita. L’uomo era ormai esausto e chiuse gli occhi. Morì quella notte. L’assenza di Rinuccio, non avvertita in tempo dal notaio morente, fu subito percepita come dolorosa e pungente da tutti gli altri, anche se in famiglia erano al corrente degli ultimi sviluppi.

Fino al funerale celebrato in San Lorenzo, non ci fu molto tempo per raccontarsi; solo degli accenni, l’uno degli altri. Finito tutto, venne il momento di ritrovarsi e di guardarsi negli occhi. Agnese era preparata alla morte; da mesi Ugo penava in quel modo, e stava sentendo fortemente quel distacco come aveva sentito per anni la pena del suo rancore per i figli.

Il racconto di Alberto avvinceva l’uditorio. Raccontò a lungo le sue peripezie per gli immensi oceani, parlò dei mori di Buru, degli schiavisti, delle persone che aveva conosciuto e della vita che aveva vissuto in quel diverso e inenarrabile paese delle Indie. Per loro che ascoltavano a bocca aperta, a volte con commozione, tutto era nuovo e affascinante. Parlò della sua amata sposa, Shaila e della sua rinnovata conversione alla fede.

– Shaila era la mamma di Ugo – disse chiamando il bambino a sé, – ed è per questo che è così bello e bravo... il volto è suo, compreso i dolci occhi scuri e profondi – E l’altro bambino... come si chiama... come mai è con te? – chiese Lapo, il marito di Caterina che, incuriosito da quel morettino con gli occhi grandi e tristi e dalle fattezze particolari, rese la parola al fratello, il quale raccontò commosso come l’avesse trovato in quel giorno terribile: – ... nessuno lo ha cercato, sicchè ho condotto João con me... ho fatto male? –

Alberto raccontò molto anche di Rinuccio di cui aveva consegnato le due riluttanti lettere, dicendo loro e non mentendo, quanto fosse felice. Stava aggiungendo altri particolari quando gli venne in mente il preziosissimo quaderno che gli avevano affidato per consegnarlo al “generale” della “Compagnia di Gesù”. Lo estrasse dalla sua bisaccia e lo mostrò alla madre che guardava in quel momento nel vuoto, verso un punto indistinto: – Naturalmente lo potrai leggere... anzi lo devi... ma poi ho da consegnarlo... – Lei era combattuta tra la contentezza per aver ritrovato Alberto e abbracciato quei bambini e l’infelicità di intuire che sicuramente non avrebbe mai più rivisto il volto di Rinuccio, né sentito la sua risata.

 

Caterina e Lapo Buondelmonti, un magro quarantacinquenne dalle spalle grandi e ossute, con gli occhi buoni e i capelli corti, non avevano neppure un figlio che invece avrebbero tanto desiderato. Lapo aveva intrapreso con successo il mestiere di setaiolo. Era rimasto assorto e in silenzio già da un po’. Si alzò in piedi, guardò tutti e, con voce rotta dall’emozione, disse: – ... João è trovatello... che cosa ne pensi Alberto... e anche voi... se diventasse mio figlio? –

In risposta trovò soltanto facce raggianti. Lapo si commosse; si convinse che João José sarebbe diventato un altro Buondelmonti, João José Buondelmonti. La sua bottega di setaiolo era ben avviata, produttrice del miglior shantung di seta. Il bambino, sentendo il suo nome, anche se non capiva si voltò incuriosito, incrociando lo sguardo già affettuoso dei due sposi non più infelici della loro solitudine.

Alberto visse giorni carichi di serena malinconia. Non ci è dato di sapere esattamente che strada decise poi di intraprendere, dopo quel suo ritorno a Firenze, insieme doloroso ma anche sereno. Abbastanza ricco per non angustiarsi troppo riguardo al suo domani, decise che avrebbe fatto ben presto il suo dovere, riguardo alla solenne promessa fatta ai cristiani di Cochin. Inoltre, si ricordava, ma con altra capacità di discernimento, quanto gli avesse insegnato quel giovane padre gesuita – gesuita proprio come padre Francesco Saverio, l’ardente missionario del quale gli avevano consegnato le preziose memorie – agli studenti di greco nei suoi anni irrequieti della giovinezza: – Essere veri, servire la verità in dialogo con tutti quelli che la cercano, anche i lontani.Capiva adesso che quei lontani non fossero solo gli abitanti delle nuove terre che aveva tanto sognato da ragazzo e che poi aveva ampiamente conosciuto, bensì i lontani da Dio.

Prima di lasciare Firenze si ritirò in disparte per qualche giorno. Affondando nelle profondità della sua memoria si mise a fissare per scritto fitte note riguardanti i molti e straordinari accadimenti che gli erano capitati. Contava di servirsene, un giorno, per farne un vero resoconto; pensò che forse l’avrebbe potuto far stampare con la nuova tecnica a caratteri mobili in uso ormai da anni.

Infine, assicurando tutti che sarebbe tornato presto, lasciò Ugo ad Agnese che si innamorò subito di quel bambino dalla pelle ambrata e si avviò, questa volta a piedi, alla volta di Roma. Il successore di Ignazio di Loyola, come sembra e come riferì più di un testimone, riconoscente e commosso per quel quaderno – un dono, come disse, arrivato non dall'India ma dal cielo – invitò Alberto a fermarsi per un po’.

Qualcuno, recatosi a Roma in pellegrinaggio qualche anno dopo, giurò di aver visto un gesuita – come tutti i gesuiti vestito poveramente di nero – uguale identico ad Alberto, mentre predicava sul sagrato di Trinità del Monte. Ma un suo compagno che lo accompagnava, asserì invece di non esserne stato molto sicuro.

Quel suo sospirato manoscritto poi stampato venne davvero alla luce. Non ne è sopravvissuta alcuna copia a tutt’oggi, ma quella storia fantastica in qualche modo è arrivata fino a noi, ispirandone, in modo inadeguato, il presente racconto. 

– fine –

                                     

 

 

QUIVI STO BENE – 1356 –

QUIVI STO BENE – 1356 – Ciapo, Janeto, Bartomieu, Jacobus, Francesco DatinI

13

La mia condizione di orfano, quasi infante, mi aveva portato, per la premura forse un po’ troppo frettolosa di uno zio materno, ad entrare nel convento di san Francesco, dove i seguaci del poverello di Assisi mi avevano accolto fraternamente e dove avevo ben imparato a leggere e a scrivere.

Nel silenzio della stalla dei cavalli – animali che amavo molto – dove Francesco Datini provvisoriamente mi aveva sistemato, mi sentivo commosso. Sentii la stalla non come rifugio, ma luogo dove il mio spirito s’incontrava con la libertà. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a esprimere bene a me stesso i sentimenti che sgorgavano dal fondo della mia anima.

Provavo gratitudine per quei frati che erano stati per me padri e madri, oltre che maestri nella fede, ma la rendevo cosa da poco con il dubbio di averli in qualche modo delusi. Loro erano stati contenti di me, sempre pronto all’ufficio divino, impegnato nello studio, fedele e sincero, almeno è così che apparivo ai loro occhi.

Il mio padre spirituale era stato padre Jacobus, un frate alto e massiccio di origine germana, dalla voce profonda, apparentemente burbero, ma capace di voler bene, cioè di volere il vero bene. Diceva che il vero bene consistesse nell’educare alla verità, anche se poi era nello spiegare quale fosse davvero la verità, che il buon frate a volte si confondeva. Nondimeno sapeva esprimere, senza indulgere troppo al patetico qualche gesto di tenerezza.

Il frate mi raccontava di quando, davanti al bel portale della chiesa di San Francesco a Prato, a quanto pare la prima chiesa ad essere stata intitolata al poverello d’Assisi, fui accolto per la prima volta: – ... per esser giovine di tredic’ anni eri piccolo di statura, et assai magro, menavi l’anima infra e’ denti… ma dall’ occhi attenti testé mi cognosceva che fussi uno giovinetto intelligente… –

Aggiungeva anche che aveva sperato di fare di me qualcosa di buono, trovando avessi una sensibilità non comune per il bene e per la bellezza. – ... sei homo bono... anco troppo Ciapo... che ciò non ti faccia sofferire... – mormorava ogni tanto.

Anche se poi, temo che quella speranza di fare di me qualcosa di buono – come succedeva ai fiori degli zucchini coltivati nell’orto del convento – gli sia sfiorita presto. Infatti, al momento di esprimere la mia promessa perpetua, ormai diventato adulto, avevo esitato e poi rinunciato.

 

– Che Iddio mi perdoni! –   mi venne di esclamare, ma poi le parole si persero nel silenzio della stalla; un asino sembrò quasi farmi eco con un debole raglio insonnolito. Sapevo, come mi avevano sempre insegnato, che la vita claustrale fosse la via diritta che porta a Domine Iddio; ma al momento di prendere quella decisione – le promesse e i colori del mondo mi assalivano – mi ero detto altresì che di confidare di percorrerla in altro modo.

Ero attratto dall’universo femminile e bramavo avere moglie e figli; figli che avrei cercato di allevare cristianamente e, chi sa – pensavo tra me forse per intorpidirne il rimorso – che qualcuno di quei figli che il Signore avesse avuto la grazia di donarmi, non avrebbe percorso al posto mio la strada del cenobio. In quel momento un puledro vicino ebbe un movimento improvviso che mi fece sussultare. Sollevato a sedere sul pagliericcio mi venne di ricordare quando, alcuni mesi prima, aggirandomi un po’ confuso nei dintorni della pieve di Santo Stefano – penso sia stato il mio angelo a guidarmi fin lì – ebbi ad incrociare Francesco di Marco di Datino, un mio cugino alla lontana, tornato a Prato da Avignone per alcuni suoi affari. 

Lui che aveva due anni in più di me – era partito per la Provenza all’età di quindici anni, e adesso era un uomo fatto – mi riconobbe subito anche se durante il nostro ultimo incontro per le turrite strade della città, gli ero apparso già frate incappucciato e chierico. Il futuro mercante, fin da ragazzo, aveva sempre avuto simpatia per me fraticello e un po’ consanguineo. Forse sapendo della mia sorte gli facevo compassione.

Guidotto, il mio babbo, faceva il ciabattino in modo dignitoso, anche se i ciabattini in quell’epoca passavano per imbroglioni, avendo gabellato – qualcuno di loro – pelle scadente per pelle buona. Avevo già imparato qualcosa, il lavoro mi piaceva, mi piaceva anche l’odore della pelle conciata. Poi il mio babbo morì di peste allo stesso tragico modo di quello di Francesco, nei giorni terribili dell’anno 1348.

Ci univa la comune sorte di orfani, ma il figlio di Marco di Datino mercante e di monna Vermiglia era stato più fortunato di me. Insieme a suo fratello era rimasto sotto la tutela di Piero di Giunta del Rosso e accolto in casa di monna Piera, che fece loro da madre. Poi, dopo aver frequentato varie botteghe di Firenze, apprendendo l’arte dei conti e della mercatura, si era trasferito ad Avignone, sede papale e fiorente centro commerciale, dove aveva fatto una rapida carriera come mercante.

Invece mio zio – lui era vedovo fin da giovane e si era abituato alla vita solitaria – trovò la soluzione di sistemarmi in quel modo. La mamma che sognavo spesso i primi anni quando, nel dormitorio del convento mi sentivo triste nel silenzio della notte, mi diceva: “ Ciapo… sei un bel fraticello… davvero!…  ti vedo sai… –

– Oh te, Ciapo, non sei più frate?... che mai ti successe?  – mi chiese appunto Francesco quel giorno in via de’ Sarti, vedendomi spoglio del saio francescano. Mi vennero le lacrime agli occhi raccontandogli della mia decisione e dicendo che stavo cercando un lavoro, qualunque fosse.

Il giovane mercante mi disse allora che aveva bisogno di una persona di cui potesse fidarsi ma non a Prato, ma piuttosto nel contado intorno ad Avignone in Provenza. La compagnia commerciale di cui Francesco era socio e che faceva capo al ricco mercante fiorentino Giovanni Di Marco, per rientrare da un grosso credito aveva rilevato una fattoria situata intorno al borgo di Pellenc. Per la conduzione di quella fattoria aveva bisogno di persone di fiducia, proprio come pensava fossi io, Ciapo di Guidotto Gori.

 

– Adesso son qui… quivi sto bene… – sussurrai con un filo di voce a me stesso.

Mentre cercavo la posizione per dormire stavo fugando quei residui dubbi; sentivo di aver fatto la cosa giusta e presi sonno, cullato dai lievi rumori notturni che fanno i cavalli semi addormentati nella stalla.

Adesso il mio lavoro era tra i campi e la vita all’aria aperta mi si confaceva. Ricordavo che nel convento di San Francesco a Prato dovessi accudire, insieme ad altri novizi come me, un bell’orto attiguo al complesso cenobiale. Dall’alto del campanile, dove a volte mi arrampicavo e mi nascondevo con un mio compagno fraticello, si vedevano, oltre la cinta muraria, vasti campi di bionde e mature messi all’inizio dell’estate, oppure, sotto il sole sbieco, ma ancora caldo di metà ottobre, e appena un po’ più verso nord, vigne cariche di grappoli maturi.

I frati minori, in coerenza con il loro stile di povertà, non avevano poderi in campagna come si sentiva dire avessero i benedettini. Ma una volta alla settimana o anche più, in saio grigio cinto da una corda, e in sandali senza calze, uscivano da porta Santa Trinita a due a due, in direzione delle campagne intorno alla pieve di San Bartolomeo, oppure verso quella di Sant’Ippolito.

A volte, in quelle occasioni i frati chiamavano me per il giro della questua ed io toccavo il cielo con un dito. Con la bisaccia pendente sulla spalla andavamo in cerca di pane o di noci, e non ritornavamo quasi mai al convento senza che la generosità povera dei contadini non avesse riempito quelle bisacce del necessario per poter vivere, riempite di tutto, ma non di denaro. Noi francescani non potevamo né ricevere monete, né toccarle con le mani e neppure con un pezzo di legno.

Io ero un ragazzo innocente e non capivo che quello fosse un modo di dire, così, quando un giorno mi azzardai a toccare con un mestolo di legno uno zecchino, capitato chissà come sul tavolo del refettorio, rimasi confuso perché non era successo nulla; finché, preso dal rimorso mi confessai dal padre anziano. All’epoca non immaginavo che anche un frate così venerando, con risate fragorose, potesse ridere dei peccati.

E il cappuccio di noi frati minori, a punta come quello del popolo più povero e non rotondo rappresentava la povertà che avevamo abbracciato; come il grigio saio – quello fatto con la stoffa più umile e cinto da una corda – alla bisogna veniva rattoppato con stoffa di sacco.

Io amavo camminare per i campi, saltare quei fossi, amavo il gracidare dei ranocchi o il frinire delle cicale in piena estate, lo stormire delle querce in autunno e perfino il rumore dei sandali, calzati con i piedi gelati, sul duro strato di nevischio lungo i sentieri e i viottoli, d’inverno.

Ogni tanto rimanevo un po’ indietro richiamato presto dagli impazienti frati quando, attratto dal pigolio, scoprivo un nido con i passerotti reclamanti il loro cibo oppure, ancor più, quando passava lemme lemme un cavallo con il suo cavaliere. La vista di un cavallo mi estasiava e mi tratteneva lì, finché non lo vedevo allontanarsi lontano.

Mi addormentai, pensando alla vecchia pieve di Pellenc. Per troppo tempo la mia vita era stata scandita dai tempi del salterio e della preghiera quotidiana. Adesso, adagiandomi al mio nuovo stile di vita, avevo perso quelle abitudini, ma ne sentivo una vaga nostalgia.

La chiesa di Pellenc era disadorna all’interno, ma la struttura era piacevole. Mi ricordava l’Oratorio di San Bartolomeo che frate Gilberto, un frate piccolo di statura e magro che, passando per quella campagna del contado pratese alla ricerca di pane, mi indicava: – Guarda Ciapo… questa pieve… par fatta apposta per disporre alla priega… – Frate Gilberto era un frate laico; non volle mai diventare sacerdote dicendo che ne fosse indegno, ma era uno studioso e sapeva anche di greco e di altri antichi linguaggi.

Ricordo che questo fratello avesse anche una curiosa propensione ad interrogare le giovani contadine che, lungo i viottoli trovavamo occupate in qualche lavoro nei campi; ne chiedeva il nome, l’età e se facevano le orazioni; poi proseguendo, di tanto in tanto, si girava ad osservarle mormorando qualcosa. Adesso che ho l’età per intendere le cose del mondo non lo giudico.

Al mattino seguente, entrato in quella chiesa mi rivolsi verso una grossa croce in legno scuro, posta in alto e centrale all’abside, sulla quale vi era dipinto un Cristo in agonia. Il volto aveva un’espressione che mi colpiva, l’espressione di un’umanità sofferente.

Davanti a quel legno scuro, insieme al sentimento di sincera devozione percepivo un certo disagio interiore. Da un lato il richiamo della fede, dall’altro la forte attrazione alla mondanità. Il mio indistinto desiderio di cose religiose confliggeva con la vita materiale, anche nelle forme più oscure e carnali.

Avevo cominciato in convento a sentirmi confuso e non solo per la forte attrazione che sentivo verso la sessualità femminile. E da novizio sapevo già qualcosa riguardo a certi comportamenti contro natura; me lo aveva spiegato per primo, a suo tempo, un altro fraticello indicandomi per strada due giovani di cui si diceva condividessero una reciproca e innaturale attrazione. Sul momento ciò non fece altro che aggiungere confusione a confusione. Tuttavia, riposi presto l’immagine evocata e suscitata dal malizioso novizio nel dimenticatoio, come fosse stata una qualunque figura di uno di quei bestiari mostruosi osservabili nelle miniature delle pergamene che, affascinato e curioso osservavo fin da ragazzo in quegli enormi libri dello scriptorium; mirabili allusioni enigmatiche, animali con mani umane sulla schiena, teste poste su zampe di uccello, cani feroci dal collo fatto a serpente, anomali amori.

Alla fattoria trovai presto un amico, Bartomieu, un amico sincero con cui sentii di potermi confidare; un giovane bracciante originario della Linguadoca che dormiva nella casa in legno dove, dopo le prime settimane, ero stato anch’io sistemato. Era un ragazzo semplice e sorridente che mi stava a sentire e che parlava poco. Ma più di tutto occupava la mia mente la figura di una giovanetta incontrata al pozzo di Pellenc.

Era successo, un giorno, che tale fanciulla dopo aver attinto l’acqua stava andandosene quando io, per istinto le chiesi l’uso della sua tazza. Lei, senza indugio fece qualche passo indietro e me la dette; aspettò che mi dissetassi e poi si allontanò.

Camminando per le vie di Prato insieme agli altri novizi ricordavo bene di aver osservato qua e là fanciulle di tanti tipi e, seppur di sbieco e con il cappuccio abbassato sapevo distinguere le donne belle da quelle che non lo erano. Ma non avevo mai visto una giovane donna come lei, e sì che vedevo il mondo più da vicino da non molto tempo.

Alla sera, sdraiato sul mio giaciglio e, mani sotto la nuca guardando nel vuoto verso le travi del soffitto, mentre mi sforzavo di ricordarne l’andatura e l’aspetto lei, con quel viso e quegli occhi mi compariva davanti. La settimana successiva l’avevo rivista una seconda volta e alla stessa fonte. Rimasi sorpreso, avevo ritenuto improbabile l’idea di rivederla. – Ma che fo… sarà meglio ch’io me’n vada...  –

Mi sembrava di apparire ridicolo, ma improvvisamente cambiai idea e, cappello in mano, mi feci avanti e le chiesi il nome dopo averle detto il mio. La fanciulla mi rispose subito con un soffio di voce dicendo di chiamarsi Janeto. Poi mi porse la tazza con l’acqua senza che gliela avessi chiesta; quindi, sollevò gli occhi e mi rivolse uno sguardo così intenso da sembrarmi lunghissimo. In realtà era stato breve come un battito di ciglia; e lei aveva ciglia lunghe e nere, bellissime, su occhi splendenti e verdi. Nondimeno, come ebbi a rendermi conto più tardi c’era un’ombra in quegli occhi, un’ombra che sul momento non colsi.

Durante il viaggio di ritorno – la fattoria distava tre miglia da quel borgo – faceva molto freddo e quelle mie logore brache di tela grezza sotto alla leggera tunica non erano adatte alla stagione ma io sentivo ugualmente caldo.

Camminando svelto, in piena confusione mentale ripensai, chissà perché, ancora a padre Jacobus che mi aveva forgiato nel rispetto del proprio corpo e nell’esercizio della castità. Adesso, la sera, ero scosso da pulsioni vivaci che faticavo a tenere a bada e che mi procuravano un vago senso di colpa. Non rinnegavo nulla di quella formazione interiore che intuivo essere tuttora preziosa ma il mio cuore, un cuore ancora vergine, impercettibilmente stava per essere vinto dall’immagine di quella singolare contadina.

L’avevo avvicinata poi una terza volta con lo stesso pretesto e il suo comportamento mi sembrò allora un po’ diverso. Non sapevo che cosa pensare ma, pur non avendole mai veramente parlato, appena sussurravo quel nome sentivo un dissennato intensificarsi dei palpiti del cuore. Poi, per poter prendere sonno mi dicevo: – Chissà… sarà meglio più non vi pensi … –

Un giorno di febbraio – ancora un giorno molto freddo ma assolato, inusuale per la Provenza – mentre ero aggrappato ad un ramo di un grosso albero di noci per togliere un ramo pericolante, dall’alto, vidi passare a cavallo quasi sotto di me, il padrone di quelle terre insieme a sua moglie, una donna molto bella. La signora Elisabeu era molto più giovane di lui; gambe lunghe e forti cosce con cui ben domava la sua cavalcatura alla maniera maschile. Il volto pallido decorato di qualche lentiggine era incorniciato da una rossa e lucente capigliatura che sembrava, caracollando, una fiamma ardente; come ardenti erano – sembrando come febbricitanti – gli occhi neri inquieti. Appena dietro alcuni paggi e scudieri, tutti belli e ben vestiti, e i cavalli di pelo lucido che brillava al sole, con code lunghe e fluenti. Mi mise ad ammirarli, fantasticando, accompagnato dal rumore degli zoccoli sui ciottoli del viottolo.

– Anch’io un giorno, se Iddio vorrà, cavalcherò un cavallo… – Ricordo bene di aver pronunciato quel proposito che in quel momento mi parve più importante di altri come la famiglia, o come una casa in quella nuova terra. Ogni tanto cullavo quel sogno, sapendo bene quanto, tale aspettativa, fosse lontana da potersi realizzare, essendo il possesso di un cavallo un lusso per pochi. Nondimeno ammirai quella splendida donna dalla rossa chioma.

Il venticinque dicembre dell’anno mille trecentosessanta, nel giorno della incarnazione di Cristo nessuno, ad eccezione dei villani mungitori di mucche, lavorava. Di buon’ora mi incamminai per Castéu; ero intenzionato a partecipare alla Messa e poi ai Vesperi del pomeriggio. La vidi in chiesa, devota e attenta con il padre e la madre. Alla fine però, Janeto, coperta da un largo mantello per ripararsi dal nevischio pungente, scappò via con loro. – M’ha appena guatato, e non m’ha sorriso. –  rimuginavo sconsolato e infreddolito al ritorno, camminando con lo sguardo in terra per evitare le buche coperte di neve fangosa, nel buio del pomeriggio inoltrato.

Essendo di carattere mansueto ma ostinato, dando credito a quello che il cuore mi suggeriva, continuai quella specie di pellegrinaggio settimanale a Pellenc e, finalmente, alla fine di gennaio, la rividi, ma ebbi subito una cocente delusione: – Non capisco, parea quasi piagnesse... è scappata via. –  Mentre mi dirigevo mesto alla bottega del maniscalco, mi tormentai a lungo.

Qualche giorno dopo, sulla strada che conduceva al villaggio di Castéu che stavo percorrendo a piedi, la vidi. Al limitare del bosco, insieme ad un’altra villana, Janeto raccoglieva delle bacche rosse medicamentose e le infilava lesta in una cesta.

Feci per fermarmi, ma – essendo in quei giorni in preda di continue contraddizioni – pensai fosse cosa da non fare. Ugualmente mi avvicinai a quelle macchie di rovi e le giovani, sentendo il rumore dei passi, si voltarono verso di me.

– Monna Janeto; perdonate se vi noio; sol per uno saluto e per dimandarvi se state in bona salute. – esordii con il mio provenzale ancora incerto. – Messer Ciapo… – mi rispose. – ... non son malata come ben vedete. Che Iddio vi guardi sempre.  –  Dicendo ciò, mentre cercava di distogliere lo sguardo la ragazza arrossì.

 Favvi onore l’essere in pensiero per l’altri ma, ditemi, acciò che mi chiedete questo? –   aggiunse guardandomi di nuovo in viso. – Perdonate se chiedo degli affari vostri, ma vi ò veduta commossa qualche dì orsono, e pensai ad uno malanno o ad una mala ventura –

A quelle parole la ragazza sospirò, volgendo lo sguardo all’amica. – Niun malanno e niuna sventura, ringraziando iddio. Nol posso dire ciò che ‘l cuore vorrebbe dire, ma uno dì saprete e capirete. –  Detto questo le due fanciulle, fatto uno svelto inchino se ne andarono.

– Vorrei morire. Janeto è promessa sposa ad uno villano di Malhet. –  La settimana successiva capii. Lo seppi dal linguacciuto maniscalco, uno che sapeva sempre tutto di tutti e che godeva delle altrui disavventure. La gravità delle mie parole mi avrebbe sorpreso, quando in futuro ebbi a ripensarci. Eppure, quel primo sguardo di Janeto che mi aveva incantato e che mi era sembrato rivelatore, esprimeva già – ma questo l’ho capito dopo – insieme all’interesse per la mia persona, un rassegnato e muto rimpianto.

I suoi genitori avevano deciso del suo futuro. Antunet, il padre, al gelo di un fangoso febbraio e riparato dallo spesso cappuccio e dal mantello foderato di pelle di montone, era uscito la mattina presto. Aveva preso con sé, insieme al grosso bove, il piccolo Angeluno, uno dei tanti fratellini di Janeto, perché gli corresse al fianco con il pungolo. Quel giorno, come gli era d’obbligo per tre giorni alla settimana, doveva guidare il carro dell’aratro sui campi del signor padrone e non sui suoi campi. Mentre rabbrividendo scuoteva la brina dalla barba, pensava alla decisione che la sera prima, nell’intimità del giaciglio notturno, aveva preso, insieme alla moglie, riguardo al futuro della figlia.

Avevano scelto Daniset – ci pensavano da tempo ormai – un giovane di ventiquattro anni, figlio di coloni anch’essi rispettabili, un giovane villano che era sembrato loro adatto per la figliola adolescente, appena più che quindicenne.

Era opinione comune – e a volte mi veniva di pensarlo anch’io – fosse cosa saggia dare uno sposo alla donna, ancora giovane fanciulla, perché non avesse a “pervertirsi” nell’attesa del matrimonio. – … ché, le donne divengon viziose quando non hanno quello che la natura richiede…  –

A quanto pareva, dopo estenuanti trattative tra i due capofamiglia, per la disperazione silenziosa della giovane Janeto, l’accordo era stato raggiunto. Seppi anche che lo aveva visto e lo aveva sentito parlare. Gli sembrava sgraziato e volgare. Durante i giorni di festa, quando i contadini usavano ballare, cantare e motteggiare sul sagrato della chiesa, lui correva dietro alle villane senza molto ritegno. Aveva una bella voce però, e si dilettava ad intonare vecchi canti quasi pagani, oppure ribaldi canti d’amore che dispiacevano alla Chiesa.

La sera di quel giorno d’inverno, dunque, ritornando al suo modesto “manso” con il piccolo Angeluno, rauco per il freddo e per il gran gridare che aveva fatto al bove, Antunet dovette aver trovato la figlia piangente e rassegnata e rintanata in un cantuccio. Probabilmente gli altri fratelli, affamati e incuranti di quel dramma si erano già accomodati per la cena a base di pane di segale, formaggio e qualche striscia di carne secca, alla tavola.

Pensavo di essere maggiormente padrone delle mie emozioni. Padre Jacobus mi aveva insegnato a dominare gli istinti, dicendo che l’uomo sia essere dotato di ragione. Con San Tommaso d’Aquino diceva che la ragione umana che è capace di indagare i misteri di Dio-Verbum-Logos, fosse anche  in grado di guidare l’istinto verso il bene. Mentre tali reminiscenze mi sgorgavano facilmente alla memoria, d’altro canto mi chiedevo che cosa mi stesse succedendo. Quell’embrione di sentimento ancora indefinito era cresciuto dentro di me come creatura nascosta e preziosa, alimentata dalla mia fantasia; e quasi non me n’ero accorto.

Contra sua voglia io spero e per isdegno lei va in sposa. –  Era l’auspicio che, nei giorni seguenti, nonostante la mia supposta razionalità ripetevo a me stesso e con cui cercavo di consolarmi ma senza riuscirci.

Il Datini, venendo in visita alla fattoria – ma il suo lavoro di gran mercante lo teneva quasi sempre ad Avignone – si accorse che in me qualcosa non andava; era cugino di secondo grado e più vecchio soltanto di due anni ma mi considerava come un fratello minore. Mi apprezzava per la laboriosità e l’onestà – era per questo che mi aveva voluto con sé – ma adesso era preoccupato del mio stato emotivo, parendogli quasi febbrile: – Passeragli cotesto mal d’amore… almen spero – diceva in giro scotendo la testa.

Ma invece quel mal d’amore era come una sottile malattia da cui non ero capace di uscire: – Sono il più infelice degli homini ... – dicevo a voce alta ostentando una specie di ironico vittimismo.

Per non pensarci troppo lavoravo a più non posso avendo preso a fare un po’ di tutto; riparavo con perizia gli edifici, curavo la cantina, accudivo agli alberi da frutto e tutto quello di cui ci fosse bisogno. Non era solo un forte zelo; piuttosto lavoravo con furore, nella speranza di acquetare quella malinconia. Di cose, in un “manso” signorile ce n’erano tante da fare. La fattoria era costituita da una casa grande fatta in pietra che si affacciava su di un cortile interno, e solitamente abitata dallo stesso fattore. Da una parte c’era un gruppo di edifici ben recintato dove vivevano e lavoravano le serve, alcune giovani e belle, dall’altro lato un gruppo di piccole case in legno per i servi, le botteghe degli artigiani, un essiccatoio, una cucina, stalle, granai, stabbi e un grande orto. Tutt’intorno una siepe fitta di alberi e piante a disegnare come una vasta corte.

La sera, stremato – sperando che la fatica mi aiutasse a dormire – mi addormentavo subito ma la notte mi svegliavo e, ad occhi ritti e umidi di pianto, seduto in terra, appoggiando il capo alla parete della stalla dove in quel periodo avevo preferito tornare per trascorrere la notte, guardavo il cielo non sempre stellato, per addormentarmi infreddolito soltanto poco prima dell’alba.

Francesco, vedendomi in quel modo, mi rimbrottava e insieme cercava di sdrammatizzare: – Sei grullo, Ciapo, nol vedi quante belle villane a torno?... ma qual malanimo ti piglia? – Volle convincermi che a quelle donne – sia a quelle giovani come a quelle più mature – piacessero molto i miei occhi chiari, il mio corpo snello e tutto il resto. E in effetti quelle villane mi accompagnavano spesso con sguardi non tanto furtivi.

Stavo cominciando a prendere in considerazione quel consiglio e a guardarmi intorno, quando, il venticinque maggio dell’anno 1357, il signore del castello di Castéu, il conte Dumenic de Bouillon, il padrone di quelle terre, fu avvelenato proprio durante il banchetto, alle nozze di Janeto. Fu un avvenimento scandaloso, che recò vergogna alla famiglia della povera ragazza e a lei stessa.

I genitori avevano previsto la sua presenza; non l’avevano invitato, ma non ce n’era bisogno. Era cosa normale che il nobile padrone con i suoi cortigiani e cavalieri intervenisse al banchetto, come a ribadire con ostentazione chi fosse il padrone. Janeto era cresciuta, si può dire, sotto gli occhi del nobile che girava spesso con il suo altrettanto nobile destriero per le sue terre. Ora, al banchetto, l’ammirava seduta proprio davanti a sé.

Chi c’era al banchetto, un servo che conoscevo, ha poi descritto quanto, quel giorno, lei apparisse bella; alta, dal carnato bianco come la luna, piacevolmente rotondeggiante, occhi verdi. Il corpetto le slanciava la figura, mentre dall’ampia e rotonda scollatura dell’abito le usciva la camicia a sbuffo. I boccoli neri che le cadevano dietro in mezzo alle spalle, legati da un nastro di seta rosso, erano circondati sulla fronte alta, da una bianca ghirlanda di grosse margherite appena sbocciate. La bocca, rossa e carnosa, sembrava essa stessa un fiore.

A Dumenic de Bouillon che aveva quarantatre anni e che si circondava di molti cavalieri armati, le ragazze giovani piacevano, e non lo nascondeva. Nel vasto cortile contadino, ammiccanti e arroganti, si erano sistemati bravamente nei posti migliori davanti agli sposi, facendo apprezzamenti sfrontati alla sposa, noncuranti degli sguardi di fuoco del giovane Daniset, impotente.

D’un tratto il sicario si era alzato dalla tavola e, avventatosi contro Dumenic de Bouillon lo aveva pugnalato una prima volta alle spalle e poi, mentre il nobile cercava di mettersi in salvo, ancora al petto e ai fianchi. Quell’imprevisto sicario era un chierico ed era proprio lo zio di Janeto.

Fu l’inferno; urli, pianti, tavoli all’aria. Ben presto erano accorsi altri cavalieri in arme che circondarono il cortile e dopo una breve colluttazione il prete fu catturato e portato via con fragore insieme allo sposo di Janeto e altri commensali nella prigione del maniero.

Quell’uomo, messer Pascau Duffaut, inaspettatamente, pochi giorni addietro, si era presentato dal cugino che lo aveva accolto con malcelata meraviglia, con una stoffa di seta di Lione, dicendo che voleva festeggiare anche lui la propria unica nipote, Janeto. Sembra che questo zio alla lontana, chierico secolare a Carpentras e ancora non anziano, avesse un oscuro passato e molti misteriosi interessi.

– Che pena, povera Janeto… qual dolore… – Ero molto addolorato per lei. Avrei voluto consolarla, ma non sapevo come fare. Nei giorni che seguirono fu un continuo susseguirsi di supposizioni, dicerie, qualcuna suggerita anche da malevolenza. Si parlò molto di quell’uomo: – … quel priete… quel dimonio… che Iddio lo fulmini… dicono fusse un cavalier templare… – Dopo qualche giorno, si mormorava che il Pascau non fosse stato il solo ad ordire quel complotto e che altri complici lo avessero aiutato.

Avendo il compito settimanale di andare nel villaggio di Castéu, dove c’era il fabbro, per la manutenzione degli attrezzi, durante il cammino pensavo: – Non veggio Janeto da alquanto tempo oramai. Che ne sarà di lei? –

Alla fine di quel compito passavo, ma con il cuore in gola, davanti a quel pozzo. Non potevo farne a meno, ma al tempo stesso mi auguravo di non vederla; non avrei saputo cosa dirle, anche se, a due anni di distanza cominciavo in qualche modo a parlare la lingua d’oc. Due volte soltanto la intravidi da lontano, ma non ebbi il coraggio di avvicinarmi. Sapevo fosse triste e smagrita, che non voleva vedere mai nessuno e che si rifugiava in casa a filare la lana.

Il marito di un mattino, Daniset, secondo molti sicuramente innocente, era ancora in una tetra prigione ad Avignone, dopo più di un anno. Janeto aveva implorato di vederlo, ma le era stato impossibile. Pesava il fatto che lei, pur vittima innocente, fosse imparentata con il Duffaut accusato di una abominevole colpa, la maggiore che si potesse commettere; un popolano, seppur chierico, assassino del nobile padrone e Signore del castello di Bouillon.

Pochi giorni dopo, il vecchio maniscalco, mi rivelò quant’altro aveva sentito dire. Erano venuti fuori alcuni nodi al pettine della memoria: – …  che Daniset fusse parte nell’odio, alla rivolta violenta nomata Jacquerie. Al passar di un signore, che avea un dardo e l’arco in mano, li gittarono de’sassi dalle finestre, per modo che fu fedito nella mano. –

Fu riconosciuto casualmente da una vittima di quelle violenze contadine di due anni prima, molte delle quali rimaste impunite e finite nell’oblio; peraltro violenze cominciate nel nord della Francia e propagatesi poi anche in Provenza. Accusato quindi come colpevole di una colpa minore, circoscritta ad un episodio che non atteneva all’assassinio del banchetto di nozze.  Nozze che il povero Daniset non aveva, né avrebbe mai più consumato.

Dopo alcuni giorni, ero nuovamente al villaggio nei pressi di quel pozzo e riuscii a parlare con lei: – Amb joc de mots de amor… – Lo raccontai così, la sera, all’amico Bartomieu: – con parol d’amore, dissi a Janeto quanta pena provavo e quanto l’aveo disiata, ma nell’onore... ed ella piagnea forte e nulla parola gentil parea lenir il dolor suo. –

Alle mie parole lei, guardando nel vuoto verso un punto lontano e senza neppure un filo di pianto aveva replicato: – Abans de téner vergonha … Innanzi ch’ io voglia sofferire la vergogna gitterommi in questo pozzo quivi appresso: nel quale poi essendo trovata morta, niuna persona mi torrà l’onore. –  Tale fu la terribile risposta di lei.  – Se tu muori, anch’io morrò teco...  – le avevo risposto d’impulso, offrendole senza tanto pensare l’estremo gesto.

 

Una mattina del mese successivo, su una preziosa pergamena che avevo tenuto in serbo, dopo averne cancellato il vecchio scritto con la pietra pomice, scrissi: – dì XXX agosto dell’anno 1357, una giustizia ingiusta pose fine a tutto. Pascau Duffaut e Daniset son davanti a Colui che giusto, pesa i giusti e mi ingiusti e ricognosce anco l’amor di ognuno  –

L’audace assassinio aveva avuto grande eco nella regione di Avignone, ragion per cui gran folla era venuta ad assistere all’esecuzione capitale dei tre rei. Janeto atterrita, accompagnata da suo padre, era lì tra quella folla. All’uscita da uno stretto passaggio, si erano trovati con stupore nella piazza antistante al Palazzo dei Papi, gremita di gente urlante e ansiosa di godersi lo spettacolo.

In quella folla – ben attento a non farmi vedere – c’ero anch’io. Il clamore e l’eccitazione della piazza, in contrasto con l’austerità solenne della torre san Lorenzo che sovrastava la piazza, si attenuò solo quando ai condannati – a cui un frate domenicano, intanto, aveva fatto baciare loro il crocefisso –  venne chiesto se volevano essere incappucciati. Pascau Duffaut rifiutò sdegnosamente il pietoso cappuccio, continuando ad urlare con il cappio al collo: – A mort lo rei… a morte lo re assassino… a morte… – fino a che, in pochi attimi, la voce strozzata, si zittì.

Alla povera ragazza, che si era fatta posto fin sotto al patibolo erano mancate le gambe, quando, aprendosi le botole poste sotto ai condannati, vide Daniset – che una beffarda sorte le aveva riservato come uomo della sua vita e poi gliel’aveva tolto – d’un tratto sceso e dondolante. Quel Daniset, fino a quell’istante ancora incredulo di essere proprio colui al quale stava succedendo tutto ciò, agitò le gambe solo per pochi secondi per poi fermarsi inerte.

La settimana successiva non la cercai; intuivo fosse il caso di far scorrere del tempo perché il disagio e il dolore di quella fanciulla fosse un po’ lenito. Ma dopo qualche giorno ancora non ressi alla mia impazienza; bussai alla porta della casa al “manso” di Antoniut, ma vennero ad aprirmi soltanto alcuni bambini che, incuriositi, uscirono fuori della porta per osservarmi meglio e che poi con indifferenza visto che, meravigliato, facevo silenzio, mi chiusero la porta in faccia.

Non rividi mai più Janeto. Una mattina di primavera, quella giovane donna nella cui figura mi ero follemente perso – quando sembrava che la vita stessa degli uomini riprendesse a scorrere, quando gli effluvi dei fiori e delle piante raccontavano la voglia della natura di ripartire – si tolse la vita.

La trovarono in fondo al pozzo, diventato per lei luogo oscuro e precipizio. Quel luogo che era assurto nel mio immaginario a portale tra cielo e terra, luogo dell’amore e simbolo di unione sponsale dove la donna di Samaria aveva incontrato Gesù. Il pozzo dei desideri e della speranza, la speranza di fare una famiglia, l’ideale vagheggiato per cui avevo lasciato il cenobio di San Francesco.

Lei aveva sopportato, chissà con quanta forza d’animo, il disagio sofferto per aver subito un uomo che non amava e che tuttavia aveva accettato. Aveva vissuto con orrore la tragedia del banchetto bagnato di sangue e infine, la cruenta esecuzione nella piazza vociante. L’immagine di quell’impiccagione le si era incisa nella memoria come un incubo e anch’io ne ero rimasto scosso.

Ma non era riuscita a reagire di fronte alla nuova imposizione di suo padre. Le avevano prospettato, dopo che avesse superato il tempo del lutto, un nuovo matrimonio. Lei era ancora vergine, la tristezza del momento non aveva inficiato la sua bellezza, così un giovane di un’altra famiglia, una famiglia relativamente benestante, aveva chiesto di lei. Antunet, che non ce la faceva più a sfamare tutti i suoi figli e a pagare le tasse che il padrone gli aveva imposto, aveva accettato.

Prima del terribile annuncio, Janeto, pur distrutta per quelle sue avversità, faticosamente si era un po’ risollevata e stava considerando se, la buona sorte non avesse tenuto in serbo per lei, finalmente un futuro più gioioso.

Mi pensava spesso; sì, me lo avevano riferito. Non ci eravamo mai sfiorati neppure con una carezza eppure sentiva di amarmi, come intuiva, anzi come sapeva con certezza perché glielo avevo detto nell’incerto provenzale: – Amb joc de mots de amor… – di essere ricambiata.

È vero che ero uno straniero venuto da chissà dove – e di ciò anche la madre era diffidente – ma lei avrebbe fatto di tutto per persuadere i suoi genitori. Invece quella decisione era stata irremovibile.

Troppe cose una dietro l’altra, troppe cose; i suoi nervi non avevano retto. Non aveva trovato altro sbocco che gettarsi in quel pozzo di acqua limpida.

Fu come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dalle viscere. Ero cosciente di essere come malato dentro e di sentirmi prostrato in un modo esagerato e sproporzionato – dopotutto, ciò che era intercorso tra noi era stato solo qualche sguardo e qualche parola – ma non ci potevo far nulla e, da molte settimane, ero anche incapace della consolazione del pianto. Pensai anche, in qualche modo che ancora non sapevo, di voler abbracciare sorella morte, l’unica strada, pensai, per non soffrire più.

Con gli occhi nel vuoto un giorno mi fermai sotto un salice. Come svuotato crollai in terra e, inginocchiato sulle zolle umide, appoggiato sui calcagni, mi presi il viso tra le mani. Memore delle mie abitudini passate, provai a pregare. Cercai quel minimo conforto che in altri tempi avevo conosciuto, come un viandante assetato, mendicante di qualche goccia d’acqua in una landa deserta. Ma non mi veniva niente; silenzio assoluto.

– Dove ti nascondi? qual reo peccato ho fatto per meritare cotal pena?... ma sei qui o quivi non sei? – urlavo in mezzo a quei campi. Iniziai ad imprecare, chiedendo conto, casomai ci fosse davvero, a quel Dio senza cuore.

Ricominciai allora a piangere copiosamente mentre mi nascondevo nel bosco confinante i campi.

Quel pianto mi fece bene, il viso mi si schiarì un po’ e nei giorni appresso agli occhi della gente sembravo diverso. Ma ero diverso solo all’apparenza; ero soltanto più placato e più lucido. La ferita, fosse più o meno rimarginata, la sentivo ancora impressa e indelebile.

Un altro giorno, ai primi di aprile, come un’anima ancora in pena vagavo per i campi già arati e seminati. Non lontano scorsi di nuovo il padrone di quelle terre insieme a sua moglie, paggi e scudieri. Caracollavano fieri sui loro magnifici cavalli dal pelo lucido che brillava al freddo sole d’inverno, muovendo lunghe e fluenti code. Ma adesso quei destrieri non significavano nulla per me. Da lontano scorsa monna Elisabeu che si era fermata e che guardava nella mia direzione ma che poi, con uno veloce scarto aveva raggiunto il suo scudiero.

Monna Elisabeu sembrava ed era donna molto affamata d’amore. Il marito non era più in grado di soddisfare tutte le sue voglie e forse, non le bastava più neppure la compagnia del suo bel scudiero. Nei mesi precedenti – attraverso un servo fidato, nei giorni in cui il suo sposo era assente – mi aveva cercato e invitato più di una volta alla sua tavola, pur essendo io di basso lignaggio. Ma niente allora mi avrebbe interessato al di fuori di Janeto, neppure la signora dalla rossa chioma. Adesso, dopo quella morte nel pozzo la sua visione, anche da lontano, mi provocava addirittura ripulsa.

Pesavano sulla mia follia anche l’aver saputo e pensato intensamente a tanti tristi fatti; non solo la vicenda dell’avvelenamento, ma anche a tutto quel livore che veniva da lontano. Il chierico assassino, l’oscura vendetta dei templari, le conseguenze ancora sanguinose della jacquerie contadina; a fronte di quegli inquietanti fatti stavo rimpiangendo più o meno inconsciamente la mia vita trascorsa in convento, serena e ordinata.  

Negli ultimi anni da postulante, nello scriptorium avevo un posto tutto mio di cui ero fiero e di cui ricordavo ancora gli oggetti che vi erano appoggiati; la pietra pomice per pulire la pergamena, due o tre lunghe penne d’aquila, il vasetto per l’inchiostro, e i libri su cui lavorare. La biblioteca non era paragonabile a quelle di altri più famosi conventi, ma il mio direttore spirituale diceva che non servissero tanti libri inutili; servivano i più importanti. Tra le varie Bibbie decorate di miniature preziose, una molto grande e ancora più pregiata troneggiava su un leggio monumentale al centro dello scriptorium. Aperta all’inizio del Vangelo di san Giovanni, recitava: In princípio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum...  – Cotesto è tutto quel che serve… lo resto è vanità dello sapere umano… – aggiungeva padre Jacobus.

Adesso, al fondo della mia anima si era invece depositata come una pesante e orribile fondata. Avevo respirato l’odio tra le persone come non mi era mai successo. Pareva che il mio destino e quello delle persone che mi circondavano fosse segnato da forze superiori a cui non ci si può sottrarre. Vedevo davanti a me soltanto l'inevitabilità del dolore umano.

Avvertivo come un senso di rassegnazione e di impotenza di fronte alla dura realtà della vita dei contadini come la famiglia di Janeto e dei poveri ancora più poveri che vedevo vagare per la campagna. Contadini e poveri – la cui vita era segnata da sofferenza, solitudine e mancanza di speranza – erano oppressi dalle ingiustizie, vittime di soprusi da parte di nobili e di ecclesiastici. Tutto adesso mi pareva ancora più oscuro, tutto senza senso.

In aggiunta ricordavo le mie insulse parole: – Se tu muori, anch’io morrò teco... – invece non ero morto, se non nell’orgoglio. Anche tale vana promessa mi era rimasta conficcata come un pungolo a ricordo della mia vacuità.

Ma, via via che passavano le settimane, in me qualcosa stava lentamente cambiando. Realizzai che, insieme al dolore per Janeto, era stato tutto questo miscuglio di sentimenti che mi aveva prostrato in un modo esagerato e sproporzionato. Il pianto sotto a quel salice era stato il primo passo verso la guarigione; l’avvertita consapevolezza di quali fossero le ferite inferte alla mia sensibilità umana costituiva la convalescenza. Le parole che da novizio non avevo ben capito mi vennero allora in mente: – ... sei homo bono... che ciò non ti faccia sofferire...

In un angolo del mio cervello e del mio cuore si stava comunque facendo largo un’idea, che diventava ogni giorno più chiara – Andare via da qui... ma dove?... a fare che cosa? –  Non aveva importanza. – ... andar via… andar via –

Avrei avvertito Francesco Datini, per la riconoscenza che sentivo di provare nei suoi confronti, ma niente mi legava ormai a quella terra, salvo l’amicizia con Bartomieu, forse.  

 

Il sole già alto di una mattina calda di inizio giugno, forse interrogandosi circa la mia meta mi stava occhieggiando mentre ero in cammino da un bel po’, avendo già superato di alcune miglia Avignone dei cui campanili e alte torri scorgevo ancora il profilo.

Bartomieu era rimasto dispiaciuto ma non mi aveva seguito benché avesse provato la tentazione di farlo; quella era la sua terra. E poi, in tutta onestà accarezzavo l’idea di rimanere da solo con me stesso nel lungo cammino che mi stava aspettando, e non avevo insistito. Il Datini aveva detto che in fondo mi capiva ma era rimasto sorpreso e deluso; non avevo accettato di lavorare nel suo fondaco – quello sarebbe stato per certo un lavoro sicuro – in quella popolosa città, la nuova Roma dei papi.

In me si stavano delineando i contorni di un’idea e di un’ispirazione. Non sapevo se fosse la risposta al mio pianto purificatore sotto a quel salice, o semplicemente una curiosità da soddisfare riguardo a me stesso.

Durante l’andata – erano già trascorsi ormai più di tre anni – mi ero fermato, appena dopo due giorni di cammino, ad Altopascio. Questo paese, brulicante di gente varia e di attività, circondato da paludi e di fitti boschi, era da tempo tappa e crocevia delle “vie romee”.

Qui, l’Ordine Ospedaliero dei Frati di San Jacopo aveva preso come proprio simbolo il segno del "Tau" stampato sui loro mantelli. Segno che evocava la forma del bordone dei pellegrini ma, al tempo stesso era anche richiamo alla croce. Per questo motivo i frati erano conosciuti come i “Cavalieri del Tau”. 

Ricordavo di essermi aggirato per quei piazzali del grande ospizio, osservando con ammirazione come quei cavalieri avessero organizzato quell’opera di solidarietà umana e cristiana. Non solo si occupavano delle anime dei pellegrini; anche la semplice accoglienza diventava ricovero e, all’occorrenza ospedale con tanto di medici e chirurghi. Ancor più si erano assunti il dovere di assicurare a ogni povero e a ogni viandante del pane per rifocillarsi.

Dell’ospizio circondato da una robusta cinta muraria faceva parte anche la chiesa di San Jacopo con la sua poderosa torre campanaria, la cui campana era detta la "Smarrita". Il suo suono infatti, all'imbrunire, indicava ai viandanti smarriti la prossimità dell'ospizio.

Anch’io ero uno “smarrito” avendo smarrito la strada maestra. Dell’autenticità di quell’ispirazione non ne ero ancora certo ed avrei avuto tutto il tempo per pensarci durante la lunga e polverosa strada del ritorno. Per immaginare che anch’io, un giorno, avrei dedicato la mia vita ai poveri e ai viandanti; per ritrovarne, in quel modo, il senso.

– fine –

P.S. In questa finzione narrativa la vicenda di Francesco di Marco Datini inserita marginalmente e in forma romanzata, è comunque fatto storico relativamente alla sua presenza come mercante affermato in Provenza.

 

MALA VENTURA – anno 1362 –

MALA VENTURA – 1362 – Gabriele, Arrigo, Michele, Oddo, Gerbino,

STREGHE

MALA VENTURA – 1362 – Gabriele, Arrigo, Michele, Oddo Gualtieri, Gerbino,

Anche quel giorno che stava declinando velocemente al tramonto come tanti altri giorni di quel gelido inverno, i dintorni di Casalguidi sembravano un paesaggio senza vita; e quando il buio calava – mitigato da qualche raggio di luna piena – l’erba risecchita e coperta di gelo brillava a quella pallida luce. Ogni singolo stelo pareva intendersi con quel bagliore d’argento a rischiarare campi e boschi, impreziosendoli. Alla fattoria la vita si svolgeva come sempre e il daffare era tanto.

Una mattina di inizio febbraio, prima del sorgere di un sole senza calore, Gabriele si era levato molto presto. Arrivato nel campo dove stava già vangando quella terra indurita per prepararla alla zappatura, rimase senza fiato: – Ho truovato Michele, che lavora meco, in una mala ventura, morto in un fosso. Tanto sanguine sparso infra le zolle e il collo fedito… – raccontò concitato subito dopo quel ritrovamento ad Arrigo, una persona alla buona ma sveglia con cui aveva legato facilmente.

Arrigo di Rosso Acciaioli, detto “il fiorentino”, era un sorridente biondiccio di quarant’anni che, con la sua cantilena un po’ monotona prendeva in giro tutti, e ne sapeva una più del diavolo. Lo ascoltò con l’aria trasognata di chi ormai non si meraviglia più di nulla, ricevendone come reazione un mezzo sogghigno, insieme all’impressione che ne sapesse già qualcosa. Gabriele invece era un giovane moro di bassa statura e di spalle larghe, e stentava a credere che nel suo campo fosse accaduta una cosa così orribile.

Non era una normale morte, ma un delitto atroce. Si era inginocchiato davanti a quel corpo sfigurato dicendo a bassa voce: – De profundis clamàvi ad te Dòmine; Dòmine, exàudi vocem meam… –

Lui si ricordava ancora di alcune preghiere per i defunti. Il suo babbo era contadino e tuttofare alla pieve di San Leonardo a Cerreto Guidi e Gabriele assisteva il pievano nelle celebrazioni della Messa e durante i funerali; e di questi se ne officiavano almeno tre o quattro al giorno ai tempi in cui imperversava la terribile peste nera, intorno all’anno 1348. Di Michele, di quel compagno che aveva rinvenuto in un fosso orrendamente sgozzato – persona restia nel fare confidenze e che era arrivato da un paese del Mugello – non sapeva molto.

Si interessò del caso il magistrato del “Castrum” di Serravalle Pistoiese, castello passato da circa vent’anni alla dominazione fiorentina. Ma per un po’ di quella faccenda non se ne seppe più nulla.

Dopo la morte dei suoi genitori – anch’essi avevano subito quella stessa sorte – Gabriele era stato affidato a Gualtiero, un lontano cugino del babbo che aveva moglie e tre figli nella campagna di quella piana. Gualtiero, per lontana origine – come ramificazione di un ceppo nobiliare – era discendente di un vassallo del vescovo di Pistoia. Adesso era semplice villano pur benestante di una fattoria, proprietà del castello di Serravalle, a cui pagava un affitto esoso.

Gabri – come lo chiamavano gli amici – che per lungo tempo era stato d’intorno ad appestati vivi e morti, rimanendone indenne quasi per miracolo – essendo di buona volontà – si era ben adattato al verso che aveva preso ormai la propria vita.

Erano trascorsi alcuni mesi e Gabri stava cominciando a dimenticare quel brutto episodio quando, un giorno di giugno dell’anno 1363 Landolfo Falconieri, barone e proprietario di quelle terre, e insediato come podestà del castello di Serravalle da Cosimo I De’ Medici, fu avvelenato durante uno dei tanti banchetti. Sfarzosi banchetti che il nobile, magnanimamente, offriva alla corte dei suoi amici e ruffiani.

Di indole bellicosa, invece di amministrare la legge per conto della signoria fiorentina, cercava di risolvere con il linguaggio delle armi i conti in sospeso con i proprietari confinanti. Aveva quarantasei anni e si circondava di molti cavalieri armati.

Quel giorno era contrariato per il vino scadente e se ne lamentava quando un servo, comandato non si sa da chi, gli portò un altro vaso di vino, dicendo che fosse quello buono. Il barone e i suoi cavalieri, soddisfatti, ne bevvero allora alcune coppe tutte d’un fiato, ma dopo pochi minuti gridarono qualcosa con voce strozzata, si alzarono in piedi allarmati, cominciarono a contorcersi dal dolore e poi caddero a terra pesantemente, in mezzo al proprio vomito e al vino rigettato.

Subito intervennero gli armigeri che circondarono le sale del castello, e i maschi adulti presenti al banchetto, compreso i servitori e i cuochi furono portati via.

Fu un avvenimento scandaloso, che mise in subbuglio gli abitanti delle terre a nord e a sud del castello fino a Casalguidi. Tutti rimasero colpiti da quell’avvenimento.

Alcuni giorni dopo Gabriele rimase ancor più sconvolto. Alzatosi prima del canto del gallo passò dalle stalle dove la sera precedente aveva osservato una vacca gravida che era in procinto di partorire.

Ma, appena varcata la porta dello stabbio aveva trovato, appeso alla trave portante per le gambe divaricate, un uomo decapitato e quasi nudo. Il sangue, non molto, in parte rappreso e mescolato alla paglia, aveva formato una piccola pozza di color rosso scuro sotto a quel disgraziato. Il corpo livido, completamente dissanguato e tutto il resto, rammentavano con raccapriccio la macellazione del maiale che anche lui aveva imparato a fare nei mesi freddi dell’inverno. Gli venne di coprirsi gli occhi: – Dio mio, ma… qual cosa succede… –

Presto, richiamati dalle voci concitate accorsero tutti gli abitanti della fattoria. Una voce, un urlo si levò sopra a tutti. Era la moglie del contadino ammazzato che gridava: – Il mio Nello… il mio Nello… che gli hanno fatto… – Accorsa come tutti gli altri l’aveva riconosciuto subito nonostante che, inspiegabilmente, la sua testa non fosse da nessuna parte. Disse che la mattina non lo aveva trovato nel suo giaciglio ma aveva pensato si fosse alzato molto presto per qualche lavoro da fare. Quella testa, cercata in tutti gli angoli – qualcuno andò a vedere perfino nel porcilaio – non si trovò mai.

Questa ultima tragedia si seppe avesse anche dei risvolti particolari che, se non fosse stato per il ribrezzo dell’epilogo, sarebbero stati degni di una di quelle storie piccanti, vere o di fantasia, che volentieri si raccontavano al canto del fuoco. Dunque, a quanto pare, questo Nello e sua moglie, specialmente nelle sere umide d’inverno, nel tepore della stalla, dividevano il loro giaciglio con un’altra giovane coppia di contadini; e della cosa si mormorava già da tempo.

Per lungo tempo Gabriele non riuscì a cancellare dalla mente quella testa mancante – sicuramente rotolata per terra prima che qualcuno la facesse sparire – e tutto quel sangue: – … ma perché?... e qual legame lo doppio adulterio con cotale corpo acciondolato… – si chiedeva con angoscia. A molti venne di pensare che quella modalità atroce con la testa mancante non fosse soltanto frutto di una mente malata, e che forse tutto quanto avesse un qualche significato. 

– E se fusse opera del dimonio? – si chiedeva Gabriele. Si ricordava che padre Ludovico, nelle prediche al popolo, non ricorresse volentieri all’immagine del diavolo né a quella dell’inferno, come erano usi fare con efficacia alcuni popolari predicatori del tempo i quali – sgranando gli occhi atterriti e battendo con forza i pugni sul davanzale dei pulpiti – impressionavano i fedeli. Invece il buon pievano, pur convinto che il principe delle tenebre esista eccome e che anzi, come un leone ruggente egli cerchi continuamente qualcuno di divorare, esortava a non fissarsi troppo: – Anzi... priegate ancor più la madre di Gesù… ella vi proteggerà dal male... e anco san Michele Arcangelo. –

Si venne poi a sapere che Michele, il lavorante che aveva trovato sgozzato fosse molto amico dello stalliere, tal Gerbino, che era a servizio del messere avvelenato al banchetto, e che giacesse spesso con lui. Era già un particolare che colpiva la fantasia ma, notizia ancor più rilevante era che quello stalliere fosse stato sbattuto in prigione come complice dell’assassino. Avevano trovato nelle stalle del castello – le stesse stalle che assistevano agli incontri amorosi tra Gerbino e Michele – in un anfratto del muro, delle erbe velenose, tra le quali aconito, una pianta velenosissima conosciuta fin dai tempi antichi, belladonna e assenzio; ma anche sangue fermentato di toro e polveri ricavate da salamandre.

A quanto pare il povero ragazzo mugellano dovette la sua sanguinosa fine proprio al fatto che, durante una di quelle sere trascorsa in intimità, avesse casualmente trovato la buca nel muro dove erano nascosti tutti quei veleni.

Il capo del complotto – tradito e accusato da un servo delatore – tal Oddo Gualtieri, come confessò poi lui stesso, si era scagliato con veemenza contro lo stalliere a causa della sua dabbenaggine, inducendolo con parole e occhi di fuoco a ridurre al silenzio eterno il bracciante. A Gerbino non era rimasto altro da fare se non quello di uccidere il suo amante.

Il cinque di agosto, mentre erano intenti alla seminagione di bietole, finocchi, spinaci e cicoria per gli orti invernali, Gabriele confidò al suo compagno Arrigo: – Michele mi è apparito in sogno. Dissemi di disotterrare occultamente la sua testa e mettela costà, sotto all’alto fico, che lui ha voglia grande di quel frutto… – Con un sospiro pensò che quand’era ancora ragazzo a San Leonardo di Cerreto dei conti Guidi, mai aveva sognato quelle cose orrende.

Arrigo, più anziano di lui e smaliziato lo guardò perplesso; gli sembrava che l’amico se la prendesse troppo: - Sei grullo Gabri, oh che pensi sempre a cotal disgrazia... invero la unné colpa tua... –

Una sera fu proprio Arrigo – a cui in questa occasione non venne tanta voglia di scherzare – a rinvenire negli stabbi degli attrezzi usati quotidianamente dai contadini, un’ampolla ben nascosta in alto, sopra una spessa trave. Conteneva un infuso concentrato di aconito, uguale a quello trovato nella stalla di Gerbino, lo stalliere imprigionato.

Una comare, a sua volta, disse di aver notato – qualche tempo prima e senza essere vista – Nello insieme a Gerbino mentre armeggiavano con una scala a pioli nei pressi di quella trave, un mattino presto del mese precedente. Per questa e altre circostanze la congettura più chiacchierata – pur derivando in gran parte da una diceria di comare – era che proprio Nello, in combutta con quell’Oddo Gualtieri, fosse stato la persona che aveva preparato il fatale vaso di vino offerto alla fine del banchetto.

Arrivò di nuovo l’inizio dell’inverno e, una mattina più fredda del solito – Gabriele era intento alla riparazione di un tetto – arrivò ansimante nel cortile uno dei braccianti che lavoravano nel bosco. Aveva trovato, in una casupola seminascosta da macchie intricate, delle cose che a chiamarle strane gli pareva troppo poco.

Mentre si formava intorno a loro un capannello di curiosi raccontò, facendo con la bocca versi come di schifo, che all’interno di quella stamberga – ... c’enno capre marcite, ossa vetuste di cristiani, rospi infilzati con de’lunghi legni, polli di vermi e…  un’ampolla piena di… una materia vermiglia quasi nera… parmi…  sangue raggrumato –

La cosa che più di tutto lo aveva fatto scappare a gambe levate era stato il ritrovamento di una testa di morto ancora in fase di decomposizione e circondata da una famiglia di topi rosicchianti. Alcuni, compreso Gabriele, accompagnati dal riluttante boscaiolo ritornarono in quel luogo.

Quella testa, orribilmente decapitata e adesso quasi irriconoscibile, era quella di Nello; quei resti, compreso l’ampolla di sangue, sicuramente erano ciò che rimaneva di una “messa nera”. Furono molto colpiti dallo stato in cui era stata ritrovata quella povera testa; lasciata a marcire, preda di insetti e di piccoli predatori. Tutto lasciava pensare ad un abbandono improvviso della macabra cerimonia da parte dei partecipanti di quel sacrilego “sabba”.

Le credenze nella stregoneria, nell’uso di certi riti pagani e di antiche pratiche magiche, considerate dalla chiesa come eresia e opera del diavolo, in quelle campagne pistoiesi erano molto diffuse. Alcuni contadini sapevano dell’esistenza in quella zona di “sabba”, cioè riunioni di streghe e di stregoni.

Un giorno – era già trascorsi alcuni mesi da quel fatto – un boscaiolo, dopo aver alzato un po’ troppo il gomito ad un banchetto di nozze, rivelò una storia che si era tenuta per sé. Soleva dire infatti che preferiva farsi gli affari suoi, e che mettersi d’impiccio con chi contava più di lui non gli avrebbe portato nulla di buono. Ma quella sera, nel tepore di quell’aria di primavera, il vino era veramente buono e abbondante.

Raccontò, intontito dai fumi dell’alcol e fermandosi ogni tanto per raccogliere le idee, che una notte era entrato di nascosto nel bosco della fattoria per fare un po’ di legna per la sua famiglia. E, in quell’occasione, giurò di aver visto, ma senza essere visto, un misterioso terzetto.

Vide che uno di loro reggeva per la coda due gatti vivi che, cercando di liberarsi, mulinavano per aria gli artigli e miagolavano furiosamente. Lo raccontò mentre con la bocca cercava di fare il verso ai gatti e, non riuscendogli bene, faceva ridere tutti.

Disse poi che, mentre un altro teneva un sacco gocciolante pieno di qualcosa di umido, l’altro ancora, molto circospetto, camminava avanti facendo strada con un’ampolla in mano e tenendo al guinzaglio un caprone. Agitato e ancor più logorroico aggiunse che, grazie alla luna piena che si insinuava ogni tanto tra un albero e l’altro, poteva giurare di aver riconosciuto nell’ultimo figuro Gerbino lo stalliere.

Sul momento non ebbe la voglia e il coraggio di seguirli e proseguì per la sua strada; ma dopo un bel po’, tornandosene a casa alle prime luci dell’alba, intravide una costruzione diroccata in mezzo a un boschetto fitto di castagni. Abbandonò le fascine del legname raccolto sul sentiero e, dopo aver percorso mezzo miglio sentì un urlo inumano e prolungato forse di donna e, appena dopo, rumori di passi veloci provenienti dalla parte opposta. Credette anche di intravedere in lontananza una vecchia con un cappello nero. Secondo lui era una strega bella e buona.

Non ebbe l’ardire di proseguire; tornò indietro e, raccolte le sue fascine corse via, mentre quell’urlo seguitava ad entrargli negli orecchi. Successivamente non disse niente a nessuno.

Ma quella storia sconclusionata fu sentita anche da un mercante presente a quel banchetto il quale, il giorno seguente, andò a raccontarla proprio a Gualtiero, lo zio di Gabriele che in quel momento stava dando “il pozzo nero” nell’orto alle prime piantine di pomodoro. Gabriele che in quel momento era vicino rizzò le orecchie e sentì di quel nome.

Esitò, non sapeva se parlarne con qualcuno, ma non fu necessario sciogliere quel dilemma perché il racconto, di bocca in bocca arrivò presto anche alle orecchie del magistrato del castello di Serravalle. Il quale, per non sbagliare, chiamò subito Gerbino per interrogarlo e di fronte alla sua sdegnata reazione non trovò di meglio che trattenerlo in catene, per poterlo interrogare con i metodi di quell’epoca.

Quindi il mistero pareva finalmente risolto. Il complotto, ordito dal pistoiese Oddo Gualtieri, un nobile di parte guelfa della fazione dei Neri capeggiata dalla famiglia fiorentina dei Donati, rientrava nell’ambito di una più vasta lotta politica – come un colpo di coda nell’annosa lotta tra Bianchi e Neri – nella quale Gerbino, Nello e il servo delatore non erano stati altro che ignare pedine.

Al magistrato parve che la storia della “Messa Nera” e delle altre misteriose suggestioni fosse l’utile contesto di cui il Gualtieri si era servito per attuare il suo piano. All’interno di tale intreccio, l’orribile morte di Nello, il contadino che pure era stato parte attiva del complotto, aveva il suo significato in una storia di passionali gelosie tra amanti.

Gabriele scoteva il capo, preso com’era da sentimenti contrastanti. Infatti quelle conclusioni – non si seppe come fossero trapelate fuori dal castello di Serravalle – gli parevano insoddisfacenti.

Lui sì che aveva visto tutto, pensò; la morte sanguinosa di Michele, il corpo di Nello appeso per le gambe, la sua testa mozzata nella casupola piena di vermi. Per cui, insieme a un sentimento di inquieta delusione, Gabri bruciava d’irrefrenabile curiosità; la descrizione della visita notturna del boscaiolo lo aveva molto colpito.

Decise che una notte sarebbe andato lui, da solo, in quel bosco. Voleva vederci chiaro e non aveva paura di nulla: – Glielo fo vedere io alla strega... io non ci credo alle streghe. –

In realtà, pur ostentando a se stesso quella baldanza, come tanta gente di quelle campagne provava una strana attrazione e un’inconsapevole e inconfessata credulità nei confronti di quel mondo di mistero. Non ne volle parlare ad Arrigo temendo di essere preso in giro.

Una notte di plenilunio, proprio come nel racconto del bracciante, si incamminò in quel bosco. Camminava circospetto e attento a dove mettere i piedi tra rami e foglie secche per non far rumore finché, dopo meno di un’ora arrivò alla casupola coperta da rampicanti e macchie di rovi; quella già vista mesi prima con la capra marcita, ossa di cristiani, rospi infilzati e polli ripieni di vermi. Dentro non c’era nessuno e un raggio di luna mostrava ancora i soliti vermi intorno al pollo e ai rospi; della capra era rimasta solo la pelle.

Ne uscì e proseguì ancora; il bosco saliva su per il monte e si faceva sempre più fitto e più buio. Si lasciò guidare da un impensato sesto senso che credeva di non avere, come se qualcosa dentro di sé gli indicasse dove andare. Ad un certo punto un vibrare allegro come l’eco di una risata si levò all’improvviso nella notte, più lontano, oltre le fronde di un compatto bosco di querce. Un brivido gli corse lungo la schiena.

Passò oltre e finalmente la vide; la casa al centro di un bosco di castagni, quella descritta confusamente dal bracciante, quella che la sua immaginazione credeva di aver già visto e che ora voleva veramente vedere. Sbirciò dalla finestra ma non vide nulla. Sentì però una strana cantilena, parevano voci di donne. Si spostò davanti a un’altra finestra; anche questa era opaca ma qualcosa si intravedeva; con meraviglia intravide figure che danzavano intorno a una sedia vuota.

Prese coraggio e si avvicinò alla porta che era socchiusa. Era appena entrato quando un forte colpo alla testa gli fece perdere conoscenza.

Dopo un tempo che non seppe quantificare – poteva essere un minuto o un’ora – si svegliò. Mosse le braccia ma non riusciva a sollevarle. Certi nastri gli stringevano i polsi, altri gli bloccavano la vita e le caviglie e, incredibilmente, scoprì di essere appeso ad una parete. Era completamente avvolto da una ragnatela di legacci di cuoio morbido che odoravano di gallina messa sul fuoco per la pulizia delle piume – quell’odore gli era sempre rimasto impresso – come faceva la sua mamma quando era ancora viva e lui era un bambino felice.

Fu investito da un conato acido che gli riempì la gola e che gli salì verso la bocca; si girò e si vomitò addosso. Si sentiva come una mosca catturata da un enorme ragno.

Quando gli occhi si abituarono al buio di quella stamberga, si guardò attorno; brillanti occhi gialli e verdi di gatti dalle pupille dilatate come indemoniati, tanti gatti di ogni grandezza e tutti neri che lo fissavano. Alcuni di essi emettevano strani gorgoglii, altri profondi miagolii gutturali o minacciosi e ringhiosi soffi. Sentì lo svolazzare di un corvo anch’esso nero che si posò sulla sua spalla, mentre un gufo appollaiato sul davanzale della vicina finestra faceva intanto il suo lugubre verso.

– Ma dove... – che succede, dove sono?... chi mi ha legato in codesto modo... – Deglutì con fatica. Era incredulo, non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere.

Pareva non ci fosse nessuno, invece improvvisamente apparvero tre vecchie intorno al corpo squarciato di un piccolo cinghiale. La più giovane delle tre aveva le mani sopra a quella carcassa e le stava strappando il cuore: – ... i toi serve ti sentunu... Pala 'nzità, pala 'nzitata, allippa! – Al che la seconda strega rispose:Bab al Sheitan, bab al Sheitan Alep... –

 

Poi quelle due streghe, a quanto pareva entrambe forestiere, l’una di terra di Sicilia, l’altra barbaresca, sparirono nel nulla e rimase la più vecchia. Questa con la mano si strinse la gola nel gesto di strangolarsi e, mentre strabuzzava gli occhi come un’impiccata la lingua le penzolava dalla bocca. Con una risata sguaiata la vecchia strega mise fine a quella pantomima.

Era orrenda. I denti non c’erano più e due gengive bluastre sbucavano dalle sue pallide e sottilissime labbra. Dal suo capo unto saltellavano pidocchi. Ridendo aprì un cassetto e un gruppo di teste rinsecchite di gatto rotolò sul pavimento, un pavimento quasi interamente coperto da strati di vecchi ossi sbiancati, tibie e pezzi di crani umani: – Sono gatti... i miei poveri mici... quelli che mi hanno lasciato –

Continuò per un po’ dicendo quanto amasse i gatti e che loro fossero i soli di cui si potesse fidare. La voce della vecchia era la voce di Arrigo; la cantilena era la stessa e perfino alcune parole erano quelle che usava il fiorentino.

La strega si tolse allora il cappello nero a punta, si avvicinò e gli mise un dito lurido e pieno di croste sulla bocca. Gabriele sentì salire di nuovo l’urto di vomito, poi fu percorso da un brivido. Un sudore gelido gli colava dalla fronte e lungo le guance bagnandogli il collo.

– Cosa vuoi farmi? – Niente... voglio che tu mi faccia compagnia per sempre, fino a quando anche te, come i gatti, come tutti quelli che hanno la fortuna di morire, muoiono. –

Gabri emise un gemito. Il cranio della strega era glabro e coperto di bubboni grossi come mele o pere; alcuni sembravano piccoli teschi di gatti morti, con nasi e bocche appena abbozzate. Sotto ciascun orecchio la vecchia aveva un foro purulento da cui sgorgava liquido nero insieme a pus violaceo. Lunghi capelli spessi e solitari, tra un bubbone e l’altro si allungavano sul collo rosso e avvizzito come quello di un tacchino e poi sulle spalle, sfilacciandosi come spaghi.

Starai qui con me... mi darai una po’ del tuo sangue e ci terremo compagnia. – sussurrò la vecchia. Questa volta la voce nasale era quella di una vecchia sdentata. La strega scosse allora quel capo mostruoso e il liquido nero si riversò per terra diffondendo odore acuto di carne marcia e di pesce andato a male.

– Io sono il ragno e tu sei l’insetto nella tela, vivo, immobile, in attesa della fine. La mosca presa non sta poi così male, senza fame né freddo...  in pace. Ho deciso di donarti la pace... – Gabriele inorridì; questa era la voce della sua mamma che non sentiva da tanti anni. – Mamma, sei te? – Glielo fo vedere io alla strega... io non ci credo alle streghe... – Adesso la voce che usciva dalla vecchia era la sua, e le parole erano quelle che lui aveva detto la sera prima. Quello che stava vedendo e sentendo lo pietrificava dall’orrore.

Disteso per terra sul pavimento di quella stamberga, accanto alla porta, aveva ripreso i sensi ma sentiva un gran male alla testa. Se la toccò, sentì del sangue rappreso tra i capelli poi, dolorante, si alzò; era buio pesto.

Improvvisamente attraverso le finestre apparve, liberata dalle nuvole, una spera di luna. Nella vecchia casa composta di un’unica stanza, non c’era nessuno; né gatti, né vecchie streghe. Appese al soffitto c’erano dei cenci di seta chiara – messi lì chissà per quale scopo – ed erano quelle le figure danzanti che aveva intravisto da fuori. La cantilena, pensò, poteva essere stata il richiamo di un gatto in amore nascosto da qualche parte nel bosco.

Si toccò ancora la testa; quella botta comunque non era stata un’immaginazione. Decise di andarsene alla svelta; non si sentiva troppo bene e c’era parecchio da camminare. Dopo aver camminato per quasi un’ora senza pensare a nulla, desideroso di allontanarsi prima possibile da quel posto – dopotutto quel brigante che lo aveva percosso, forse con un bastone, poteva essere ancora in giro – si ricordò e cominciò a rivivere tutto l’orrore di quel sogno.

Ad un certo punto – riviveva quell’incubo in un modo talmente chiaro da parergli di sentire ancora la stretta dei lacci intorno ai polsi – cominciò a tremargli le gambe, tanto da doversi fermare. Si sedette su un vecchio tronco in una piccola radura. – Ma era davvero un sogno? – dubitava.

La luna si era di nuovo nascosta ed era così buio da non potersi vedere neppure la punta del proprio naso; ed era ancora impaurito. Si rammentò allora di una preghiera a san Michele Arcangelo che gli aveva insegnato il pievano e la disse con fervore accompagnandosi con ampi segni di croce. Rinfrancato ripartì e non si fermò più.

Era quasi l’alba quando, in lontananza e con sollievo, vide la fattoria. Sfinito si buttò sul suo pagliericcio. Era ancora dolorante per quella bastonata ma avrebbe dormito solo per un’ora o due; doveva farsele bastare. Nessuno si era accorto della sua assenza e decise che non avrebbe raccontato nulla a nessuno, neppure ad Arrigo.

Fino a che, al mattino seguente proprio il “fiorentino” – incontrandolo – sgranò gli occhi e, fissandogli i capelli, fece una strana smorfia: – Oh icché t’ha fatto Gabri? –  Perché?... icché ho fatto? –

Li accanto, nel fossetto contornato da salici piangenti c’era un piccolo specchio d’acqua. Il ragazzo di Cerreto vi si specchiò come il mitico Narciso ma senza innamorarsi della propria bellezza.

Fece un urlo e si mise, incredulo, le mani nei capelli. Gli erano diventati completamente bianchi.

Ripreso dallo spavento e dalla incredibile sorpresa gli toccò per forza spiegargli ciò che gli era capitato. – Avesti un brutto incubo Gabri. Consiglioti fare una bella e sana dormita... non ci penserai più. – gli disse l’amico, stranamente evitando toni sarcastici nei suoi confronti.

Gabri tornò in casa, si coricò di nuovo e, stanchissimo cercò di dormire. Nel pesante ottundimento che non era ancora sonno, mentre occhi gialli e verdi di gatti lo fissavano brillanti e misteriosi, gli parve di sentire una strana cantilena, una cantilena di donne che – lui sempre più avvinto nelle braccia di Morfeo – danzavano silenziose: –  ... sicreti chi nascondemmo rintra a notti, quannu oscuro era u destino du nnostru camminu... accauora nuatri purtamu verso a luci... –

  

 – fine –

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